02 aprile 2019

PASSATO E PRESENTE VISTI DA EMANUELE MACALUSO




Il Corriere della Sera si diverte ogni tanto a dare voce a vecchi dirigenti politici, ormai fuori gioco, per ragioni non sempre chiare. Emanuele Macaluso è stato un dirigente nazionale del PCI e, ai tempi di Berlinguer, capeggiava la corrente migliorista con Giorgio Napolitano. Anche se oggi dice di non essersi pentito d’essere stato comunista, non spiega perché nel 1989 si schierò con Occhetto per cambiare il nome (e non solo il nome!) al partito.
Malgrado il complessivo tono agiografico, le omissioni e i tanti punti non chiariti (tra questi il mancato riferimento al periodo del suo sostegno al milazzismo siciliano e ai suoi scontri con Leonardo Sciascia), l’intervista merita di essere letta. (fv) 

Emanuele Macaluso: «Io comunista non pentito, mai aderito al Pd»

Intervista a cura di Monica Guerzoni
Corriere della Sera 17 marzo 2019

«Il Partito democratico è stata una fusione a freddo di stati maggiori, senza la spinta popolare. Infatti è finita come avevo previsto»

Lo sguardo ha attraversato un secolo e punta dritto al futuro. Giovedì 21 marzo compirà 95 anni, eppure Emanuele Macaluso, «grande vecchio» e memoria storica della sinistra italiana, ha ancora l’energia, la lucidità e la passione politica per arrabbiarsi quando parla dell’Italia di oggi e indirizzare le giovani generazioni verso l’Italia di domani. Io sono in uscita dalla vita, ma guardo avanti, perché il momento è più che drammatico e mi angoscia pensare a come lascerò questo Paese. «La mia battaglia politica — ricorda col suo eterno accento siciliano — cominciò nel 1941 a 17 anni, quando entrai nella lotta clandestina. Ho cercato di dare quello che ho potuto. Ho fatto anche degli errori, ma non mi sono mai risparmiato. Ho sempre lottato per costruire la sinistra e per un Paese che contasse nel mondo. Sono preoccupato, guardo all’avvenire e mi chiedo, dove andiamo?».

Bilocale zeppo di libri
Rione Testaccio, sabato pomeriggio. Macaluso vive al quinto piano in un bilocale zeppo di ricordi e di libri: «Ne ho accumulati talmente tanti che ho dovuto foderare il garage e regalarne molti alle biblioteche. La mia casa è piccolissima». Soggiornino, camera da letto, cucina, bagno, il tutto lontano anni luce da ogni idea di casta o privilegio: «Questo non è un quartiere, è un paese. Chi abita qui non si chiama romano, ma testaccino». In tv sta per iniziare Spal-Roma e la signora Enza, la moglie dal cuore giallorosso che ha 81 anni e li porta alla grande, stacca gli occhi dallo schermo per il tempo dei saluti: «Queste riprese dentro gli spogliatoi io le detesto, non le guardo. Sono bruttissime». Macaluso ride e va a sedersi in cucina, sotto una luce fioca: «Adesso lei deve vedersi la partita, io no, non sono romanista, sono per il Napoli da quando ero un ragazzo. Perché? È una storia lunga». E tutte queste medicine? «Qualche problema di cuore, qualche problema di stomaco... Vizi di gioventù».


Padre operario delle ferrovie
Nato nel ‘24 a Caltanissetta da mamma casalinga e padre operaio delle ferrovie, si iscrive al Pci prima della caduta del regime fascista. Nel ‘47 diventa segretario regionale della Cgil, nel ‘56 Togliatti lo chiama nel comitato centrale del Pci. Eletto alla Camera dei deputati nel ‘63, sarà parlamentare per sette legislature senza mai rinnegare l’appartenenza alla corrente migliorista, la stessa di Napolitano. Giornalista, scrittore e da qualche tempo anche blogger, ha diretto “l’Unità” e “Il Riformista” e scritto per anni, come recita il titolo di uno dei sui libri, «un corsivo al giorno».

Si è pentito di aver creduto nel comunismo?
«La parola sinistra oggi suona quasi come un’offesa, per non dire del socialismo. Ma io non sono un comunista pentito. Ho capito quale svolgimento doveva avere la storia della sinistra e del Pci e penso che il modo in cui Occhetto fece la svolta della Bolognina poteva essere diverso. Ci voleva un partito che unificasse tutta la sinistra, già dopo la Liberazione bisognava costruirlo».

Ha votato alle primarie del Pd?
«Mia moglie vota, io no. Non sono iscritto e credo che le primarie vadano bene per eleggere il candidato premier, non il segretario, che in tutto il mondo è eletto dagli iscritti. Se con 2 euro e un certificato chiunque può votare, viene fuori un partito liquido. È questa la prima riforma che Zingaretti deve fare. Io non ho mai aderito al Pd, perché penso sia stata una fusione a freddo di stati maggiori, senza spinta popolare. E infatti è finita come avevo previsto nel libro “Al capolinea”. Zingaretti viene dalla sinistra, è stato segretario dei giovani del Pci e parlamentare europeo. È saggio ed è un buon amministratore».

Il nuovo segretario vuole rifare la «ditta» Pci-Pds-Ds?
«Questa parola mi indigna un po’, quando la sento mi inc... A parlare di ditta fu Aldo Tortorella per dire che noi dovevamo stare sempre dalla parte del Pci. Adesso la usano in senso spregiativo, perché non conoscono le cose. Io avrò tanti difetti, ma non sono così cretino da pensare che si possa rifare il Pci».

Lei in quale direzione andrebbe?
«Io ho 95 anni, ma chi ha l’età per battersi deve costruire un partito per le nuove generazioni, insediato nel territorio. I circoli sono quasi tutti chiusi, il Pd non fa opposizione».

Personalità come Gentiloni e Veltroni hanno ancora qualcosa da dire?
«Nel Pd ci sono persone che hanno una storia politica, ma la mia critica è molto seria e parte dalla fine dei partiti e del Pci. L’obiettivo fondamentale di D’Alema, Fassino, Veltroni e tutti gli altri era portare al governo una forza che non c’era mai stata, senza avere un disegno politico nella società. Ma un partito che non si ponga questo problema non può fare argine alla destra».

L’onda verde che parte dalla giovane Greta può risvegliare speranze?
«C’è qualcosa che sta maturando, ma qual è lo sbocco politico? Esiste una forza che offra possibilità di esprimere politicamente queste spinte sociali e civili? Una forza in grado di portarsi dietro la storia del socialismo italiano, innovandola e portandola nel futuro, ancora non la vedo. Se Zingaretti non riforma il Pd, sbaglia. Dice che l’io è finito e che ora c’è il noi. Ma questo noi deve organizzarlo, basti solo dire che il Pd non ha mai fatto un congresso. In tutto il mondo il congresso si fa sulle mozioni e sulla linea politica, non certo con le primarie. Un partito che non ha organismi dirigenti veri e propri e si basa sul leaderismo è un aggregato politico-elettorale a servizio del capo. Se Renzi ha potuto fare l’opa, è perché non c’era una struttura di partito».

Il suo giudizio su Renzi?
«È stato un problema serio. Si vanta di aver distrutto il M5S e invece ha anticipato molte cose dei grillini, dalla questione dei privilegi dei parlamentari, alle polemiche contro le istituzioni. È arrivato persino a togliere la bandiera europea e non ha mai creduto nel Pse. Infatti incontrò il leader dei Ciudadanos spagnoli, quelli che fecero l’accordo con la destra contro i socialisti. Renzi non sa cosa sia la sinistra, mentre Zingaretti lo sa».

Zingaretti può tenere testa a Salvini?
«Di certo non può essere Di Maio a fare da argine, perché sorride, sorride, ma non ha consistenza. Sono stati i grillini a dare gli strumenti del governo a uno che si mette le giubbe e fa campagna continua. Conte poi è una anomalia assoluta. Non è mai successo nel mondo che si possa entrare in politica da presidente del Consiglio. Gli unici allenati al governo sono i leghisti, a cominciare da Giorgetti, tanto che si sono mangiati il M5S».

Cosa pensa del consenso per Salvini?
«La Lega è da sempre un partito aggrappato al potere. Ora Salvini sta facendo un’altra cosa, un partito di destra razzista, che lucra consensi sulla paura. Prima in Italia i razzisti erano al 7%, ora sono al 34%, perché Salvini ha risvegliato sentimenti che le forze democratiche avevano contenuto. Quali? Il razzismo brutale e antisemita del fascismo. Questi istinti si espandono anche al sud, tra le stesse persone che i leghisti volevano seppellire politicamente grazie all’aiuto dell’Etna e del Vesuvio. Salvini ha sfondato sul terreno del razzismo e del potere. Lui è l’uomo che vince e quindi i disoccupati politici, in virtù del trasformismo, si riciclano con il vincitore. La tentazione su cui non si riflette abbastanza, è il modello Orban. E noi sappiamo che in Italia c’è stato un transito verso il fascismo».

Pensa che il fascismo possa tornare?
«No, non si ripetono i fenomeni. Mi riferisco alla democratura, alla democrazia illiberale del primo ministro ungherese Viktor Orban, alla sua insofferenza verso la libera stampa, che ha imbavagliato. Ho una preoccupazione e la debbo dire. Gli italiani considerano Salvini l’uomo forte, che decide e fa le cose. Questa tendenza è pericolosa, perché di fronte a una crisi economica e sociale può maturare».

Ma Salvini non è solo al governo, c’è Di Maio e c’è Conte.
«Il presidente del Consiglio non sa niente, l’Italia non ha una politica estera. Questo governo va a tentoni, un po’ dentro la Ue e un po’ fuori, un po’ con l’America e un po’ contro. E adesso vengono i cinesi»».

La preoccupa anche l’accordo economico sulla Via della Seta?
«Se un Paese ha una sua politica estera chiara, le scelte economiche non devono preoccupare. Ma in Italia il ministro degli Esteri cerca di barcamenarsi e il problema è che poi parlano Salvini e Di Maio e così anche le manovre economiche diventano poco chiare».

Perché gli intellettuali non fanno sentire la loro voce?
«Lo scarso impegno degli intellettuali nella battaglia politica e culturale mi angoscia molto. Dopo la guerra si impegnarono tutti, socialisti, comunisti, cattolici, azionisti. Un elenco straordinario di scrittori, pittori, registi, professori universitari. Mi vengono in mente nomi come Bobbio, Guttuso, Marchesi, De Filippo, Levi, Calvino, Moravia, Rosi...».

E adesso?
«Silenzio».

Si è fatto buio, la Roma sta prendendo «i suoi soliti gol del cavolo», Macaluso si alza e, tra icone russe e antiche madonne siciliane, indica due quadri appesi in salotto: «Quel manifesto Guttuso lo realizzò per me, quando feci una elezione in Sicilia nel ‘55».

E quel disegno?
«Sempre di Guttuso. Me lo regalò quando ero direttore dell’Unità, nel 1982, per la festa del Primo Maggio. Quando i giornali (ride, con un guizzo negli occhi) erano giornali».


"Corriere della sera", 17 marzo 2019

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