La piazza di Mezzojuso sempre più deserta.
ph. nicolò perniciaro
Una nota trasmissione televisiva ha portato alla ribalta, nei mesi scorsi, un paese della provincia di Palermo, Mezzojuso, tanto simile alla maggior parte dei paesi del sud dove è sempre più difficile vivere. Ne avevamo già parlato in questo blog https://cesim-marineo.blogspot.com/2018/12/a-cavadi-mezzojuso-tre-donne-contro-la.html.
Ci torniamo oggi con una lettera aperta scritta da un'amica che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare nei due anni di vita della rivista NUOVABUSAMBRA. I nostri paesi, per rinascere, hanno bisogno di persone come Salvina. (fv)
Circa
due mesi fa ho inviato questa lettera a Massimo Giletti, conduttore di
"Non è l'Arena" che, dopo qualche giorno, mi ha telefonato per
ringraziarmi. Questa lettera è un atto di amore nei confronti del mio
paese.
Mi chiamo Salvina Chetta sono una mamma e un’insegnante. Tante volte durante la trasmissione ho pensato di recarmi nella piazza vuota, ma troppe sono state le resistenze: intervistata non mi sarebbe bastato dire di essere vicina alle sorelle Napoli, perché questo, ipocritamente, lo ha detto anche chi vicino non lo è affatto. Per quella piazza vuota o frequentata soltanto da anziani, gli italiani ci giudicano omertosi, senza coraggio, ignoranti. Generalizzare su una popolazione è riduttivo e superficiale oltreché pericoloso. Sono una palombara, mi piace scendere negli abissi, la riflessione profonda sulle cose; il mio senso critico e spero lucido sulla realtà mi spinge a tagliare carne e ossa. Per tutti questi motivi scrivo questa lettera.
Abito a Mezzojuso perché ci sono nata, ma soprattutto per scelta. Ci sono ritornata, infatti, dopo quattro anni di residenza in una casa di campagna di un paese vicino. Mio marito ed io avevamo letto i saggi di paesologia di Franco Arminio e abbiamo deciso di comprare un casa del centro storico. Volevamo abitare in paese, qui, vicino alla piazza, fra le persone. Dovevamo prenderci cura del paese. Questo significava, innanzitutto, una cosa semplice: riabitare una casa chiusa da anni perché i proprietari si erano trasferiti in città. Si svuota Mezzojuso, partono i miei compaesani, vanno ad abitare a Palermo o emigrano verso città più lontane; Partono i giovani, se ne sono andati tanti miei amici e compagni di scuola. Muoiono lentamente i paesi, qui è un’emorragia di intelligenze. Restano gli anziani. I giovani disoccupati non è difficile che trovino conforto nell’alcol o che cadano in depressione. I disagi della viabilità nella strada statale che ci collega con Palermo isolano ancor più il paese, ne aumentano la distanza dalla città e dai servizi.
Non nascondo che le prime puntate della trasmissione mi hanno indispettita: le luci dei riflettori erano troppo forti per un paese agonizzante! Sentivo il mio paese, questo paese siciliano dell’entroterra, osservato dall’alto di un piedistallo, giudicato da chi non ne vive le fatiche; dimenticato dallo Stato, il mio paese veniva, tuttavia, additato dalla TV.
Ma abbiamo un cancro e la colpa non è di chi ha diagnosticato il male. Oggi mi piacerebbe che la gente di questo paese si chiedesse: veramente la TV a Mezzojuso è il peggiore dei mali? Senza esigere risposte, basterebbe soltanto che la gente si facesse delle domande.
Prendersi cura di un paese significa non solo curarne le pietre, le case, ma stare vicini al dolore delle persone. Penso spesso alla solitudine di Ina, Anna, Irene. Come si sentono quando vanno a comprare il pane o all’ufficio postale? Lo scorso Natale la mia messa è stata averle incontrate e abbracciate.
A Mezzojuso la mafia c’è perché è nella fragilità dei luoghi che i prepotenti sguazzano. Nella debolezza di un luogo, in un tragico momento della sua storia, alcuni miei compaesani hanno trovato in Ina, Anna, Irene, Salvatore Battaglia e chi denuncia gli estorsori i capri espiatori. Renè Girard scriveva che il conflitto fra gli uomini non è causato dalle differenze, ma dalle somiglianze. Cosa ci accomuna alle sorelle Napoli? Una profonda solitudine, un profondo dolore, la difficoltà di essere siciliani. Mezzojuso da anni non è più una comunità, è venuta meno la convivialità nelle feste e nelle piazze, manca il mutuo soccorso fra gli uomini. E’ un paese diviso, spaccato, frantumato.
Governato da una maggioranza prepotente e venuta meno la presenza dell’opposizione, a Mezzojuso manca il dialogo della politica a garanzia della democrazia. Si vive male e ci è vietato protestare, chi lo fa viene lasciato ai margini, vessato attraverso i social o calunniato in qualche bar, “ché il nostro piangere fa male al re”, canterebbe qualcuno.
Toccare il dolore degli uomini e dei paesi ci fa restare umani. Solo dalla presa di coscienza del dolore può nascere il cambiamento. Non so a cosa servirà questo mio scritto, queste parole, però, le sento come un dovere nei confronti di un luogo, il mio; scrivendo del paese mi pare di accarezzarne la nuca. A scuola accarezzo spesso le teste dei bambini peggiori, di quelli più sfortunati, che vanno male. Loro lo sentono che gli voglio bene.
Salvina Chetta
Mi chiamo Salvina Chetta sono una mamma e un’insegnante. Tante volte durante la trasmissione ho pensato di recarmi nella piazza vuota, ma troppe sono state le resistenze: intervistata non mi sarebbe bastato dire di essere vicina alle sorelle Napoli, perché questo, ipocritamente, lo ha detto anche chi vicino non lo è affatto. Per quella piazza vuota o frequentata soltanto da anziani, gli italiani ci giudicano omertosi, senza coraggio, ignoranti. Generalizzare su una popolazione è riduttivo e superficiale oltreché pericoloso. Sono una palombara, mi piace scendere negli abissi, la riflessione profonda sulle cose; il mio senso critico e spero lucido sulla realtà mi spinge a tagliare carne e ossa. Per tutti questi motivi scrivo questa lettera.
Abito a Mezzojuso perché ci sono nata, ma soprattutto per scelta. Ci sono ritornata, infatti, dopo quattro anni di residenza in una casa di campagna di un paese vicino. Mio marito ed io avevamo letto i saggi di paesologia di Franco Arminio e abbiamo deciso di comprare un casa del centro storico. Volevamo abitare in paese, qui, vicino alla piazza, fra le persone. Dovevamo prenderci cura del paese. Questo significava, innanzitutto, una cosa semplice: riabitare una casa chiusa da anni perché i proprietari si erano trasferiti in città. Si svuota Mezzojuso, partono i miei compaesani, vanno ad abitare a Palermo o emigrano verso città più lontane; Partono i giovani, se ne sono andati tanti miei amici e compagni di scuola. Muoiono lentamente i paesi, qui è un’emorragia di intelligenze. Restano gli anziani. I giovani disoccupati non è difficile che trovino conforto nell’alcol o che cadano in depressione. I disagi della viabilità nella strada statale che ci collega con Palermo isolano ancor più il paese, ne aumentano la distanza dalla città e dai servizi.
Non nascondo che le prime puntate della trasmissione mi hanno indispettita: le luci dei riflettori erano troppo forti per un paese agonizzante! Sentivo il mio paese, questo paese siciliano dell’entroterra, osservato dall’alto di un piedistallo, giudicato da chi non ne vive le fatiche; dimenticato dallo Stato, il mio paese veniva, tuttavia, additato dalla TV.
Ma abbiamo un cancro e la colpa non è di chi ha diagnosticato il male. Oggi mi piacerebbe che la gente di questo paese si chiedesse: veramente la TV a Mezzojuso è il peggiore dei mali? Senza esigere risposte, basterebbe soltanto che la gente si facesse delle domande.
Prendersi cura di un paese significa non solo curarne le pietre, le case, ma stare vicini al dolore delle persone. Penso spesso alla solitudine di Ina, Anna, Irene. Come si sentono quando vanno a comprare il pane o all’ufficio postale? Lo scorso Natale la mia messa è stata averle incontrate e abbracciate.
A Mezzojuso la mafia c’è perché è nella fragilità dei luoghi che i prepotenti sguazzano. Nella debolezza di un luogo, in un tragico momento della sua storia, alcuni miei compaesani hanno trovato in Ina, Anna, Irene, Salvatore Battaglia e chi denuncia gli estorsori i capri espiatori. Renè Girard scriveva che il conflitto fra gli uomini non è causato dalle differenze, ma dalle somiglianze. Cosa ci accomuna alle sorelle Napoli? Una profonda solitudine, un profondo dolore, la difficoltà di essere siciliani. Mezzojuso da anni non è più una comunità, è venuta meno la convivialità nelle feste e nelle piazze, manca il mutuo soccorso fra gli uomini. E’ un paese diviso, spaccato, frantumato.
Governato da una maggioranza prepotente e venuta meno la presenza dell’opposizione, a Mezzojuso manca il dialogo della politica a garanzia della democrazia. Si vive male e ci è vietato protestare, chi lo fa viene lasciato ai margini, vessato attraverso i social o calunniato in qualche bar, “ché il nostro piangere fa male al re”, canterebbe qualcuno.
Toccare il dolore degli uomini e dei paesi ci fa restare umani. Solo dalla presa di coscienza del dolore può nascere il cambiamento. Non so a cosa servirà questo mio scritto, queste parole, però, le sento come un dovere nei confronti di un luogo, il mio; scrivendo del paese mi pare di accarezzarne la nuca. A scuola accarezzo spesso le teste dei bambini peggiori, di quelli più sfortunati, che vanno male. Loro lo sentono che gli voglio bene.
Salvina Chetta
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