IL ROMANZO NERO DEI MONACI DI MAZZARINO
di Leonardo Sciascia
Caltanissetta, gennaio 1961
Sono
stato a Mazzarino due volte. La prima volta, quando ancora lo scandalo
dei monaci non era scoppiato, in compagnia di un amico, professore
universitario, che appunto nel convento sperava di trovare non so che
libri: poiché Mazzarino fu, nel Seicento, un fiorente centro di stampa.
Accompagnati da notabili del luogo, entrammo nel convento. Un monaco
silenzioso, e forse dalla nostra visita irritato (mi pare, guardando ora
le fotografie sui giornali, fosse padre Agrippino), ci aprì una stanza
dove i libri stavano ammucchiati come vi fossero stati rovesciati a
ceste, a carrettate. Era impossibile dar dentro a quel mucchio: il mio
amico aprì un paio di volumi che stavano a portata di mano, la vita di
un santo, un breviario; le mani gli si inguantarono di polvere. Uscimmo
nel corridoio. C’era una finestra aperta sulla vallata. Una signora che
era con noi, che ci aveva accompagnato in macchina, disse: “Che
bellezza! Che pace!”, e aggiunse che l’onorevole, nell’ultima sua visita
al convento, aveva promesso che vi sarebbe tornato per un suo ritiro
spirituale. L’onorevole usa ritirarsi ogni anno a fare esercizi
spirituali in un convento. Non c’era bisogno di chiederne il nome: era
uno dei più brillanti e inquieti uomini della Democrazia cristiana in
Sicilia.
La
campagna era davvero molto bella: si intrideva del colore della sera e
vibrava di solitudine. Ma, chiusa la finestra, mi parve impossibile che
un uomo potesse sentire aleggiare dentro le mura del convento, in quei
corridoi e in quelle celle, lo spirito: e quello con la esse maiuscola
per di più. Io vi sentivo invece aleggiare il disfacimento della
materia: il polveroso disfarsi del legno, della carta; la grommosa
lebbra dell’intonaco, la ruggine, la rancida cera, l’infracidire dei
tessuti. E, al di là di queste sensazioni fisiche, l’acuta sensazione di
un disfacimento morale: quel che è di sordido, di parassitario, di
tenebroso in una chiusa comunità maschile. Sensazione che, per la
verità, ho sempre provato visitando un convento di monaci.
Tre
mesi dopo sono tornato a Mazzarino accompagnando Enrico Emanuelli.
Stavolta non sono entrato nel convento: lo scandalo era già esploso, i
monaci non ricevevano giornalisti. Abbiamo fatto un giro intorno al
convento. Era già notte. Un’atmosfera da Castello di Otranto gravava sul
convento e sulla campagna: quei luoghi appartenevano ormai alla più
nera letteratura.
Emanuelli
è uno dei più scrupolosi giornalisti che io abbia mai conosciuto. Volle
conoscere in ogni dettaglio, da persone ben informate, la storia dei
monaci. Un familiare di uno dei ricattati ci raccontò un episodio che
Emanuelli riferì su La stampa e che Giovanni Ansaldo commentò poi sul
Tempo. Ed è davvero il dettaglio più feroce dei terribili avvenimenti di
cui sono stati protagonisti i quattro monaci: quello che da solo
basterebbe a consumare quel piccolo residuo di giustificazione umana, di
compassione, di pietà che solitamente – specie in un paese come il
nostro – concediamo ai rei.
Come
è noto, la banda fece oggetto dei ricatti due persone anziane che
avevano bambini: e appunto li ricattava minacciando la vita dei bambini.
Terribile e sottile accorgimento psicologico quello di minacciare un
padre anziano nella vita di un bambino, di un figlio che ha appena tre o
quattro anni di età. E poiché uno dei padri resisteva al ricatto, un
giorno uno dei monaci, incontrandolo insieme al bambino, questo atroce
complimento pronunciò – “Quant’è bello! Pare vivo”. – che voleva dire il
bambino essere già morto, per il fatto che il padre non pagava il
ricatto, e soltanto illusione era il crederlo vivo.
Non
so se questo episodio figura negli incarti istruttori, né so quale peso
possa avere nel giudizio penale: ma è certamente, nell’umano giudizio
sui fatti di Mazzarino, il peso decisivo.
Tenebrose
storie di monaci furono di moda nell’Inghilterra del settecento. La
leggenda nera, creata intorno ai conventi dalla letteratura dei paesi
cattolici, veniva ripresa con furore antipapista dagli inglesi e
complicata da incidenze erotico-patologiche. Nacque così, nei conventi
cattolici visti con fantasia protestante, il romanzo dell’orrore, il
romanzo nero.
Di
fronte ai fatti di Mazzarino possiamo dire che ancora una volta la
realtà si è adeguata alla fantasia: e che la nera torbida storia dei
frati di Mazzarino è, in pieno ventesimo secolo, molto somigliante ai
tales of terror del settecento inglese. Ci sono tutti gli ingredienti:
il subdolo ricatto, l’omicidio spietato, il fosco erotismo, la
allucinata avidità, la pazzia. E in più – quasi a seguire l’evoluzione
del “genere”: dal romanzo nero al romanzo giallo – c’è un margine di
mistero destinato a durare al di là del processo e della sentenza.
Perché a Mazzarino, nessuno sembra convinto che la delittuosa
associazione abbia fatto capo al Lo Bartolo, giardiniere del convento
morto suicida nelle carceri di Caltanissetta. Il suicidio del Lo Bartolo
pare anzi che aggiunga un elemento di concretezza ai vaghi sospetti che
evidentemente si agitano nei pensieri – soltanto nei pensieri: e appena
tralucono nei discorsi – dei mazzarinesi.
Perché si è suicidato il Lo Bartolo? Perché si è visto perduto o perché temeva di perdere qualche altro?
Ma
non si può su dei fatti che sono già abbastanza romanzeschi, costruire
romanzesche ipotesi. Questo romanzo nero ha già fatto, indirettamente,
un’altra vittima: il giovane Cosimo Cristina che, pubblicando sul suo
giornaletto una indicazione, chi sa come raccolta o fantasticata, ebbe
querela dal professionista che si riconobbe indicato come capo della
gang; e fu condannato; e atrocemente si suicidò.
In
effetti la ricerca di un capo, di una mente dirigente, nasce dalla
presunzione borghese che un contadino – come in questo caso il Lo
Bartolo – non abbia, a dirigere una anonima assassini, più capacità di
quanta ne abbia a dirigere un’azienda agricola o commerciale.
Paradossalmente, la borghesia rivendica a sé la capacità organizzativa
del delinquere associato. E può darsi che sia vero: che, cioè, ogni
associazione delittuosa che prosperi in Sicilia abbia un capo
sconosciuto, ben mimetizzato nella rispettabilità borghese: ma non si
può, per questa presunzione, sistematicamente scartare la possibilità
che un contadino, come il Lo Bartolo, abbia tanta astuzia e attitudine
da tenere in pugno una organizzazione.
Il
vigile urbano Giovanni Stuppia, che è stato il Maigret dei fatti di
Mazzarino, esclude che l’inchiesta giudiziaria non sia riuscita a
raggiungere il capo: secondo lui, capo della banda era il giardiniere
del convento. Si parla, negli atti dell’inchiesta, di un certo
“Vincenzo” rimasto ignoto: ma pare sia stato un gregario e non un capo.
Il
vigile Stuppia, di cui spesso i carabinieri si avvalevano nelle
indagini, cominciò ad avere sospetti sull’attività delittuosa del Lo
Bartolo per il fatto che costui, padre di nove figli e sempre in
condizioni di ristrettezze economiche, aveva cominciato a fare delle
spese: una casa, un pezzo di terreno, dei vitelli, delle pecore. Così
pure un giovane amico del Lo Bartolo, certo Azzolina: cronicamente
disoccupato, si permetteva il lusso di comprare un radiofonografo-bar e
una potente motocicletta.
Questi
indizi, all’indomani dell’omicidio del cavaliere Cannada, decisamente
aggravati a carico del Lo Bartolo dal fatto che la vedova Cannada
ricordava come privo di due dita della mano sinistra uno degli uccisori
del marito, e il Lo Bartolo aveva quella mutilazione, portarono al fermo
di costui. Ma dopo sette giorni, chissà come e perché, il Lo Bartolo
venne rilasciato. E cominciarono i guai di Stuppia: per strada gli
sussurravano insulti e minacce, “cornuto”, “sbirro”, “ti ammazzeremo”, e
così via, finché non gli spararono, ma non, a quanto pare, con
l’intenzione di ammazzarlo (alle gambe: ed anche al cavaliere Cannada
pare avessero sparato per dargli una lezione, non per liquidarlo).
Il
ferimento di Stuppia portò all’arresto di Azzolina: il quale “cantò”.
Il Lo Bartolo scomparve da Mazzarino: e fu arrestato più tardi a Genova;
ma appena trasferito nelle carceri di Caltanissetta si impiccò. Più
tardi furono arrestati quattro monaci: padre Agrippino (Antonio Jaluna),
frate Carmelo (Luigi Galizia), frate Venanzio (Liborio Marotta) e padre
Vittorio (Ugo Bonvissuto).
“Scalzasi
Egidio, scalzasi Silvestro…”: ma i quattro frati e padri, di cui uno
addirittura teologo, si erano ricalzati. Il Procuratore della Repubblica
dice che “sarebbe addirittura da ingenui ritenere i religiosi succubi
delle minacce dei banditi”: e dunque la loro responsabilità è stata
pienamente, e senza attenuanti, accertata. I reati di cui debbono
rispondere sono molti: estorsione a danno del signor Francesco Bonanno;
assassinio del cavalier Angelo Cannada; estorsione a danno della vedova
Cannada; altre estorsioni a danno del dott. Ernesto Colajanni, del
signor Giuseppe Bartoli, del padre provinciale dei Cappuccini di
Siracusa, del padre Costantino del convento di Caltagirone; e infine
tutto un giro di abigeati. Come si vede, non avevano ritegno a spremere
soldi anche ai loro superiori e confratelli: ed è strano che costoro
abbiano pagato senza fiatare, senza toglierseli dai piedi con un
trasferimento da Mazzarino a Rimini (che, in forza di quel che accadde a
padre Cristoforo per ben altre ragioni, è la prima città del nord che
viene sotto la penna). Ma forse i superiori e i confratelli ricordavano
quel che, non molto tempo prima era capitato al vescovo di Agrigento:
quasi mortalmente impiombato da un monaco della Quisquina che, appunto,
si sentiva minacciato di trasferimento. E c’è da dire, manzonianamente
ancora, che uno il coraggio non se lo può dare.
In
questa terribile vicenda se ne inserisce un’altra, non sappiamo
precisamente con quali collegamenti, che ha per protagonisti un altro
frate o padre (diceva messa: e dunque era un padre, anche se i giornali
lo chiamano frate) Benigno, al secolo Giuseppe Occhipinti, e certa
Pasqualina Tasca, assistente ecclesiastica: Il Procuratore della
Repubblica Lamia la definisce “vicenda amorosa di sapore boccaccesco
sulla quale sarebbe di cattivo gusto indugiare nella narrazione”. Ma i
giornalisti non hanno il buon gusto del dottor Lamia (e, confesso,
nemmeno io); e si sono dati alla ricerca delle lettere che padre Benigno
scriveva alla Pasqualina: o perlomeno di quei brani la cui
pubblicazione non faccia incorrere nel reato di oscenità. Da lettere
come questa – “Egregio Signore, la invitiamo a versare un piccolo
contributo di dieci milioni, altrimenti ne va di mezzo la vita di sua
moglie” – con padre Benigno passiamo a ben diverse espressioni: “Mia
dolcissima, ti penso e ti sogno sovente. Con te tutto mi sembra soave…”:
“Difendi il mio amore con le unghie e la passione e ricorda le ore di
intimità trascorse insieme”: “Mia dolcissima Lina, quando dirò Messa mi
ricorderò del mio tesoruccio perduto e lontano”.
E questo tocco da “messa nera” è quel che ci voleva a far completa la storia.
Da "Mondo nuovo" N.3 - 15 gennaio 1961
Da "Mondo nuovo" N.3 - 15 gennaio 1961
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