Il mio primo incontro con Eva Carlestal è avvenuto al Centro Studi e Iniziative di Partinico nel 1975. Per quasi due anni abbiamo lavorato insieme nel Centro di Formazione di Danilo Dolci a Trappeto. Eravamo tanto giovani allora e capivamo poco di tutto. Chiusa quella esperienza, ci siamo persi di vista. E' bello averla ritrovata, dopo tanti anni, nella stessa rivista alla quale collaboro anch'io. (fv)
Eva Carlestål
La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia
di Antonino Cusumano
Chi fa ricerca contrae dei debiti di
riconoscenza nei confronti di quanti lo hanno aiutato, lo hanno guidato
alla comprensione di un fenomeno o semplicemente lo hanno incoraggiato.
Si pone per il ricercatore, alla fine del suo lavoro, il problema della
restituzione. Se è vero che l’acquisizione dei dati conoscitivi comporta
un complesso rapporto di negoziazioni, di mediazioni, di scambio tra
soggetti con interessi differenti e talvolta conflittuali,
la restituzione del sapere acquisito, il controllo delle informazioni
ottenute sul campo e del loro uso pubblico, e la responsabilità del
ricercatore verso gli informatori, sono questioni che presentano aspetti
politicamente ed eticamente rilevanti, qualificanti della stessa
esperienza scientifica e della attendibilità metodologica.
Sensibile a questi problemi Eva
Carlestål ha sentito il bisogno di ritornare a Mazara per restituire i
risultati della ricerca che ha condotto nella nostra città tra il 1996 e
il 2001, in origine la sua tesi di dottorato, dal titolo La famiglia. The ideology of sicilian family networks,
pubblicata nel 2005 a cura del Dipartimento di Antropologia
dell’Università di Uppsala, oggi edita in lingua italiana a cura
dell’Istituto Euro Arabo, con il titolo La famiglia. Un’indagine su una comunità di pesca in Sicilia, grazie
alla traduzione di Deianira Ganga. Il libro è stato presentato a Mazara
sabato 2 febbraio 2013 nell’Aula Consiliare. Sono intervenuti, insieme
all’autrice, Gabriella D’Agostino, docente di Antropologia Culturale
dell’Università di Palermo, autrice tra l’altro della nota introduttiva
al volume, e il Presidente della Fondazione Buttitta, Ignazio E.
Buttitta, cui si deve il concreto sostegno economico per la stampa
dell’opera.
Già collaboratrice negli anni Settanta
del sociologo Danilo Dolci, avendo soggiornato a Partinico e in altre
località della Sicilia, Carlestål ha insegnato all’Università di Uppsala
ed è attualmente Director of doctoral studies presso il Dipartimento di Language&Culture in Europe dell’Università
di Linköping. Probabilmente nulla è più lontano dalla Sicilia della
Svezia e per questo lo sguardo che Eva Carlestål getta su di noi, sul
nostro modo di essere e di rappresentarci, di vivere e di abitare, di
pensare, di mangiare e di parlare, ci aiuta a conoscerci, a conoscere
noi stessi, talvolta a riconoscerci, a capire come ci vedono gli altri,
ma ci aiuta anche a intravedere la cultura di chi ci guarda e ci
rappresenta. Attraverso quel che la studiosa ha scritto su di noi, sulla
struttura e sull’organizzazione delle famiglie nell’ambito delle
società di pesca, sulla loro solidità e coesione ma anche sulla loro
duttilità e pervasività, attraverso le sue descrizioni etnografiche e le
sue interpretazioni antropologiche, intuiamo qualcosa della sua cultura
d’appartenenza, del suo modo di essere e di pensare, delle sue
abitudini e della sua concezione della vita, della società e del mondo.
Alcuni probabilmente i più scettici non
si riconosceranno, non si ritroveranno nelle rappresentazioni della
città e dei cittadini elaborate e proposte da Eva; alcuni, magari i più
critici, i più suscettibili, i più permalosi, si sentiranno un po’
infastiditi, perfino indispettiti da certe sottolineature su determinate
nostre abitudini, su alcuni eccessi o difetti comportamentali. Ma è
bene ricordare che gli individui non sempre sono i migliori interpreti
di se stessi. Tra le loro intenzioni e le concrete manifestazioni di
comportamento, tra le norme dichiarate e le prassi consolidate ci sono
spesso non poche contraddizioni e ambiguità. In questo iato, in questo
scarto, in questa distanza tra ciò che diciamo di essere e ciò che
facciamo o siamo di fatto, sta probabilmente il livello delle strutture
profonde di una cultura. E l’antropologia serve proprio a
defamiliarizzare il consueto e l’apparentemente ovvio, a rendere
esplicito l’implicito, il sottinteso, l’irriflesso, quanto nel nostro
senso comune appare scontato. Il compito dell’antropologo è in fondo
quello di mostrare che quanto ci sembra ovvio e naturale non lo è
affatto, che le cose che ci sono familiari possono essere viste sotto
una luce diversa, che le rende in qualche modo strane, esotiche. Lo
“sguardo da lontano” ci fa vedere quello che di solito non vediamo
proprio perchè lo abbiamo costantemente sotto gli occhi. Questo
estraneamento ci suggerisce che le nostre istituzioni sociali e i nostri
modi di vivere non sono gli unici possibili né sono necessariamente
migliori.
Eva Carlestål non si è limitata a
osservare, ascoltare, registrare. Non è rimasta sulla soglia della
città, vi si è trasferita, ha preso contatto con famiglie, uomini e
donne della comunità, ha condiviso gli spazi urbani, ha partecipato ad
eventi pubblici e privati, (processioni, comizi, riunioni politiche,
conferenze sulla pesca, manifestazioni culturali, perfino matrimoni), ha
promosso quella trama di fatti e relazioni personali che costituiscono
lo specifico di un’indagine sul campo, è entrata nelle case e perfino
nelle scuole anche attraverso la figlia Teresa, che con lei ha condiviso
la permanenza a Mazara frequentando il liceo locale. Eva ha in altre
parole perseguito e realizzato quel metodo di indagine che in
antropologia si chiama “osservazione partecipante”, finalizzata alla
comprensione empatica del sentire comune dei soggetti indagati, e per
questo ha praticato in prima persona le abitudini dei mazaresi,
condividendo modelli e strategie della cultura locale.
Molti sono gli aspetti della vita
cittadina che Eva ha attentamente osservato e descritto, a cominciare
dalla nostra orgogliosa difesa delle pratiche alimentari, mai solitarie e
sempre occasioni festose di convivialità, per certi aspetti
accompagnate forse da un’eccessiva enfasi siculocentrica. La studiosa
svedese dedica alcune pagine al nostro senso dell’ospitalità, generosa
certo, ma anche probabilmente a volte esuberante, ingombrante, perfino
invasiva rispetto alla libertà e ai diritti della privacy individuale. E
comunque sottesa e regolata da impliciti modelli d’inclusione e di
esclusione.
Del complesso rapporto pubblico/privato,
approfondito e ampiamente argomentato con numerose esemplificazioni,
anche in simmetrica corrispondenza con il difficile equilibrio
dentro/fuori, l’antropologa dimostra quanto il confine sia ambiguo, per
certi tratti ben marcato e per altri assai incerto e opaco, reversibile,
spesso giocato secondo logiche di affiliazione e di appartenenza, di
equivoca commistione o di rigida separazione.
Ma le cose forse più interessanti e più
originali Eva probabilmente le scrive sulla donna mazarese, sulle donne
che sono figlie o mogli di pescatori, la cui visibilità e forte presenza
sono evidentemente correlate all’assenza del padre o marito, costretto
in mare per lunghi periodi dell’anno Ci fa scoprire il loro ruolo
centrale nella gestione non solo dell’organizzazione delle attività
domestiche e familiari ma anche e soprattutto nella strutturazione e
trasmissione dei valori morali e affettivi, dei saperi e dei poteri
formali e informali. Cogente è il vincolo di dipendenza che lega il
figlio alla madre in un sistema di matrifocalità in forza del quale le
donne sono chiamate a “fare da padre e da madre”, così da dichiarare
all’antropologa (“tu sei donna e mi puoi capire”) timori e ansie,
premure e apprensioni, desideri e insoddisfazioni. Probabilmente solo
una donna, la sensibilità di un’antropologa, avrebbe potuto cogliere le
diverse sfumature del mondo affettivo e sentimentale delle mogli
oppresse da una solitudine densa di supplenze, di impegni e incombenze
familiari.
C’è, in verità, molto dello specifico
femminile nello sguardo della ricercatrice: l’attenzione per gli aspetti
più minuti della vita quotidiana, il registro colloquiale e narrativo
della sua scrittura, i livelli di partecipazione umana e sentimentale
alle vicende dei suoi informatori, il suo percorso metodologico tra
micro e macro analisi, la sua particolare sensibilità per i temi della
maternità, dell’affettività, della moralità.
Molto di ciò che Eva Carlestål riferisce
alla famiglia mazarese – plasticità e sussidiarità, camaleontismo e
solidarietà – è probabilmente da ascrivere a modelli culturali che
appartengono ormai all’intero nostro Paese. Niente affatto chiusa su se
stessa ma al contrario flessibile ed estroflessa nella sfera pubblica,
la famiglia allargata svolge un ruolo non secondario nell’elaborazione e
applicazione di precisi codici organizzativi e normativi che orientano e
permeano la vita della comunità. Sono fin troppo note le pratiche della
mediazione e della cooptazione familiare nella politica e
nell’amministrazione, soprattutto quelle degenerate nel clientelismo e
nel nepotismo. Sappiamo quanto la logica onnivora dei reticoli parentali
possa inquinare e corrompere la gestione della cosa pubblica. E
tuttavia, al di là dei fenomeni prodotti dal cosiddetto “familismo
amorale”, la famiglia era e resta, oggi ancor più di ieri, in tempi di
gravissima crisi del welfare statale, un fondamentale ammortizzatore
sociale, un prezioso presidio economico a difesa degli equilibri della
collettività. Lo è per i giovani che hanno difficoltà ad entrare nel
mondo del lavoro. Lo è per le donne che non possono contare su una
adeguata ed efficiente rete di servizi pubblici. Lo è per le persone
anziane o per quelle non autosufficienti che trovano all’interno del
nucleo familiare l’unico sicuro riparo assistenziale.
La verità è che in una società e in una
cultura di tipo collettivista, la famiglia è una grande Madre,
possessiva ma anche protettiva, solida ma anche solidale, pervasiva ma
anche comprensiva. Nulla di più distante, nel bene e nel male, dalle
società e dalle culture individualistiche del Nord Europa. Probabilmente
nulla di più antropologicamente lontano dalla Svezia di Eva Carlestål.
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