Il Corriere della Sera
si diverte ogni tanto a dare voce a vecchi dirigenti politici, ormai fuori
gioco, per ragioni non sempre chiare. Emanuele Macaluso è stato un dirigente
nazionale del PCI e, ai tempi di Berlinguer, capeggiava la corrente migliorista
con Giorgio Napolitano. Anche se oggi dice di non essersi pentito d’essere stato
comunista, non spiega perché nel 1989 si schierò con Occhetto per cambiare il
nome (e non solo il nome!) al partito.
Malgrado il complessivo tono agiografico, le omissioni e i tanti
punti non chiariti (tra questi il mancato riferimento al periodo del suo
sostegno al milazzismo siciliano e ai suoi scontri con Leonardo Sciascia), l’intervista
merita di essere letta. (fv)
Emanuele Macaluso: «Io comunista non pentito, mai
aderito al Pd»
Intervista a cura di Monica Guerzoni
Corriere
della Sera 17 marzo 2019
«Il Partito democratico è stata una fusione
a freddo di stati maggiori, senza la spinta popolare. Infatti è finita come
avevo previsto»
Lo sguardo ha attraversato un secolo
e punta dritto al futuro. Giovedì 21 marzo compirà 95 anni, eppure Emanuele
Macaluso, «grande vecchio» e memoria storica della sinistra italiana, ha ancora
l’energia, la lucidità e la passione politica per arrabbiarsi quando parla
dell’Italia di oggi e indirizzare le giovani generazioni verso l’Italia di
domani. Io sono in uscita dalla vita, ma guardo avanti, perché il momento è più
che drammatico e mi angoscia pensare a come lascerò questo Paese. «La mia
battaglia politica — ricorda col suo eterno accento siciliano — cominciò nel
1941 a 17 anni, quando entrai nella lotta clandestina. Ho cercato di dare
quello che ho potuto. Ho fatto anche degli errori, ma non mi sono mai
risparmiato. Ho sempre lottato per costruire la sinistra e per un Paese che
contasse nel mondo. Sono preoccupato, guardo all’avvenire e mi chiedo, dove
andiamo?».
Bilocale zeppo di libri
Rione Testaccio, sabato pomeriggio.
Macaluso vive al quinto piano in un bilocale zeppo di ricordi e di libri: «Ne
ho accumulati talmente tanti che ho dovuto foderare il garage e regalarne molti
alle biblioteche. La mia casa è piccolissima». Soggiornino, camera da letto,
cucina, bagno, il tutto lontano anni luce da ogni idea di casta o privilegio:
«Questo non è un quartiere, è un paese. Chi abita qui non si chiama romano, ma
testaccino». In tv sta per iniziare Spal-Roma e la signora Enza, la moglie dal
cuore giallorosso che ha 81 anni e li porta alla grande, stacca gli occhi dallo
schermo per il tempo dei saluti: «Queste riprese dentro gli spogliatoi io le
detesto, non le guardo. Sono bruttissime». Macaluso ride e va a sedersi in
cucina, sotto una luce fioca: «Adesso lei deve vedersi la partita, io no, non
sono romanista, sono per il Napoli da quando ero un ragazzo. Perché? È una
storia lunga». E tutte queste medicine? «Qualche problema di cuore, qualche
problema di stomaco... Vizi di gioventù».
Padre operario delle ferrovie
Nato nel ‘24 a Caltanissetta da
mamma casalinga e padre operaio delle ferrovie, si iscrive al Pci prima della
caduta del regime fascista. Nel ‘47 diventa segretario regionale della Cgil,
nel ‘56 Togliatti lo chiama nel comitato centrale del Pci. Eletto alla Camera
dei deputati nel ‘63, sarà parlamentare per sette legislature senza mai
rinnegare l’appartenenza alla corrente migliorista, la stessa di Napolitano.
Giornalista, scrittore e da qualche tempo anche blogger, ha diretto “l’Unità” e
“Il Riformista” e scritto per anni, come recita il titolo di uno dei sui libri,
«un corsivo al giorno».
Si è pentito di aver creduto nel
comunismo?
«La parola sinistra oggi suona quasi
come un’offesa, per non dire del socialismo. Ma io non sono un comunista
pentito. Ho capito quale svolgimento doveva avere la storia della sinistra e
del Pci e penso che il modo in cui Occhetto fece la svolta della Bolognina poteva
essere diverso. Ci voleva un partito che unificasse tutta la sinistra, già dopo
la Liberazione bisognava costruirlo».
Ha votato alle primarie del Pd?
«Mia moglie vota, io no. Non sono
iscritto e credo che le primarie vadano bene per eleggere il candidato premier,
non il segretario, che in tutto il mondo è eletto dagli iscritti. Se con 2 euro
e un certificato chiunque può votare, viene fuori un partito liquido. È questa
la prima riforma che Zingaretti deve fare. Io non ho mai aderito al Pd, perché
penso sia stata una fusione a freddo di stati maggiori, senza spinta popolare.
E infatti è finita come avevo previsto nel libro “Al capolinea”. Zingaretti
viene dalla sinistra, è stato segretario dei giovani del Pci e parlamentare
europeo. È saggio ed è un buon amministratore».
Il nuovo segretario vuole rifare la
«ditta» Pci-Pds-Ds?
«Questa parola mi indigna un po’,
quando la sento mi inc... A parlare di ditta fu Aldo Tortorella per dire che
noi dovevamo stare sempre dalla parte del Pci. Adesso la usano in senso
spregiativo, perché non conoscono le cose. Io avrò tanti difetti, ma non sono
così cretino da pensare che si possa rifare il Pci».
Lei in quale direzione andrebbe?
«Io ho 95 anni, ma chi ha l’età per
battersi deve costruire un partito per le nuove generazioni, insediato nel
territorio. I circoli sono quasi tutti chiusi, il Pd non fa opposizione».
Personalità come Gentiloni e
Veltroni hanno ancora qualcosa da dire?
«Nel Pd ci sono persone che hanno
una storia politica, ma la mia critica è molto seria e parte dalla fine dei
partiti e del Pci. L’obiettivo fondamentale di D’Alema, Fassino, Veltroni e
tutti gli altri era portare al governo una forza che non c’era mai stata, senza
avere un disegno politico nella società. Ma un partito che non si ponga questo
problema non può fare argine alla destra».
L’onda verde che parte dalla giovane
Greta può risvegliare speranze?
«C’è qualcosa che sta maturando, ma
qual è lo sbocco politico? Esiste una forza che offra possibilità di esprimere
politicamente queste spinte sociali e civili? Una forza in grado di portarsi
dietro la storia del socialismo italiano, innovandola e portandola nel futuro,
ancora non la vedo. Se Zingaretti non riforma il Pd, sbaglia. Dice che l’io è
finito e che ora c’è il noi. Ma questo noi deve organizzarlo, basti solo dire
che il Pd non ha mai fatto un congresso. In tutto il mondo il congresso si fa
sulle mozioni e sulla linea politica, non certo con le primarie. Un partito che
non ha organismi dirigenti veri e propri e si basa sul leaderismo è un
aggregato politico-elettorale a servizio del capo. Se Renzi ha potuto fare
l’opa, è perché non c’era una struttura di partito».
Il suo giudizio su Renzi?
«È stato un problema serio. Si vanta
di aver distrutto il M5S e invece ha anticipato molte cose dei grillini, dalla
questione dei privilegi dei parlamentari, alle polemiche contro le istituzioni.
È arrivato persino a togliere la bandiera europea e non ha mai creduto nel Pse.
Infatti incontrò il leader dei Ciudadanos spagnoli, quelli che fecero l’accordo
con la destra contro i socialisti. Renzi non sa cosa sia la sinistra, mentre
Zingaretti lo sa».
Zingaretti può tenere testa a
Salvini?
«Di certo non può essere Di Maio a
fare da argine, perché sorride, sorride, ma non ha consistenza. Sono stati i
grillini a dare gli strumenti del governo a uno che si mette le giubbe e fa
campagna continua. Conte poi è una anomalia assoluta. Non è mai successo nel
mondo che si possa entrare in politica da presidente del Consiglio. Gli unici
allenati al governo sono i leghisti, a cominciare da Giorgetti, tanto che si
sono mangiati il M5S».
Cosa pensa del consenso per Salvini?
«La Lega è da sempre un partito
aggrappato al potere. Ora Salvini sta facendo un’altra cosa, un partito di
destra razzista, che lucra consensi sulla paura. Prima in Italia i razzisti
erano al 7%, ora sono al 34%, perché Salvini ha risvegliato sentimenti che le
forze democratiche avevano contenuto. Quali? Il razzismo brutale e antisemita
del fascismo. Questi istinti si espandono anche al sud, tra le stesse persone
che i leghisti volevano seppellire politicamente grazie all’aiuto dell’Etna e
del Vesuvio. Salvini ha sfondato sul terreno del razzismo e del potere. Lui è
l’uomo che vince e quindi i disoccupati politici, in virtù del trasformismo, si
riciclano con il vincitore. La tentazione su cui non si riflette abbastanza, è
il modello Orban. E noi sappiamo che in Italia c’è stato un transito verso il
fascismo».
Pensa che il fascismo possa tornare?
«No, non si ripetono i fenomeni. Mi
riferisco alla democratura, alla democrazia illiberale del primo ministro
ungherese Viktor Orban, alla sua insofferenza verso la libera stampa, che ha
imbavagliato. Ho una preoccupazione e la debbo dire. Gli italiani considerano
Salvini l’uomo forte, che decide e fa le cose. Questa tendenza è pericolosa,
perché di fronte a una crisi economica e sociale può maturare».
Ma Salvini non è solo al governo,
c’è Di Maio e c’è Conte.
«Il presidente del Consiglio non sa
niente, l’Italia non ha una politica estera. Questo governo va a tentoni, un
po’ dentro la Ue e un po’ fuori, un po’ con l’America e un po’ contro. E adesso
vengono i cinesi»».
La preoccupa anche l’accordo
economico sulla Via della Seta?
«Se un Paese ha una sua politica
estera chiara, le scelte economiche non devono preoccupare. Ma in Italia il
ministro degli Esteri cerca di barcamenarsi e il problema è che poi parlano
Salvini e Di Maio e così anche le manovre economiche diventano poco chiare».
Perché gli intellettuali non fanno
sentire la loro voce?
«Lo scarso impegno degli
intellettuali nella battaglia politica e culturale mi angoscia molto. Dopo la
guerra si impegnarono tutti, socialisti, comunisti, cattolici, azionisti. Un
elenco straordinario di scrittori, pittori, registi, professori universitari.
Mi vengono in mente nomi come Bobbio, Guttuso, Marchesi, De Filippo, Levi,
Calvino, Moravia, Rosi...».
E adesso?
«Silenzio».
Si è fatto buio, la Roma sta
prendendo «i suoi soliti gol del cavolo», Macaluso si alza e, tra icone russe e
antiche madonne siciliane, indica due quadri appesi in salotto: «Quel manifesto
Guttuso lo realizzò per me, quando feci una elezione in Sicilia nel ‘55».
E quel disegno?
«Sempre di Guttuso. Me lo regalò
quando ero direttore dell’Unità, nel 1982, per la festa del Primo Maggio.
Quando i giornali (ride, con un guizzo negli occhi) erano giornali».
"Corriere della sera", 17
marzo 2019
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