In "Altri tempi" con Gina Lollobrigida
Vittorio De Sica, regista e attore. Un'antropologia italiana nelle maschere di un eclettico
Clotilde Bertoni
La battuta più nota del
Terzo uomo di Reed è inserita nel copione da un Orson Welles
presente nel cast come interprete; buona parte della grandezza di
Viale del tramonto di Wilder si deve all'Eric von Stroheim
che, nel ruolo di un geniale regista del muto distrutto dal sistema
hollywoodiano, mette praticamente in scena, con cupo sarcasmo, la sua
storia: si potrebbe continuare. I registi-attori che non si limitano
a ribadire meglio la propria cifra dirigendo se stessi, ma
sprigionano potenzialità impensate recitando in film altrui,
esercitano sul cinema un'incidenza particolare; magari anche quando
lo sprigionamento sconfina nella dispersione, le loro ragioni sono
delle più materiali e le loro scelte non delle più oculate.
In "I due marescialli" con Totò |
Forse nessun caso lo
dimostra quanto Vittorio De Sica, attore innanzitutto e sempre: negli
anni venti-trenta nome di punta del teatro leggero e del cinema dei
Telefoni bianchi, poi, dopo l'affermazione come regista, poco incline
a comparire nei film suoi, ma spinto invece da motivi finanziari a
collezionare una filmografia di interprete follemente eterogenea, in
cui Il generale della Rovere di Rossellini si affianca a Totò,
Vittorio e la dottoressa di Mastrocinque, polpettoni insipidi
come Caroline Chérie di La Patellière si avvicendano ai
Gioielli di Madame de... di Ophuls, commedie sfavillanti di
Blasetti, Comencini e Monicelli sono seguite a ruota da gemmazioni
fiacchissime, che nei titoli - Vacanze a Ischia, Vacanze
d'inverno - sembrano a volte sinistramente anticipare, sebbene la
qualità sia comunque ben diversa, i cinepanettoni, oggi di un altro
De Sica regno incontrastato.
In "Altri tempi" con Gina Lollobrigida |
Ma questo accumulo,
facilmente liquidato come smaccato tradimento del grande lavoro di
regista, fornisce invece a quel lavoro un contrappunto e un alimento
straordinari, sia in quanto forma penetrante di registrazione
dell'antropologia e delle vicissitudini italiane, sia in quanto
efficace mezzo di scavo nel senso stesso della recitazione: come ora
dimostra a fondo lo studio solidissimo e avvincente di Anna
Masecchia, Vittorio De Sica Storia di un attore (Kaplan, pp.
260, € 20,00), che, facendo leva su una vasta bibliografia e su
scrupolose ricerche d'archivio, sa tanto esplorare nei dettagli la
cinquantennale attività presa in esame, quanto individuarne e
indagarne le linee principali. Innanzitutto, il libro rileva che
questa attività così ramificata è in effetti saldata da robuste
costanti.
In "Il generale Della Rovere" |
Ad esempio, l'estro dell'improvvisazione affinato da De
Sica nel teatro di varietà (con la leggendaria compagnia Za-Bum), e
le esibizioni canore, gli sketch sbrigliati dei suoi primi film,
costituiscono, contro le apparenze, un retroterra decisivo dei suoi
capolavori neorealisti: perché soprattutto da lì proviene la famosa
capacità di orchestrare forme di recitazione più spontanee, di
provocare il pubblico, di dirigere interpreti non professionisti.
Inoltre, tutte le sue fasi di attore (che spesso lo vedono anche
collaborare alle sceneggiature) intercettano, in modi vari, voghe,
umori e inquietudini delle corrispondenti fasi storiche: le
assunzioni di identità fasulle e i vagheggiamenti di esistenze
alternative dei giovani del Signor Max o dei Grandi magazzini
indicano surrettiziamente il disagio che cova nella soffocante
atmosfera del regime; il disorientato onorevole di Roma città
libera di Pagliero, e i maestri di scuola integri e perdenti del
Cuore di Coletti e del Buongiorno, elefante! di
Franciolini (impasto di affilata denunzia e umorismo surreale tipico
dello sceneggiatore principale, lo Zavattini a lungo alter ego
di De Sica) illustrano il miscuglio di ideali fervidi e perdurante
smarrimento che contrassegna il dopoguerra; la frotta di carabinieri,
legulei e politici, fintamente autorevoli e più o meno inaffidabili,
incarnati negli anni cinquanta e oltre, mette poi in risalto
l'inceppamento degli ideali, il trasformismo e il qualunquismo in
agguato, le lacerazioni e i compromessi che vanno segnando la
ricostruzione.
In "Il vigile" |
Però, come Masecchia
sottolinea acutamente, De Sica, grazie alla sua eclettica formazione
teatrale, riesce ben più di altri mattatori dell'epoca (a partire da
quello che un po' si vuole suo erede, Sordi), a non cristallizzare i
suoi personaggi nella fissità di tipi invariabili, da un lato
dotandoli, mediante l'arte dell'immedesimazione appresa da Tatiana
Pavlova, di una specifica individualità, dall'altro avvolgendoli,
attraverso le strategie di distanziamento ironico assorbite da Sergio
Tofano, in una luce burlesca e straniante (non a caso notata e
apprezzata da Brecht). Irripetibili perciò, quanto ricche di
chiaroscuri, numerose sue figure: il truffatore spavaldo di Peccato
che sia una canaglia e quello tormentato e ravveduto del Generale
della Rovere; il sindaco oscillante tra idealismo e opportunismo
di Amore e chiacchiere e quello sbruffone e sgradevole del
Vigile; e, beninteso, il maresciallo sorrentino della
tetralogia Pane, amore e, incarnazione della fede nelle
istituzioni quanto delle loro riconversioni disinvolte («Ho servito
il re, il duce e il presidente della Repubblica»), campione tanto di
una calda umanità quanto di un istrionismo smodato, che si fondono
in rivendicazioni di onestà («Io songo n'ommo 'e cristallo!»)
insieme sostanzialmente attendibili e sommamente grottesche.
In "Teresa Venerdì" |
Inoltre, come sempre
Masecchia segnala, l'ironia si spinge all'autoironia, la deformazione
umoristica riservata alle proprie creazioni si estende a quella della
propria statura di divo: soprattutto quando i personaggi interpretati
sono attori, oppure figure professionali, come gli avvocati e i
politici, agli attori facilmente assimilabili; e la messinscena della
contemporaneità si fa così esplicitamente messinscena dell'arte
dello spettacolo, del suo potere di sostituire o manipolare la
realtà, di confermare l'autorità o di sovvertirla. Tra i migliori
esempi la scena del poco noto Cameriera bella presenza di
Pàstina in cui De Sica, nei panni di un capocomico, sentendo la
protagonista esaltare commossa la maternità, la invita a ripetere
«la battuta»; o la scena, ben più celebre, di Altri tempi
di Blasetti, in cui, nel ruolo di uno scalcinato principe del foro,
riesce a fare assolvere una Gina Lollobrigida imputata,
giustificabile ma colpevole, travolgendo i vincoli della legge e
della logica a colpi di funambolismi retorici; o ancora, nell'Oro
di Napoli di cui è anche regista, la teatralità, conforme ai
rituali aristocratici, della partita a carte che impone a un bambino
del popolo nelle vesti di un conte incallito giocatore (altra sua
parte ricorrente, nata da un altro rimando autoderisorio, quello
all'ossessione origine dei suoi problemi economici): seguita, in un
successivo episodio dello stesso film, da una teatralità di segno
opposto, quella liberatoria dello sberleffo che un Eduardo De Filippo
maestro di saggezza insegna alla gente dei vicoli, come forma
migliore di ribellione alle umiliazioni loro inflitte da un altro
nobiluomo.
In "Il delitto Matteotti" |
La rappresentazione dei
mutamenti e disfunzioni della propria epoca, e delle risorse e
ambivalenze del proprio mestiere, che il De Sica attore porta avanti,
resta sempre in bilico tra una programmatica leggerezza e una
consapevolezza intensa, che si va progressivamente venando di una
malinconia evidente in alcune delle sue apparizioni finali. È
pervasa di malinconia, ad esempio, una delle sue ultime
interpretazioni significative (tra le poche non analizzate da
Masecchia), quella estremamente sobria - dopo tanti ruoli sopra le
righe e tanti personaggi di avvocati ribaldi - del coraggioso
magistrato che nel Delitto Matteotti di Vancini tiene
strenuamente e inutilmente testa al fascismo; e di malinconia si vela
a tratti il suo affabile sorriso nel filmato di una conferenza tenuta
non molto prima della scomparsa (e inserita nel film di Scola che gli
rende uno struggente omaggio, C'eravamo tanto amati):
testimonianza conclusiva del suo lungo e accidentato, tanto brioso e
tanto sofferto, inseguimento della realtà, del suo modo personale di
prendere sempre sul serio le cose senza mai prendere troppo sul serio
se stesso.
ALIAS - IL MANIFESTO, DOMENICA 20 GENNAIO
2013
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