Globalizzazione,
liberismo e mutazione della sinistra sono i temi di fondo di
un'approfondita riflessione sul presente svolta da Donald Sassoon,
storico del movimento socialista del Novecento. Per Sassoon le radici
della crisi attuale della sinistra in Italia (e non solo) vanno
ricercate nell'abbandono sostanziale della rappresentanza politica
dei lavoratori e nell'accettazione delle logiche dell'economia
neo-liberista. Un libro utile.
Francesco Benigno
La socialdemocrazia
scelse di rinnovarsi e divenne neoliberale
Xenofobia, razzismo,
crisi della rappresentanza: le drammatiche questioni dell’oggi
spingono a interrogarsi urgentemente sul rapporto tra passato e
presente, e fanno emergere con forza il parallelo con la tempesta che
investì le democrazie liberali occidentali tra le due guerre e a
seguito della crisi del 1929. La difficoltà a orientarsi è dovuta
probabilmente al fatto che questo confronto (e in Italia l’insistito
richiamo al fascismo) non spiega anche la novità di ciò che viene
accadendo.
Come osservava Gramsci,
«La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo
non può nascere: in questo interregno si manifestano i fenomeni
morbosi più svariati». Tratta dai Quaderni dal carcere, questa
frase è ora posta in esergo e ripresa nel titolo del nuovo libro di
Donald Sassoon, Sintomi morbosi Nella nostra storia di ieri i segni
della crisi di oggi (traduzione di Leonardo Clausi, Garzanti, pp.
324, euro 19,00). Storico molto noto e tradotto in tutto il mondo,
allievo di Eric J. Hobsbawm, Donald Sassoon è autore di libri
importanti sulla sinistra socialista europea nel XX secolo e sulla
cultura europea dell’Otto e Novecento, testi che prediligono
l’orientamento comparativo, naturale per un ebreo nato in Egitto
con passaporto inglese, educato in Francia, Italia, Regno Unito e
infine negli Stati Uniti.
Sul presente dell’Europa
Tuttavia, qui Sassoon non propone una ricerca storica ma un saggio di intervento sull’oggi, un testo diretto ad analizzare il presente, soprattutto europeo. Certo, il passato è chiamato in causa: nel caso della xenofobia, ad esempio, viene evocato il River of blood speech, famoso discorso di Enoch Powell, ministro ombra della difesa del 20 aprile 1968 a Birmingham, diretto a contrastare le leggi contro le discriminazioni razziali proposte dal partito laburista e indirizzato a impressionare l’opinione pubblica con lo spettro di un’immigrazione senza freni: probabilmente il primo tentativo di un politico occidentale nel dopoguerra di istigare all’avversione per il diverso.
La tesi di Sassoon è netta: in crisi è il modello di capitalismo sociale creato in Europa dopo il 1945, e centrato sul welfare. Con il nuovo millennio, la globalizzazione e l’emergere di nuovi competitori asiatici da un lato e la declinante curva demografica dall’altro, hanno reso più difficile mantenere gli standard dei servizi pubblici e i livelli di crescita tipici della seconda metà del XX secolo. Ne è venuta una sorta di disillusione collettiva, che la crisi economica globale del 2007-2012 ha poi trasformato in rabbia. Il declino elettorale della socialdemocrazia si spiega con l’annacquamento della sua originaria prospettiva riformista e con il suo adeguarsi alle tesi del neo-liberismo globalizzante. C’è un momento, osserva Sassoon, negli anni Ottanta del XX secolo, in cui la socialdemocrazia «si sente costretta a divenire “moderna” vale a dire neoliberale».
Speranza alle spalle
La frustrazione collettiva, che la sinistra europea sta pagando duramente, nasce dall’abbandono di un modello che aveva costruito «un mondo di crescita e di stabilità, di diffusione dell’istruzione, un mondo in cui i giovani potevamo realisticamente presumere che sarebbero stati più agiati dei genitori, più liberi meno intricati dalle convenzioni morali. Era un mondo in cui molti potevamo sentirsi a casa; un mondo in cui le aspettative erano ampiamente soddisfatte. Pur mutando di continuo, mutava in meglio». Oggi, invece, alla disillusione si accompagna la perdita della speranza, e il futuro è vissuto non come una alba di promesse ma come un minaccioso incubo.
In questa ricognizione
puntuale, infarcita di dati che smontano opinioni consolidate (come
quella che l’islamofobia sarebbe causata da una massiccia
immigrazione musulmana, quando invece i paesi più islamofobi come la
Polonia o l’Ungheria contano solo lo 0,1% di immigrati musulmani)
manca però un’analisi della novità di ciò che accade attorno a
noi, ed è forse proprio questa carenza di visione degli inediti
mutamenti intercorsi a rendere così difficile la costruzione di ciò
di cui avremmo bisogno di più, una convincente identità comune
europea.
Il manifesto/Alias – 31
marzo 2019
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