ZANZOTTO E L’ IMPOSSIBILE DELLA PEDAGOGIA
di
Alberto Russo Previtali
Il momento
della riapertura delle scuole implica sempre per il corpo sociale il dovere di
guardarsi allo specchio. Riapre il luogo deputato dallo Stato all’educazione e
all’istruzione dei bambini e degli adolescenti, riapre qui e ora, in una data,
in un preciso tempo storico. È indubbio che nella scuola, al di là della sua
storia e delle sue contraddizioni, pulsa la necessità originaria della
pedagogia, inseparabile dall’idea di civiltà. Ma è altrettanto vero che la
pedagogia deve sempre essere messa in atto in un preciso contesto sociale, e
questo contesto, da sempre dominato da logiche belliche ed economiche, si pone
come negazione dell’ideale più intimo della pratica pedagogica. Ecco, dunque,
che chi è chiamato ad accogliere i ragazzi e a realizzare, nella parola e negli
atti, l’opera educativa, si ritrova sempre nella pesante e triste necessità di
dover sopportare una contraddizione essenziale, che ad ogni passo costringe a
un confronto con un ideale di miglioramento, ma anche con i molti modi della menzogna.
Ecco che
nell’anno in corso riaprono le scuole, i ragazzi conoscono di nuovo il tempo
dell’inizio, il tempo di un rinnovato rapporto con i docenti, con i compagni e
con il sapere. Riaprono le scuole in un rinnovato scenario internazionale di
guerra in cui sono coinvolte l’Italia e l’Europa; riaprono in una sempre più
palpabile crisi del modello democratico e dei suoi fondamenti di libertà e
tolleranza; riaprono dopo un’ulteriore fase di inazione globale di fronte alla
catastrofe ecologica. Le scuole riaprono malgrado tutto questo, ma anche contro
tutto questo. Poiché è certo che, se esiste una speranza e una promessa di
emancipazione dalle forze distruttive, questa speranza non può non coinvolgere
anche l’impossibile della pedagogia e della scuola.
Il rapporto
insanabile e contraddittorio tra storia in atto e educazione è uno dei punti
più incandescenti della poesia di Andrea Zanzotto. È un punto che incide in
tutta la sua opera, attraverso la centralità del connubio strettissimo tra
poesia e pedagogia. In alcuni testi fondamentali, questo punto emerge in modo
dirompente nello spazio dei significati. Nell’Ecloga IX. Scolastica, una
delle vette della poesia di Zanzotto, è proprio la riapertura delle scuole a
far emergere il sentimento di sospensione e di vuoto rispetto al senso che la
collettività è continuamente chiamata a dare all’insegnamento scolastico. È una
sospensione che crea degli scambi continui tra ansia e speranza, tra
smarrimento e promessa, tra rinuncia e impegno. Il dialogo tra il poeta-docente
e la poesia (le persone a e b dell’ecloga) si
concentra sull’impossibile immanente alla relazione educativa, nel suo
necessario ma sempre mancato legame con il paesaggio e con la terra:
Sorgono i
bimbi da lane e stupori
d’autunno,
scendono
dalla casa
cui l’ape e la dalia
fanno lustro
sempre più dimesso,
e il sole
aiuta il pane e la pioggia
aiuta il
bere. […].
Vengono i
bimbi, ma nessuna parola
troveranno,
nessun segno del vero.
Mentiremo,
mentirà il mondo in noi
e anche in
te, pura[1].
È proprio a
partire da questa menzogna fondante, dal vuoto incolmabile che abita la poesia
e la pedagogia che, nel tempo dell’inizio, del primo giorno, il poeta-docente
può cercare un orientamento, una via praticabile verso un insegnamento fondato
sul legame tra paesaggio, terra, amore e sapere. Questa via non sarà quella di
una parola venuta dall’alto, di una verità rivelata e assoluta: “nulla, nulla
dal profondo autunno, / dall’alto cielo verrà, nessun maestro; nessun giusto
rito / comincerà domani sulla terra”[2]. La poesia indica al poeta-docente due
direzioni contrapposte e correlate. La prima è la necessità del contatto con il
senso dell’origine, con la profondità millenaria della tradizione e della
trasmissione, espressa in questi versi altissimi:
Riudrai le
voci del profondo autunno,
del
magistero, del pozzo profondo,
se sapesti
udirle nel primo
giorno, se
sapesti che primo
è ogni
giorno[3].
Il primo
giorno non è dunque dato una volta per tutte, non è un principio mitico da
custodire e tramandare fissamente; il primo giorno si ripete, ritorna
continuamente in nuovi inizi, nei quali il senso dell’origine deve essere
coniugato con l’esposizione al tempo propizio, al tempo del kairos.
La seconda via indicata dalla poesia è dunque quella dello sforzo di coniugare
questi due tempi, di riattualizzare l’origine nel qui e ora dell’atto
pedagogico, per riuscire a far sorgere da questa unione una promessa, un tempo
messianico. Questo significa recuperare il senso letterale e concreto della
parola insegnamento:
Come a lui
che insegnava
agli operai
quanto sia nitido
il segno sul
foglio ed il taglio nel legno;
vale ogni
segno, ogni taglio, estinzione
del troppo e
del vano, ombra aggredita[4].
Per sfuggire
alla menzogna, l’insegnamento deve dunque realizzarsi nella singolarità dei
segni e dei tagli, nei gesti del docente che cercano di cogliere l’essenziale
della relazione educativa e soprattutto di porsi come tracce di un impegno
profondo, di un’ostinazione nella pedagogia come creazione e confronto con il
vuoto, nonostante tutto: “Non essere stanco / di durare tra le albe, esse
faranno / verità della nostra menzogna”[5]. Questi versi sono un richiamo, spingono
a pensare seriamente che l’idea di “segnare” i discenti, di lavorare per
imprimere in loro, nel qui e ora storico, un segno del “magistero”, deve essere
pensata come il fine primo dell’istruzione, al di là di astratti progetti
curriculari o enciclopedici. Per fare ciò, occorre che il docente entri davvero
nello spazio infondato del poetico, che si ponga, cioè, nella dimensione del
‘fare’, del creare segni e tagli carichi di un vissuto in cui gli slanci
amorosi verso il sapere, la tradizione e la terra siano entrati in contatto tra
loro. Questa pedagogia fondata sulla custodia del vuoto e del gesto singolare
si confronta con un impossibile metastorico, ma in ogni sua attuazione è sempre
esposta alla storia qui e ora.
Nell’Ecloga
IX, le forze distruttive della storia in atto sono solo evocate, tra
parentesi, nella prima strofa del testo, attraverso la voce della poesia: “(ed
è sale di libere / uve, industrie animali, / programmata efficienza,
vittorie)”. Nel poemetto Gli Sguardi i Fatti e Senhal queste
forze vengono invece nominate in modo ossessivo a partire dal trauma
dell’allunaggio, sentito come dissacrazione del mito lunare causato dalle
pulsioni di dominio delle grandi potenze e dallo sviluppo incontrollato della
tecnica. Le cinquantanove voci del poemetto in dialogo con la voce centrale
cercano di dare un senso al “Fatto” attraverso diverse linee tematiche chiamate
a metaforizzare “il ferimento”, a ricoprirlo con i più svariati senhals.
Tra queste linee emerge anche la linea pedagogica, che pone in relazione la
dissacrazione del mito lunare con la possibile regressione civile della
collettività:
Il
bimbo-lupo di Wetteravia
il 1°
bimbo-orso di Lituania
la
bimba-scrofa di Salisburgo[6]
giungono le
mani giungono le zampine
i pueri feri
noi pueri feri mi congiungo
orando pro e
contra sul tema del ferimento[7]
Di fronte
alla barbarie della storia, la pedagogia e i suoi ideali sprofondano, e
l’immagine dell’uomo diventa quella degli enfants sauvages, degli
umani che si scoprono indistinguibili dagli animali per ferocia e sottomissione
alle leggi della sopraffazione. Questa minaccia risuona con grande densità nel
poemetto Misteri della pedagogia che apre Pasque,
e il cui tema principale è l’apertura del Centro di lettura (di nuovo un
inizio, un primo giorno). Questo momento inaugurale è svuotato del suo senso e
della sua forza simbolica a causa della sterilità delle cerimonie ufficiali,
che rivelano una concezione retorica, vuota e punitiva dell’istruzione, sulla
quale il poeta riversa la sua finissima ironia:
Qui si
somministra la dolcissima linfa del sapere:
anche ad ore
impensate
e i
fanciulli e i vecchi suggono
è certo che
apprendono al Centro di Lettura:
e si imparte
e comparte la vivanda
si tira
l’orecchio al distratto
si premia e
castiga con frutto […][8]
Qui
l’ironia investe anche l’azione dello Stato che cerca di favorire la cultura
con una strategia di “programmata efficienza”, creando certamente dei luoghi
utilissimi ma che non bastano da soli a garantire una diffusione del sapere
come opera pedagogica capillare. Il Centro di lettura come luogo di diffusione
del sapere per tutti si scontra infatti con il lato burocratico
dell’istituzione scolastica, classificatorio e selettivo: “Avrò un voto /
basso, di annientamento, / sarò castrato dalla pedagogia”[9]. La fine del poemetto rivela però un
livello di contraddizione ancora più alto, creato dall’azione dei poteri più
fondanti e distruttivi:
Fuori
pedagogia out out, contro
i meli e le maestre
le
potenze… i prìncipi… li scruti dalla finestrina dall’oblò
trafiggono
imprendono gestiscono
non
conoscono le sazietà gesticolano impalano
si fanno
razzi scoppiano
in corolle
di scintille lassù…)[10]
Il “fuori”
invalida e ridicolizza gli ideali e i valori della pedagogia, ispirati al
rispetto, all’elevazione spirituale, al goût de l’effort, alla
sublimazione pulsionale. Negli anni in cui sono stati scritti i versi che
abbiamo attraversato, il “fuori” che minaccia la poesia-pedagogia è
rappresentato soprattutto dall’avvento della società dei consumi e
dall’equilibrio atomico del terrore durante la Guerra Fredda. Proprio
quest’ultimo fa irruzione nel breve componimento La pace di Oliva,
nel quale la situazione ordinaria della tensione disciplinare tra il docente e
gli alunni viene messa in scena attraverso la metafora del conflitto tra le
superpotenze:
“Voi là, in
fondo. Fermi!
La
smettete?” Smettiamo
riponiamo
smorziamo
specularmente
fermi nel mattutino dolcore
in un
portento ~ in un
equilibrio
del terrore[11].
In un passo
come questo, Zanzotto rivela tutta la sua sottile maestria nel fare della
poesia il luogo in cui l’interazione tra la contraddizione storica, il vuoto e
l’impossibile della pedagogia può diventare percepibile, al di là di ogni
discorso argomentativo. Ma Zanzotto non è solo un grande poeta capace di fare
emergere nei suoi testi compositi e polifonici le istanze più aggressive della
contemporaneità. Mentre nomina il male, il poeta invoca sempre anche il suo
contrario: la necessità di appellarsi a un “principio ‘resistenza’”[12], di puntare sull’impossibile della
poesia, nonostante tutto, e a maggior ragione quando i destini generali
sembrano indirizzati sul cammino della catastrofe. Così, proprio nei
componimenti più apertamente e approfonditamente dedicati al tema pedagogico,
alla fine emerge un “ma” di pura resistenza, un “ma” che ricorda il dovere
etico di continuare comunque a stare nel “fare” della poesia e della pedagogia,
nella loro oltranza, poiché “fuori” di esse non vi è che un destino già
scritto:
ma il Centro
di Lettura
ma nuove
pedagogie per i morti e forse per gli altri
oltre forre
e boschi escogitate…[13]
[…] è come
se
in questo
andare che non ha ancora
senso, ma
già rifiuta la paura
rifiuta il
silenzio […]
io sia colui
che “io”
“io” dire,
almeno, può, nel vuoto,
può,
nell’immenso scotoma
“io”, più
che la pietra, la foglia, il cielo, “io”:
e, in
questo, essere indizio, dono
dono tuo,
agli altri donato[14].
Questo “Ma”
è un segno prezioso, impossibile da trovare in un trattato o in un saggio di
pedagogia. A partire dalla forza della negazione, esso prova a porsi come fonte
di un rinnovato desiderio, di un riscoperto entusiasmo per un ideale di
elevazione. Dopo avere attraversato poeticamente il male senza mai negarlo, la
poesia genera questo taglio, questo “ma” che non si piega alla rassegnazione e
da cui possono nascere segni e tagli capaci di diventare per i bambini e gli
adolescenti il dono di una prospettiva di senso, la promessa di un legame
sociale non colonizzato in profondità dalle “potenze” e dei “prìncipi”, dalla
loro mancanza di “sazietà”.
Che questo
“ma” zanzottiano sia di buon augurio a tutti i docenti, gli educatori e gli
alunni che iniziano in questi giorni il nuovo anno scolastico.
Note
[1] A. Zanzotto, Ecloga IX.
Scolastica, in Id., IX Ecloghe, in Id., Le poesie e
prose scelte, Mondadori, Milano, p. 255.
[2] Ibid.
[3] Ivi, p. 256.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] A. Zanzotto, Gli Sguardi i
Fatti e Senhal, in Id., Le poesie e prose scelte, op. cit., p.
366.
[7] Ivi, p. 368.
[8] A. Zanzotto, Misteri della
pedagogia, in Id., Pasque, in Id., Le poesie e prose
scelte, op. cit., p. 381.
[9] Ivi, p. 384.
[10] Ivi, p. 386.
[11] A. Zanzotto, La pace di Oliva,
in Id., Pasque, op. cit., p. 389.
[12] Cfr. A. Zanzotto, Retorica su:
lo sbandamento, il principio “resistenza”, in Id., La Beltà, in
Id., Le poesie e prose scelte, op. cit., p. 305.
[13] A. Zanzotto, Misteri della
pedagogia, op. cit., p. 386.
[14] A. Zanzotto, Ecloga IX.
Scolastica, op. cit., p. 257.
Articolo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/
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