Sul nuovo numero di POLIEDRO è stato pubblicato un mio articolo su ANTONIO GRAMSCI.
Di seguito potete leggere un brano dell'articolo senza le note e l'indicazione delle pagine dei testi citati:
ÈLITE E POPOLO IN GRAMSCI
Francesco Virga
Lo studio dei “gruppi sociali subalterni” ha occupato il pensiero e l’azione di Antonio Gramsci (1891-1937), dagli anni giovanili fino all’ultimo dei suoi giorni in carcere. Non è un caso che uno degli ultimi suoi Quaderni abbia questo titolo: Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni).
Si tratta di uno dei cosiddetti quaderni speciali in cui lo stesso Gramsci, negli ultimi anni di carcere, prima che il suo stato di salute si aggravasse, ha cercato di ordinare i suoi appunti sparsi nei primi quaderni miscellanei in cui annotava di tutto. In questo quaderno Gramsci si sofferma ad analizzare alcuni studi del suo tempo intorno alla figura di Davide Lazzaretti e a dare alcune importanti indicazioni metodologiche al futuro «storico integrale» sul modo giusto, dal suo punto di vista, di porsi di fronte alla storia.
Fin dalle sue prime righe il sardo coglie acutamente il difetto principale di tali studi:
« questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico».(le sottolineature dei testi citati sono mie)
Ecco perché non si è compresa la ragione vera del successo avuto da Davide Lazzaretti nel 1870 tra i contadini e i pastori del monte Amiata, prima della sua brutale eliminazione fisica compiuta dagli apparati repressivi dello Stato. La verità è che si voleva nascondere il grande malessere sociale che regnava in Italia in quel periodo. La stessa cosa, aggiunge Gramsci, è avvenuta più in grande per il brigantaggio meridionale. Malessere sociale accresciuto anche dal fatto che, al Governo del nuovo Stato unitario, erano andate da due anni le sinistre suscitando nel popolo speranze e aspettative presto deluse.
E’ interessante anche notare l’attenzione prestata da Gramsci alla presenza di elementi e motivi religiosi nel movimento di protesta guidato dal Lazzaretti. Particolarmente significativo appare ai suoi occhi il fatto che la bandiera usata da Davide, nel corso delle sue manifestazioni, era rossa con la scritta «La Repubblica e il regno di Dio». E qui non si può non citare quanto aveva scritto due anni prima, in un contesto completamente diverso, anche per mostrare come, dietro la scrittura frammentaria del sardo, ci sia una unità ed una forte coerenza interna:
«la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più
gigantesca metafisica, apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più
grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita
storica: essa afferma […] che l’uomo ha la stessa natura […], in quanto creato
da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri
e come gli altri uomini, […] e che tale egli si può concepire specchiandosi in
Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di
questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (- utopico -). Così le idee di
uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli
strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né
liberi nei loro confronti. Così è avvenuto
che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro,
sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni»
Tornando al Quaderno intitolato Ai margini della storia, rimasto purtroppo incompiuto, Gramsci fornisce delle utili indicazioni metodologiche che pochi storici hanno saputo raccogliere e mettere in pratica. Così, dopo aver notato che i gruppi subalterni subiscono quasi sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono, invita «lo storico integrale» a cercare e valorizzare ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni.
Inoltre, riprendendo una delle sue precedenti note sulla storia del Risorgimento scrive: « La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo. Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese. Ecco una delle quistioni più importanti e delle cause di difficoltà più gravi nel fare la storia dei gruppi sociali subalterni e quindi della storia senz’altro».
Ma Gramsci non ha scoperto in carcere le classi subalterne. Le ha conosciute, fin da ragazzo nella sua isola, e ha lavorato a fianco con loro nel periodo dei suoi studi a Torino e della sua militanza giovanile nel partito socialista.In un articolo dell’agosto 1918, pubblicato su Il Grido del Popolo, Antonio Gramsci anticipa concetti che riprenderà negli anni successivi:
«
L’educazione, la cultura, l’organizzazione diffusa del sapere e
dell’esperienza, è l’indipendenza delle masse dagli intellettuali. La fase più
intelligente della lotta contro il dispotismo
degli intellettuali di carriera e delle competenze per diritto divino, è
costituita dall’opera per intensificare la cultura, per approfondire la
consapevolezza. E quest’opera non si può rimandare a domani, a quando saremo
liberi politicamente. E’ essa stessa libertà , è essa stessa stimolo all’azione
e condizione dell’azione».
La
rivista creata l’anno successivo a Torino, L’ ORDINE NUOVO. Rassegna settimanale di
cultura socialista,
doveva servire proprio a questo: educare, fornire agli operai torinesi un mezzo
per liberarsi dal «dispotismo degli intellettuali di carriera». Ecco perché nel
gennaio del 1920 si difende con passione dall’accusa di avere pubblicato
articoli ‘difficili’:
«Purtroppo gli
operai e i contadini sono stati considerati a lungo come dei bambini che hanno
bisogno di essere guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di
ferro del padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola
roboante e melliflua dei demagoghi incantatori. Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono
ancora considerati dai più come una massa di negri che si può facilmente
accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e con dei fondi di
bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le altre merci di valore. Non
v’è nulla di più inumano e antisocialista di questa concezione. Se vi è nel
mondo qualcosa che ha un valore per sé, tutti sono degni e capaci di goderne.
Non vi sono né due verità, né due
diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore
debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di una
chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta “popolare”,
una sinfonia di Beethoven più di una canzone di Piedigrotta. E non vi è nessun
motivo per cui, rivolgendosi a operai e contadini, trattando i problemi che li
riguardano così da vicino come quelli dell’organizzazione della loro comunità,
si debba usare un tono minore, diverso da quello che a siffatti problemi si
conviene. Volete che chi è stato fino a
ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a trattarlo, sempre, come un
uomo, e il più grande passo in avanti sarà già fatto».
Nei brani sopra citati si trova in
nuce, insieme alla sua idea di partito come intellettuale collettivo, l’analisi
critica compiuta in carcere, tra il 1929 e il 1935, sul ruolo svolto dagli
intellettuali nella storia nazionale. Ad una società che ha fatto degli
intellettuali una ‘casta’, Gramsci contrappone il progetto di una società,
senza caste e senza classi, in cui tutti possano diventare intellettuali. In
una pagina dei Quaderni Gramsci è
particolarmente chiaro al riguardo:
«Bisogna proprio
dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose
più elementari […] Primo elemento è che esistono davvero governati e
governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano
su questo fatto […] Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si
vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le
condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca?
Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si
crede che essa sia solo un fatto storico rispondente a certe condizioni? […]
per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando
non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente
inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è
evidente che per il partito che si propone di annullare le divisioni in classi,
la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più».
E’ un brano questo in cui Gramsci utilizza
magistralmente la coppia dialettica realtà/possibilità per spiegare dove vuole
arrivare: da un lato riconosce la realtà effettuale delle cose – il genere
umano è diviso, esistono realmente dirigenti e diretti – ma insieme mostra la
possibilità di cambiare questo stato di cose. Non a caso, in un’altra nota dei Quaderni scrive: ‘Occorre violentemente
attirare l’attenzione sul presente così com’è se si vuole trasformarlo’
Il
realismo rivoluzionario di Gramsci è sostenuto anche da un altro principio
della sua ‘filosofia della praxis’. Questo si trova chiaramente espresso in una
famosa nota dei Quaderni in cui si
afferma che tutti gli uomini sono potenzialmente filosofi:
« Occorre distruggere il pregiudizio che la
filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività
propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali
o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono
filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia [«spontanea»] di
«tutto il mondo», cioè il senso comune e la religione».
Ma torniamo a parlare della casta
degli intellettuali. Gramsci è stato spietato con loro.In una nota dei Quaderni arriva a definire gli "intellettuali puri"
dei "puri asini". La storia
nazionale mostra che sono stati sempre lontani dal popolo, «più legati ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano». Questo perché la cultura in Italia, come aveva già notato Francesco
De Sanctis, ha avuto una tradizione libresca ed astratta:
«E’ da notare come
in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari
si occupano di libri e di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita
collettiva, sui modi di pensare, sui segni del tempo, sulle modificazioni che
avvengono nei costumi, ecc. non se ne leggono mai. […]. Manca l’interesse per
l’uomo vivente e per la vita vissuta. […] . E’ un altro segno del distacco
degli intellettuali italiani dalla
realtà popolare-nazionale».
La
casta degli intellettuali, naturalmente, non ha gradito il trattamento ricevuto
ed ha reagito di conseguenza. Le accuse contraddittorie di “idealismo”, di
“populismo”, di “utopismo” e di “totalitarismo”, rivolte a Gramsci sono in gran
parte frutto del risentimento della casta. Come ha ben visto Eric Hobsbawm
nell’opera del sardo non c’è posto per alcun “ismo”. Per Gramsci la cultura, se
vuole essere autentica e vitale, deve “rimanere a contatto coi ‘semplici’ e
anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere”
(Q, p.1382). Credo che abbia visto giusto Tullio De Mauro quando ha scritto che
nell’usare la parola cultura Gramsci si distacca consapevolmente dall’uso
dominante in Italia.
Conclusione
Secondo il mio punto di vista è
sbagliato cercare in Gramsci un prontuario politico, la ricetta per la
soluzione dei problemi odierni. Quello che si trova nei suoi scritti è un metodo di analisi della
realtà che gli ha permesso di comprendere alcuni tratti della storia e della
cultura del nostro Paese. Seguire questo metodo può aiutarci ancora a
comprendere il nostro presente. Nei suoi Quaderni
Gramsci, ha avvertito particolarmente il bisogno di liberarsi dalla «prigione
delle ideologie» nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» ricordando
un principio elementare del metodo scientifico dimenticato da tanti:
« Non bisogna concepire la discussione
scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e un
procuratore che, per obbligo d’ufficio deve dimostrare che l’imputato è
colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione
scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità[…],
si dimostra più avanzato chi si pone dal punto di vista che l’avversario può
esprimere un’esigenza che deve essere incorporata nella propria costruzione.
Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversari
significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie ( nel senso
deteriore di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista
critico».
Giorgio
Baratta è stato uno dei primi a cogliere il carattere socratico e dialogico del
pensiero di Gramsci. In uno dei suoi ultimi libri ha utilizzato una metafora
musicale per riassumere quello che ha appreso dal suo attento studio: «“Tutti
gli uomini sono filosofi” è la linea di base, il basso continuo nella polifonia
dei Quaderni. Ma allora , tutti gli
umani sono in contrappunto con gli altri, le altre, perché la filosofia è un
abito logico-dialogico, relazionale, uno strumento di unificazione attraverso
le differenze di lingue e linguaggi in cui gli uomini parlano, anche quando si
ignorano, o sono ignoranti, com’era Socrate, che la città ha messo a morte».
Una delle ragioni che spiega la
straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorio del tempo e
di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura
mentale e al suo approccio storico e non dogmatico ai problemi. Quando nei suoi
Quaderni scrive della necessità di liberarsi dalla
‘prigione delle ideologie’ , Gramsci sa di cosa parla. Infatti mostra di avere
ben compreso il senso della critica marxiana ad ogni forma di sapere
ideologico, inteso esattamente come forma di falsa coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia tedesca di K. Marx .
Il nostro presente rischia di passare
alla storia come l’epoca del tramonto delle “ideologie”. Eppure, secondo me,
nel corso della storia non c’è stato un tempo più “ideologico” di questo. Dopo
il 1989, a seguito del crollo del muro di Berlino e della successiva implosione
dell’URSS, la casta odierna degli intellettuali ha trasformato il presente nel
tempo più ideologico che il genere umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra
le altre cose, insegnano che una cosa tanto più invisibile è, tanto più reale
può apparire. Ma il gioco funziona fino ad un certo punto. Che l’imperatore ed
ogni forma di potere siano nudi, oggi possono vederlo tutti. E la storia che si
dava per finita – una delle peggiori ideologie del nostro tempo – non è finita
affatto. La storia continua.
Francesco Virga
N.B: Dal brano sopra riportato ho eliminato le note e l'indicazione delle pagine dei testi citati.
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