ATTENTI AL DUCE!
di Leonardo Sciascia
Ho
del fascismo ricordi molto vivi, e che anzi si fanno più nitidi ed
articolati nell’avvento della vecchiaia, per quella sorta di presbiopia
che la memoria viene acquistando. Si annebbiano e presto si cancellano i
fatti vicini, gli incontri, le letture; e imprevedibilmente si
dispongono a fuoco, come nel mirino di una macchina fotografica o nelle
lenti di un binocolo, le cose lontane e che credevamo perdute. A volte,
ripeto, imprevedibilmente, sollecitate da vaghe percezioni, da
inavvertiti richiami; a volte per più scoperte, evidenti sollecitazioni.
Questa
ricerca sugli attentati a Mussolini – attentati più vagheggiati che
progettati e vagheggiati anche da parte della polizia fascista –
condotta sul superstite carteggio dell’Ovra, è in tal senso ricca di
sollecitazioni: a ritrovare nella memoria tutti quei fatti, personaggi,
discorsi, riti, feste e luoghi comuni che s’appartengono alla dimensione
comica del fascismo. Di questa dimensione non si è voluto o saputo
sufficientemente tener conto. Non si è saputo o saputo sufficientemente
ridere: che sarebbe stato salutare. Il solo che ci ha provato, in
letteratura e per trasposizione nel cinema, è stato Vitaliano Brancati:
ma, appunto, isolatamente e senza apprezzabili effetti nella società
italiana. Si è preferito dare del fascismo una rappresentazione
piuttosto tetra, quasi strettamente informata a una diagnosi stalinista.
E non che tetraggine e tragedia nel fascismo non ci fossero; ma almeno
ugualmente catartica, se non più, sarebbe stata una rappresentazione del
versante comico. Il ridicolo uccide: e ci ostiniamo a credere uccida
anche in Italia, nonostante le contrarie apparenze.
Non
ricordo se in quella specie di enciclopedia del fascismo comico che si
può cavare dall’opera di Brancati la voce “attentati” vi abbia parte. E’
certo una voce importante: e come in quelli che ebbero un minimo di
progettazione e di cui gli italiani furono informati si scopre il volto
bieco e feroce della dittatura fascista, in questi soltanto vagheggiati
che Rizzo ha saputo, direi con vena brancatiana, spigolare, se ne scopre
il volto farsesco, irresistibilmente comico. E nel comico trova
coinvolgimento anche un certo antifascismo, specialmente degli esuli.
Non tutti avevano l’intelligenza, la lucida comprensione del corso
effettuale delle cose, che aveva un Salvemini: da capire, insomma, che
l’attentato – peraltro difficilmente attuabile – serviva alla polizia
fascista, al fascismo, al mito mussoliniano come lubrificante e
corroborante.
All’apice
dei sogni dell’antifascismo era la morte di Mussolini. Ragionevolmente,
considerando che in Italia in fascismo per pochi è stato ideologia,
sistema, dottrina e per i più, specialmente negli anni del quasi totale
consenso, mussolinismo. Morto Mussolini, il fascismo sarebbe crollato:
da ciò il sorgere, negli oppositori interni, del mito dell’ulcera di cui
si diceva Mussolini fosse affetto. Negli anni in cui veniva scemando il
consenso, la notizia che Mussolini avesse un’ulcera , e abbastanza
grave, prese proporzioni tali che la sola parola – ulcera – era come un
segnale, come un’intesa tra coloro che lo volevano morto. Gli oppositori
interni, più avvertiti e guardinghi nei riguardi dell’efficienza e
capillarità della polizia politica, vagheggiavano l’ulcera, avevano il
culto dell’ulcera – “galoppante” si aggiungeva: e si era presi da quel
galoppo come nel finale di un film western – così come gli esuli
vagheggiavano l’attentato. Ricordo lo sconforto di un antifascista del
mio paese che, tra la meraviglia di coloro che come antifascista lo
conoscevano, nell’estate del ’37 andò alla stazione ferroviaria a vedere
Mussolini passare. Ci andò per controllare a che punto fosse arrivata
l’ulcera nel suo galoppare: ma Mussolini gli apparve così in buona
salute, abbronzato, alacre da perdere ogni speranza riguardo all’ulcera.
“Ma quale ulcera!”, confidò agli amici, “Quello campa cent’anni!.
Al
vagheggiamento dell’attentato da parte degli esuli corrispondeva, come
abbiamo detto, il vagheggiamento da parte della polizia. Bastava un
nulla – un sentito dire a Parigi – perché l’ipotesi dell’attentato
prendesse corpo, muovesse una sproporzionata attività. In certi casi, è
da credere si trattasse di pura invenzione da parte degli informatori:
che non potevano meglio giustificare i compensi che ricevevano. Erano,
gli informatori, per lo più gente di poco affare, senza alcuna
intelligenza delle cose: al punto che uno di loro si meraviglia nel
sentire, in ambienti di antifascisti, che c’è intenzione di colpire,
oltre che Mussolini e il re, anche il ministro della Giustizia: “So di
sicuro, per quanto non ne comprenda la ragione, che tra essi c’è l’on.
Rocco”. Non ne capiva la ragione: che è una ragione con la quale, a
tanti anni dalla caduta del fascismo, ci troviamo a fare i conti. E
direi che per questo particolare, per questo non capire, l’informatore
trova un accento di verità che non si trova in molti dei rapporti
antologizzati da Rizzo, tra i quali spicca – come di un Conrad di
seconda mano, forse anche perché ha la Polonia come scena – quello che
s’intitola al “sicario mistico”.
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Prefazione di Leonardo Sciascia al libro di Vincenzo Rizzo Attenti al Duce, Vallecchi editore, 1981
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