Dalla parte di Meursault. Ricordare “Lo straniero” di Albert Camus oggi
Rileggere Lo straniero di Albert Camus a settantasette anni dalla sua uscita è una esperienza straniante: la domanda che affiora quasi a ogni pagina è se siamo in Algeria tre quarti di secolo fa, o oggi nelle nostre strade, nelle nostre case, nella nostra città. Il protagonista, Meursault, è un individuo che appare come tutti, un lavoro che gli occupa molto tempo e lo tedia, una casa, una madre in un ospizio, una vita affetta da abitudini che hanno trovato la pace in loro stesse.
Nessun moto di ribellione, nessun guizzo di cambiamento, nessun interesse per il mondo, nessuna voglia di fuga in Meursault, ma una quieta accettazione dell’ordinarietà. Non solo, una continua ricerca di conferma di questa ordinarietà, non si può dire di certo un desiderio ma una tendenza piuttosto passiva a far sì che nulla cambi, e se qualcosa cambia che presto si riassesti una abitudine che garantisca apatia e indifferenza.
Il romanzo è ambientato in un paese vicino ad Algeri, una città di mare dove il sole e la natura hanno una parte preponderante sulla vita degli abitanti, abituati a stare spesso fuori per le strade, in spiaggia, nelle piazzette. Questo è il dove di Meursault, il suo luogo che gli è così congenito e lo contraddistingue presto come un uomo adatto alla natura quanto inadatto alla società. Il quando è la fine dei ’40, ma del clima sociale e politico di questa epoca trapela assai poco, perché la società non interessa per nulla il protagonista.
L’incipit è noto: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri non so”. In prima persona Meursault racconta il suo viaggio in autobus per ottanta chilometri fino all’ospizio, la veglia notturna, il funerale sotto un caldo torrido, la sepoltura, il rientro. Costernato più dalla fatica di interrompere la propria routine che dal lutto, Meursault al rientro fa un bagno in mare e incontra una ragazza con la quale inizia una storia. I personaggi sono pochi perché il protagonista non ama circondarsi di persone o cose: la sua casa è disabitata a eccezione della sua camera da letto dove, alla partenza della madre, ha trascinato tavolo e sedie per risparmiare sulle traiettorie; della sua casa conosciamo il letto e la finestra che dà sulla strada dove sovente si ferma anche per ore a guardare il sole, a guardare il via vai, a guardare la vita che passa.
Marie, la ragazza che ha conosciuto sulla spiaggia, lo frequenta con gioia e a un certo punto gli chiede se lui voglia sposarla, lui risponde “che la cosa mi era indifferente e che avremmo potuto farlo se voleva”. Il datore di lavoro gli propone un nuovo incarico che gli consentirà di andare spesso a Parigi, ma lui si dimostra indifferente: “Io gli ho detto di sì, ma in fondo per me era lo stesso. Allora mi ha chiesto se non mi interessava un cambiamento di vita. Ho risposto che non si cambia mai vita, che del resto tutte le vite si equivalgono”.
Non ha amici, ma solo persone che incontra più spesso di altre; come i due condomini, Salamano, un anziano con un cane malconcio a cui inveisce contro giorno e notte trascinandolo su e giù per le scale, e Raymond, amante lasciato e inferocito con una donna alla quale giura vendetta. Meursault guarda a questi due conoscenti, al loro passare, alle loro vicende, come da spettatore lontano senza nessuna simpatia né tantomeno empatia: per il cane che viene maltrattato nessuna parola di compassione, nemmeno quando il cane misteriosamente sparirà nessuna inflessione di costernazione o gioia. Tutto è distante, nulla lo tocca.
Quando Raymond si vendica della donna portandola in casa con un inganno per picchiarla, le sue urla e l’arrivo delle forze dell’ordine non turberanno affatto Meursault, che anzi continua con grande indifferenza a frequentare il picchiatore fino a trascorrere una giornata con lui e Marie sulla spiaggia. Qui finisce la prima parte del libro, su una spiaggia assolata dove ucciderà un arabo a colpi di pistola. L’arabo era il cugino della donna malmenata e stava inerme dietro uno scoglio, Meursault, uscito nella canicola con la rivoltella di Raymond in tasca, gli spara ripetutamente in preda al cado, alla luce del sole, al sudore che lo acceca, non per rabbia o astio o difesa.
Dopo la prima parte quasi interamente sotto un sole consolatorio e tagliente segue la seconda, e ultima, parte immersa in un buio claustrofobico: Meursault è in prigione, vede il cielo dalle inferriate salendo in piedi su una panca, esce per i processi, l’unico suo dilemma è cosa pensare durante tutto il tempo. Non è un uomo angosciato o costernato, tantomeno pentito davanti a un commissario disperato da tanta indifferenza per un uomo ammazzato. Come la prima parte è inondata di luce e di presente, la seconda è abitata dal buio e dai ricordi; sarà il ricordare l’attività che farà trascorrere il tempo al protagonista perché, come lui stesso ricorda, “Si finisce per abituarsi a tutto”. ù
Non sono giorni disperati quelli della cella, nemmeno angustiato dai processi, ma solo dal tempo: “non ero eccessivamente infelice. Il solo problema, ancora una volta, era di ammazzare il tempo. E ho finito per non annoiarmi più affatto dall’istante in cui ho imparato a ricordare”. Alla notizia della sua condanna alla ghigliottina Meursault, in piena consapevolezza delle conseguenze della sua apatia, rifiuta la religione nonostante gli estenuanti tentativi del cappellano di trovare in lui il desiderio di Dio.
Il personaggio principale porta in sé molte tracce del suo autore: Camus aveva svolto molti lavori umili, proveniva da una povera famiglia in un quartiere popolare di Algeri, e aveva vissuto in casa con la madre l’anziana nonna, che prende i panni della madre di Meursault. Questo amore per la natura, per la vita sotto il cielo che caratterizza Meursault lo spiega Camus stesso: “esso appartiene a quella razza indifferente allo spirito, a quel popolo algerino che interamente proiettato nel presente vive senza miti, senza consolazione”.
Infatti quella di Meursault non è una indifferenza nella sua accezione più consueta, quanto una indifferenza dovuta alla lucidità di sapere che non ci sono più illusioni, che una vita è uguale all’altra, “Che non si vive felice più o meno a lungo. Che lo si è e basta”, che le vicende degli altri umani, come degli animali, così come le proprie, sono prive di ogni interesse. Tutto ciò fa del protagonista un uomo assolutamente attuale, un piccolo uomo comune che vive il senso dell’assurdo e per il quale tutto è equivalente. Per lui il rapporto con gli altri è meccanico, gli altri esistono in quanto li incontra sulla sua strada, al ristorante, al lavoro.
Il risvolto più interessante di questo personaggio, quello che più lo avvicina a noi contemporanei, è il fatto che non si tratti di un essere spregevole, anzi, ma un essere che vive calato in una condizione di estraneità.
Come scrisse Sarte in fin dei conti Meursaul “è uno dei terribili innocenti. Sono lo scandalo della società perché non accettano le regole del gioco”. È l’uomo che non vuole giustificarsi e per questo gli si preferisce l’idea che ci si fa di lui e non quello che lui è. E la società che emerge durante i processi e si rivela molto simile alla attuale quando si tratta di giudicare la persona che agisce secondo proprie spinte, per sostituirgli una apparenza fittizia creata con l’idea che gli altri hanno di lui.
Meursault non è solamente straniero alla società ma anche a se stesso, soprattutto nella prima parte del romanzo è un uomo che non ha un trascorso, non ha ricordi, non ha oggetti o persone che lo leghino al passato a eccezione della madre che muore con l’incipit senza peraltro portare nella narrazione nessun dettaglio del passato.
Lo sguardo del protagonista è per il cielo e per il sole, è uno sguardo con una distanza pari a zero, diretto sul mondo e sulla luce del mondo: lui e il lettore sono dentro la vita. Nella seconda parte è uno sguardo con una distanza creata dal ricordo e dal progressivo allontanarsi dalla vita, un istintivo prendere le distanze da ciò che non avrà più a breve: in questo modo anche il lettore diventa quasi spettatore in tanto buio.
La felicità? La felicità esiste nel lasciar trascorrere in modo passivo e inconsapevole le cose, ma si fa pressante nel ricordo. L’uomo che vuole vivere in esilio da se stesso e dagli altri non ha bisogno di passato e ricordi, il peso del ricordare è peso di una realtà comunque menzognera; preferisce rinunciare a una felicità pressante e vivere una felicità inconsapevole pur di non ricordare, pur di non chiedersi mai perché. La felicità pressante infatti, quella che gli nasce alla notizia e all’avvicinarsi dell’esecuzione, arriva con il suo esercizio di ricordare per ingannare il tempo, un esercizio della memoria, un lavoro sul ricordo che inizia a stratificargli il presente componendo tasselli della sua identità, lavorando debolmente alle sue radici.
È un altro aspetto spaventosamente contemporaneo il non guardare alla storia con la esse maiuscola ma nemmeno alla propria storia, l’accettazione di un eterno presente che preservi un torpore abitudinale. Meursault parla anche dell’uomo di oggi, del non voler vedere a chi si è e figli di quale vicenda per non avere pensieri, per non varcare quella soglia delle preoccupazioni umane che potrebbe portare a chiedersi qualcosa. Invero il romanzo che inizia con l’annuncio della morte e finisce con l’annuncio della morte: la prima morte è già avvenuta in data incerta, la seconda deve ancora avverrà presto ma in data ancora non conosciuta: il protagonista si trova così in esilio dalla morte, straniero non solo a se stesso ma anche alla vita, da qui il suo non farsi illusioni e cedere all’indifferenza.
Nel 1957 Albert Camus vince il Nobel perché “La sua opera mette in luce i problemi presenti ai giorni nostri alla coscienza degli uomini”. I giorni nostri di allora si riflettono nei giorni nostri di oggi, nell’uomo di ieri un presente che è un passato a noi caro per chiederci dei perché.
Da minima&moralia
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