La forza sociale chiamata speranza
Dalla critica allo sviluppo alla lotta contro l’estrattivismo: mentre il rischio di estinzione della vita sul pianeta comincia a diventare un incubo collettivo, è l’idea di speranza come forza sociale radicata, in forme diverse, nel presente ad offrire oggi un orizzonte di senso a tanti e tante. Riallacciare il filo che lega Ivan Illich, tra gli altri, con Gustavo Esteva, come fa qui Aldo Zanchetta, consente di avere a disposizione un faro per orientarsi nel buio del tempo che viviamo
Puntuale come sempre, in luglio è arrivato l’annuncio dell’incontro annuale in settembre promosso dalla rivista L’Altrapagina, un mensile locale edito a Città di Castello e promosso oltre quarant’anni anni or sono da Achille Rossi, quell’irripetibile personaggio che qualcuno ha definito, in modo che più appropriato non si può, l’”ultimo parroco di campagna”, che ne cura tuttora il dossier centrale. E come sempre il tema del convegno, articolato su due giorni, è di drammatica attualità: “Un pianeta al collasso” (questo articolo è stato scritto prima dell’incontro a Città di Castello).
Mi concedo una nota personale: per molti anni ho partecipato regolarmente a questi incontri dove un paio di centinaia (o forse anche più) di persone motivate, venute da varie parti d’Italia, riempiono il Teatro degli Illuminati per ascoltare ma anche dialogare, dentro o fuori dagli spazi e tempi programmati, con i relatori e con vecchi amici con i quali si riprendono i fili di discorsi avviati l’anno precedente. Un clima conviviale raro in questo tipo di eventi che stimola il “senti-pensiero”. Poi le difficoltà di salute mi resero progressivamente difficile la partecipazione e da sei anni non sono più stato presente. Ma mi manca.
La scelta dei temi volta a volta affrontati è stata sempre in sintonia con la situazione mondiale. Alcuni esempi: “Reinventare la politica – dal monologo ideologico al dialogo interculturale” (1995, con Raimon Panikkar fra i relatori); “Con gli occhi del sud” (1996), “Il ritorno della guerra” (2002) e via di seguito. Fu in quest’ultima occasione che conobbi Ivan Illich col quale nacque, grazie a don Achille, una breve e intensa amicizia che portò ad alcuni incontri ravvicinati. Però, sfortunatamente, due mesi dopo l’ultimo, alla vigilia di un nuovo più lungo incontro, perché sarebbe tornato “per morire al sole di Toscana”, ci lasciò improvvisamente chinando il capo sui fogli che stava annotando.
Mi lasciò un dono prezioso, del quale gli sono grato, e cioè l’amicizia con Gustavo Esteva, durata ben tredici intensi anni. Alla fine di un pranzo consumato “nella cucina di Samar, nelle Cure di Firenze”, come scrisse in un suo libro che gli avevo chiesto di firmare, avendo appreso dei miei viaggi filo-zapatisti in Messico, estratta dalla giacca un’agenda fitta di nomi mi scrisse il suo numero di telefono raccomandandomi «è un tipo da conoscere». E così accadde.
Ivan Illich era uno sciamano?
Torno al tema dell’ormai prossimo XXXVI Convegno: “Un pianeta al collasso”. Del possibile collasso del pianeta Terra Illich aveva scritto più di cinquant’anni or sono nel capitolo VII del suo libro più eretico (quale dei suoi libri degli anni Settanta non fu eretico?) Descolarizzare la società, con una capacità di previsione che, rileggendolo oggi, farebbe pensare che fosse uno sciamano, ma non lo era. Era solo un osservatore attento dei fatti del suo tempo.
Nella prima pagina del capitolo, dopo aver citato il caso curioso di una scatola metallica a chiusura automatica a scatto quando veniva aperta, vista tempo prima in un negozio di New York, scrive:
Questo bizzarro congegno è il contrario esatto della “scatola” di Pandora. E ricorda l’antico mito di Pandora dei tempi della Grecia matriarcale secondo il quale essa «fece scappare tutti i mali dal suo vaso (pythos), ma chiuse il coperchio prima che potesse fuggirne anche la speranza».
E prosegue:
La storia dell’uomo moderno comincia con la degradazione del mito di Pandora e termina con lo scrigno che si chiude da solo. È la storia dello sforzo prometeico per creare istituzioni che blocchino l’azione dei mali scatenati. È la storia dell’affievolirsi della speranza e del sorgere delle aspettative. Per capire ciò che questo vuol dire dobbiamo riscoprire la differenza tra speranza e aspettativa. Speranza, nell’accezione più pregnante, indica una fede ottimistica nella bontà della natura, mentre aspettativa, nel senso in cui utilizzerò questo termine, è contare sui risultati programmati e controllati dall’uomo.
Penso sia superfluo sottolineare che Illich si riferiva alla società industriale e al mito dello sviluppo, a quello che ci hanno promesso e a quello che ci stanno invece dando: la paura del collasso della vita sul pianeta Terra e la paura di una guerra “stellare”. Due temi su cui tornerò.
Per chi vuole conoscere meglio le considerazioni di Ivan su questo mito, tutt’altro che banali, non mi resta che rinviare alla lettura del testo di Illich, reperibile anche sul web. Un testo che mi piacerebbe leggere e commentare in piccoli gruppi di una decina di persone. L’uso accurato delle singole parole fa sì che ogni paragrafo equivalga alla lettura di un intero saggio.
Proseguo la citazione:
Oggi l’ethos prometeico ha messo in ombra la speranza. La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua riscoperta come forza sociale.
C’era una volta lo sviluppo
Nell’autunno del 2018 consigliai a Gustavo (Esteva) di scrivere un libro sulla speranza, parola che compariva spesso nei titoli dei suoi articoli giornalistici o in saggi più impegnativi, in genere trascrizioni di suoi interventi in occasione di seminari importanti. Gustavo accettò di buon grado dando alla parola l’accezione con cui Illich la impiegava: una forza sociale insita nell’uomo.
Non racconto le traversie del libro, uscito nei giorni scorsi quattro anni dopo la col titolo appunto di Speranza forza sociale.
Quando Illich scrisse quel capitolo ben pochi, per non dire nessuno, pensavano a un possibile collasso della vita sul pianeta Terra. Erano gli anni in cui lo “sviluppo” e la “crescita” erano sulla cresta dell’onda da quando Truman nel 1949 li aveva lanciati. Se qualche dubbio in qualcuno era nato a causa delle prime piogge acide sui boschi della Scandinavia, esso venne ben presto dissipato con una serie di aggettivi tranquillizzanti apposti alla parola sviluppo. Se ne contarono più di venti: sostenibile, compatibile, durevole, integrale, umano, etnico…
Dunque la frase “la sopravvivenza della specie umana dipende dalla speranza come forza sociale” al più venne accolta con un sorriso di compatimento.
Oggi invece l’estinzione della vita sul pianeta è divenuta un incubo collettivo, e dopo il fallimento di molti supposti rimedi (l’economia green e quant’altro) e lo sconcerto sempre più ampio di fronte al moltiplicarsi di soluzioni che non risolvono, la parola speranza torna ad essere evocata con frequenza crescente cucinata con molte salse diverse: un intervento provvidenziale, divino o teleologico, esterno all’impegno dell’uomo. E alcuni noti agnostici preveggenti sono da tempo arrivati a dire: “solo un dio ci può salvare”!
Secondo Illich, la scomparsa della vita sul pianeta può avvenire in seguito a due processi diversi: un click della mano di un militare su un pulsante o un più lento ma più certo procedimento “civile”.
Cito di nuovo Illich:
Ogni istituzione nata per esorcizzare uno dei mali primitivi è diventata per lui (l’uomo) uno scrigno a perfetta tenuta e a chiusura automatica. L’uomo è intrappolato nelle scatole da lui costruite per racchiudervi i mali che Pandora si lasciò scappare. […] Anche la realtà è arrivata a dipendere dalle decisioni umane. […] Il “pulsante di Hiroshima” può oggi tagliare l’ombelico della Terra. L’uomo ha il potere di far sì che Caos travolga sia Eros sia Gaia (l’antico nome greco della Terra). Questo suo nuovo potere ci ricorda costantemente che le nostre istituzioni non soltanto si creano i propri fini, ma possono anche porre fine a se stesse e a noi. […] Non meno palese è l’assurdità di fondo delle istituzioni non militari. Non hanno pulsanti che possano scatenare la loro potenza distruttiva, ma non ne hanno neanche bisogno. Tengono già ben saldo nelle loro mani il coperchio del mondo. Creano bisogni più rapidamente che soddisfazioni e nel tentativo di appagare i bisogni che esse stesse suscitano, consumano la Terra.
Sottolineo un dettaglio nella lunga argomentazione successiva:
Se la combustione continuasse ad aumentare con l’attuale ritmo, finiremmo presto per consumare l’ossigeno dell’atmosfera con una rapidità superiore a quella della sua rigenerazione. E non abbiamo motivo di credere che la fissione o la fusione (nucleari) possano sostituire la combustione senza rischi eguali o maggiori.
Un nemico chiamato capitalismo
Torniamo a Esteva e al suo progetto di libro. Egli aveva capito e fatto proprio il significato che aveva per Illich la parola speranza. L’Armageddon si sarebbe potuto evitare solo ricorrendo all’impiego organizzato di quella forza sociale. E il nemico primo da combattere, come mi scrisse nel 2020 quando mi indicò i vari punti che intendeva trattare nel libro, era il capitalismo.
All’inizio della seconda decade di questo secolo Gustavo, che esplorava a 360 gradi i pensieri alternativi elaborati nel mondo, aveva mostrato un forte interesse per la nuova lettura del pensiero di Marx fatta dai due pensatori tedeschi, Robert Kurz e Anselm Jappe, i quali, nella loro lettura marxista degli ultimi cento anni del processo industriale, avevano osservato la diminuzione continua del valore prodotto industrialmente, la cui l’appropriazione dell’eccedenza costituiva la base del capitalismo. Questa diminuzione si era accelerata dall’inizio del presente secolo con la rivoluzione causata dall’automazione degli impianti di produzione con progressivo calo dell’incidenza del lavoro umano impiegato, che era quello generatore di plusvalore [sto affrontando una problematica non facile e mi sforzo di sintetizzarla il più semplicemente possibile].
Secondo il pensiero del gruppo Krisis, al quale i due studiosi citati appartenevano, e in particolare secondo quello di Anselm Jappe, autore del libro La societé autophage, questo processo, in via di accentuazione, è irreversibile e porterà, in tempi però ancora lunghi, alla fine del capitalismo. In parole povere il capitalismo ha inscritta nel suo DNA la propria morte. Evento che in molti, tra cui lo stesso Esteva, ci auguriamo da tempo, anche se qualcuno non lo spera più, rinunciando alla lotta o scendendo a compromessi.
Il tempo dell’estrattivismo
Esteva era un lottatore sociale realista, non un teorico. E l’osservazione della realtà era la guida della sua azione (“Riflettere nell’azione” o, detto zapatisticamente, “camminar domandando”). Dall’osservazione di una realtà sempre più caotica e violenta e di alcuni fatti specifici significativi, negli ultimi due anni di vita egli era andato al di là delle analisi della Wertkritik e aveva concluso che il capitalismo era morto. Conclusione che richiede qualche chiarimento del significato di questa affermazione e che farò dopo.
Già dagli anni Novanta in America Latina era stata forgiata una nuova parola per descrivere la situazione che si era creata: estrattivismo. La parola era nata a seguito della crescita esponenziale della estrazione mineraria sollecitata dall’esigenza di fare fronte alla scarsità di certe materie prime dovuta all’aumento della produzione nonché, per alcune di esse, all’evoluzione tecnologica, e successivamente era stata applicata anche alla crescente espropriazione della ricchezza biologica di quella regione del mondo. E, per analogia, ad altri processi: la gentrificazione nelle città, l’espropriazione di denaro on nuove tasse, di diritti etc.
Due studiosi latinoamericani, Raúl Zibechi e Eduardo Gudynas, avevano approfondito l’analisi e il primo in particolare aveva scritto un libro, il cui titolo dell’edizione italiana fu La nuova corsa all’oro, che suscitò interesse e contribuì a far conoscere la parola anche da noi, che tuttavia non appare nel pur aggiornatissimo Vocabolario Treccani mentre la versione italiana di Wikipedia si limita a dare la versione dell’estrattivismo minerario.
In un passo di un’intervista, riportato nel libro SPERANZA forza sociale, Esteva dice:
Un modo di produzione è diventato un modo di espropriazione, e quello che stiamo vivendo è una modalità di organizzazione che fondamentalmente vive di espropriazione, quello che in America Latina chiamiamo estrattivismo: estrattivismo finanziario, estrattivismo nell’ambito dei diritti del lavoro, della terra, di tutto. Portare via tutto, ad ogni costo e con immensa distruzione. Questo è ciò che stiamo vivendo. È la fase peggiore e più distruttiva della fine di un’era e della nascita di un’altra era, è il momento in cui si presenta quello che ci appare come un bivio, una biforcazione.
La riflessione di Esteva sulla fine in atto del capitalismo si era soffermata sulla trasformazione del capitalismo da industriale a finanziario evidenziata dalla grande crisi del 2009. Questa sua lettura si rafforzò nel corso della pandemia da Covid 19. Con questo cambiamento, il capitalismo aveva perso la sua radice fondante: la generazione di valore tramite il lavoro umano salariato. Nel libro scrive:
La maggior parte della produzione odierna ha ancora un carattere capitalista, ma il capitale non può più ricorrere al meccanismo che lo costituisce: investire i profitti nell’espansione della produzione acquistando forza lavoro e compensando ogni aumento della produttività con un equivalente aumento della produzione. A causa di questi e di altri fattori, la riproduzione mondiale del sistema capitalistico non è più praticabile.
Una speranza radicata nel presente
Nel corso della pandemia, Esteva era rimasto impressionato dal modo in cui i governi di ogni parte del mondo hanno reagito. Se i grandi tecno-filantropi, che in realtà oggi sono i veri padroni del mondo (Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuchenberg, Bill Gates …), li avevano portati a effettuare le prove generali di una «società del controllo», con il pretesto difficilmente criticabile di “salvare vite”, significava che questi avrebbero avuto presto la necessità di imporla stabilmente per poter continuare a arricchirsi. E citava anche Vaclav Havel, il presidente dell’allora Cecoslovacchia durante la transizione post-sovietica, il quale aveva scritto che la speranza non “è la convinzione che qualcosa accadrà secondo certe modalità, bensì la convinzione che qualcosa abbia un senso, indipendentemente da ciò che avverrà”. È la speranza del contadino che semina attuando tutte le misure per ottenere un buon raccolto senza certezza che qualche imprevisto lo vanifichi.
Questo però non vanifica la speranza:
Si, credo che possiamo alimentare speranza con tutta serietà. (…) È una speranza ben radicata nel presente. (…) Sì, sappiamo cosa fare… e lo stiamo facendo. Ovviamente, nessuno può assicurarci che otterremo di fermare l’orrore. Però la speranza che dobbiamo infondere ha fondamento.
Su questo suo balzo in avanti nella lettura della realtà, Anselm Jappe, col quale stava dialogando, non concorda: la fine del capitalismo è si in corso ed è inevitabile, ma è ancora lontana. Su un punto il pensiero dei due collima e lo espongono con parole molto simili. Uso quelle di Esteva:
La fine del capitalismo non garantisce assolutamente il passaggio a una società migliore. Al contrario, la caduta nella barbarie è ciò che accade già in molte occasioni, e rischia di essere il risultato finale su scala globale. Non è solo il grande Stato totalitario che ci minaccia, ma anche l’anomia. La società della merce si va decomponendo in isole di benessere (molto relativo), circondate di filo spinato, da un lato, e il resto del mondo che crolla dall’altro lato, impegnato nelle guerre fra bande attorno a quelle poche cose che hanno ancora “valore”. (…) Ma l’implosione del capitalismo lascia un vuoto che permette forse anche di far emergere un’altra forma di vita sociale.
Su un altro punto mi pare ci sia accordo fra i due, e per esprimerlo questa volta ricorro alle parole di Jappe:
Ci sono buoni motivi per pensare che la distruzione della natura e l’artificializzazione della vita siano ormai diventati i problemi centrali la cui soluzione è preliminare a qualsiasi altro intervento nel mondo. L’uscita dal capitalismo sarà necessariamente anche un’uscita dalla società industriale.
Una osservazione di Jappe sulla quale mi sembra sia interessante soffermarsi, è che l’aumento di violenza a cui stiamo assistendo, nelle sue varie forme, è una conseguenza della diminuzione del valore prodotto con cui arricchirsi. Egli non cita la parola estrattivismo ma mi pare che sia prima di tutto tramite la violenza estrattivista che si cerca di compensare questa riduzione.
Se due anni prima Esteva, scrivendomi i sette punti che avrebbe sviluppato, la lotta al capitalismo era al primo posto, essa era scomparsa nel significativo articolo dal titolo non casuale Che fare? pubblicato su La Jornada del 21 gennaio 2022 e su Comune, circa due mesi prima della sua morte. Fra le varie cose indicate spiccano il ritorno del pensiero dal futuro al presente e dal globale al locale, cioè dalla astrazione alla realtà. Egli ricordava spesso una frase di John Berger, artista multiforme socialmente impegnato:
Nominare l’intollerabile è già di per sé la speranza. Quando qualcosa viene percepito come intollerabile è necessario fare qualcosa. L’azione è soggetta a tutte le vicissitudini della vita. Però la pura speranza risiede in primo luogo, in forma misteriosa, nella capacità di nominare l’intollerabile in quanto tale, e questa capacità viene da lontano, dal passato e dal futuro. Questa è la ragione per la quale la politica e il coraggio sono inevitabili.
E ammoniva:
La speranza […] suppone il riconoscere i propri limiti, quelli che sono propri della condizione umana, ed aprirsi alla sorpresa, al fascino dell’inatteso. Implica, ad esempio, prendere coscienza che la società nel suo insieme è il risultato di una infinità di fattori e di condizioni interamente imprevedibili. Sbaglieremmo se, per metterci in movimento, esigessimo di disporre di un progetto perfetto di società che contribuiremo a creare con la nostra azione. Però questa speranza radicale, cosciente dei suoi limiti ma anche delle sue potenzialità, è la speranza dalla quale oggi dipende la sopravvivenza del genere umano.
Le chiavi di una nuova era
Al lettore questa narrazione potrà apparire priva di un filo logico. Dai convegni di Città di Castello agli altipiani del Chiapas fino agli attuali incontri sotto il tiglio centenario di Gragnano con gente di svariate culture e progetti di vita. Da Don Achille a Illich poi a Esteva e Anselm Jappe, con altri numerosi intermezzi in una sequela continua di incontri e nuove amicizie.
Chiudo con queste parole del titolo di uno scritto di Gustavo: Amicizia, sorpresa, speranza, le chiavi di una nuova era.
Nell’archivio di Comune, gli oltre 150 articoli di Gustavo Esteva sono leggibili qui
Aldo Zanchetta ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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