Da sx: Elvira ed Enzo Sellerio, A. Buttitta, L. Sciascia, V. Tusa
La felicità di far libri, secondo Leonardo Sciascia
di Nadia TerranovaImmaginate, accanto al duomo o in qualunque altro luogo nella cerchia dei bastioni, una roccia scoscesa e brulla che porta al mare; immaginatela lavica e ricoperta di piante escrescenti che offrono frutti gialli e arancioni; immaginate i fichidindia nel centro di Milano: polposi, colorati, nutriti da un sole che non picchia.
Ora pensate a Palermo nel 1969, con tutta la sua energia e tutta la sua ingovernabilità, pensate al caos, al brusio, alla mafia, ai dislivelli sociali, all’irriducibilità delle strade e dei quartieri. Pensate a un fotografo e a sua moglie, a un antropologo, a uno scrittore, a questi quattro amici che decidono di aprire una casa editrice e seguire una follia: investire in cultura. Fra loro – Enzo ed Elvira Sellerio, Antonino Buttitta, Leonardo Sciascia – è quest’ultimo a sfidare la similitudine che bisogna darsi l’ardire di capovolgere: “fare libri a Palermo è come coltivare fichidindia a Milano”.
Allora, quell’anno, mentre Palermo si rivoluzionava, da qualche parte a Milano dev’essere spuntato il primo ficodindia; sì, dev’essere andata senz’altro in questo modo, perché tutto è possibile quando ci sono la volontà, le idee, il talento e soprattutto la disperazione, senza disperazione non si fa nulla e nella Palermo disperata del 1969 nacque tutto. Di quella casa nata fra amici e diventata la madre degli eleganti volumi della collana “La memoria”, volumi che tutti presero a voler sfoggiare (“divenne anche di moda, e basta, per accorgersene, sfogliare una rivista di arredamento dell’epoca, in cui se c’era da mostrare una libreria, un divano, volentieri l’oggetto destinato a simboleggiare quotidiano buon gusto era costituito da uno di quei libretti blu”, scrive Maurizio Barbato), Sciascia fu per vent’anni, fino alla morte, oltre che fondatore, reinventore delle pratiche editoriali.
“Consulente” sarebbe come minimo riduttivo e Salvatore Silvano Nigro usa invece l’espressione corretta, “editore in casa Sellerio”, per presentare la ripubblicazione del volume Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri. Tornato dopo sedici anni sugli scaffali, non è un semplice tracciato del lavoro di Sciascia,è la sua biografia editoriale: contiene i risvolti di copertina, le schede, le introduzioni ai brani delle antologie da lui ideate e curate. Risponde alla domanda su quanti e quali siano i suoi libri, se quelli che ha scritto, quelli che ha curato, quelli che ha scoperto, quelli che ha antologizzato, e la risposta è: tutti, pure quelli che non ha pubblicato.
La gabbia grafica della pagina di presentazione è stata la sua palestra di scrittura, quella dove poté esercitare, nella costrizione della brevità, la densità e la seduzione di una passione erudita, e come avviene agli scrittori che vivono lavorando in mezzo ai libri, gli scrittori che fanno del leggere un mestiere, il confine fra i propri e gli altrui presto non dovette esistere più; questo pubblicato da Sellerio è un volume postumo di Sciascia, un suo longseller, secondo la definizione che ne diede Giorgio Manganelli: un testo che torna in pista e al secondo giro lascia tutti senza fiato.
“Sciascia i libri li pensava vestiti”, scrive Silvano Nigro, e qui c’è l’armadio di abiti e soprabiti, di paltò e completi da lavoro o da cerimonia con cui la sfida dei Sellerio andava in libreria. Intanto i fichidindia, a Milano, dovevano diventare ogni mese più fitti.
Aprendo quell’armadio, bisogna mettersi seduti e cercare con pazienza i fili rossi. Innanzitutto troviamo Don Lisander, eterna ossessione sciasciana: il tributo ad Alessandro Manzoni passa per il risvolto della Storia della colonna infame, un testo conosciuto “da non più di uno su cento italiani mediamente colti” (era il 1981, non voglio pensare alla media attuale), e poi per quello della Sentenza memorabile, dello stesso Sciascia – che, come Pavese e altri scrittori-editori, praticava l’arte dell’autorisvolto, il luogo dove finisce l’indicazione che dalle pagine è rimasta fuori ma bisogna a tutti i costi conoscere, per esempio che all’autore piace sempre più pubblicare libri come questo, perché “a un certo punto della vita si vuole essere in pochi”, pochi come i venticinque lettori manzoniani (“mantengo la cifra non per immodestia, ma tenendo conto della onnipresente inflazione”).
Secondo filo rosso: le illuminazioni. Quasi sempre, nelle bandelle che Sciascia dapprima scriveva da sé e poi, col passare del tempo, supervisionava ricevendole dai redattori, compare un paragone insospettato, una definizione tagliente che da quel momento si farà indelebile. Quasi sempre, l’intuizione arriva nelle ultime righe: Maria Messina è “una Mansfield siciliana”, Luisa Adorno sfoggia “un brio da far pensare a certe pagine di Brancati”, Domenico Campana coniuga Hawthorne con una metafora “siciliana, gattopardesca”.
In queste brevi schede, piene di briosità, di colta inventiva, gli scrittori siciliani diventano poliglotti, perché Sciascia li inserisce in una tradizione più ampia, grande quanto un continente. Nei risvolti di Sciascia, la Sicilia entra in Europa e l’Europa entra in Sicilia (“una sensibilità più radicalmente europeo-continentale di Sciascia è difficile da immaginare”, scrive ancora Barbato), le frontiere temporali sono abbattute, sono tutti coevi, i contemporanei e i classici.
Alcuni esempi: Le storie del castello di Trezza svelano un Giovanni Verga diverso dalla sua immagine scolastica e ne mettono a nudo l’anima gotica, per cui meritano una nota “estrosa e precisa” di Vincenzo Consolo; Il romanzo e le idee, saggio polemico di Mary McCarthy, è manchevole secondo Sciascia di due esempi, da lui aggiunti nel risvolto, Il Gattopardo e Il nome della rosa; Il villaggio di Stepàcinkovo di Fjòdor Dostojevskij, per raccontare il quale servono il manzoniano “Carneade! Chi era costui?” e lo sciasciano “Fomà Fomíč! Chi era costui?”, nonostante sia un libro del 1859 viene presentato come attuale, da leggersi “nella chiave del senno del poi, a fronte degli avvenimenti tragicamente grotteschi o grottescamente tragici che l’intolleranza ha generato dal suo secolo al nostro”. È messa in minoranza la letteratura statunitense, da cui Sciascia si sentiva ed era lontano, e quando si tratta di accompagnare un libro come quello di Anita Loos, I signori preferiscono le bionde. Ma… i signori sposano le brune la sfida si fa più alta, così oltre al mito cinematografico bisogna tirar fuori un’interpretazione marxista, le lodi di Joyce e il giudizio di Santayana: “il miglior libro di filosofia scritto da un americano”.
Producendo lo stesso effetto straniante, lo stesso capovolgimento, Sciascia definisce Kermesse, il suo libro sui proverbi siciliani (“Occhio di capra: domani piove”), un lavoro scientifico, “di quella scienza certa che è l’amore al luogo in cui si è nati, alle persone, alla cose, alle parole di cui la nostra vita, nell’infanzia e nell’adolescenza, si è intrisa”. Infine, il terzo filo rosso del lavoro editoriale della Sellerio di Leonardo Sciascia: la capacità di indovinare i cassetti giusti. L’esempio più famoso di un inedito sospettato e tirato fuori a forza dalla casa editrice è Diceria dell’untore, l’esordio tardivo di Gesualdo Bufalino (l’autore dichiarò poi che con un po’ di fortuna, continuando a nascondersi, avrebbe potuto andargli ancora meglio ed esordire postumo).
Bufalino, “professore a Comiso, oggi sessantenne”, apparteneva alla genia di scrittori schivi, refrattari o indifferenti alla pubblicazione ma non privi di segreta vanità a cui apparteneva anche il messinese Eugenio Vitarelli, di cui Sciascia pubblicò nel 1983 il romanzo Placida, presentando così l’opera e l’autore: “Conosco Vitarelli da trent’anni. E certamente da più di trent’anni Vitarelli scrive. Assiduamente, regolarmente, giorno dopo giorno: e senza l’assillo di pubblicare, forse anzi senza nemmeno la voglia. Per il piacere di scrivere, di raccontare, di raccontarsi. Non so che cosa ci sia nei suoi cassetti, né so se nell’ordine del tempo questo racconto si appartiene alle prime cose o alle ultime. Lontane, lontanissime sono nella nostra vita le cose che racconta: ma è come se improvvisamente irrompessero nel fuoco di una lente, da confuse e lontane a farli vicine, nitide, precise”.
Infine, le antologie: Delle cose di Sicilia, un progetto curato dal 1980 al 1986 che raccoglie testi inediti o rari di fonti storiche sull’isola, o La noia e l’offesa. Il fascismo e gli scrittori siciliani, di nuovo una visione del mondo, della Storia, dell’isola. Sono di Sciascia pure le curatele mai compiute, quelle che non riuscì a portare a termine per naufragio della tesi, come l’antologia sulle donne nella letteratura siciliana. Ne aveva individuato i tipi che avrebbero nominato i capitoli: la madre, la sorella, la lupa, e infine una galleria di personaggi femminili che fossero leggiadri e vitali, pieni di volontà e desiderio – questi ultimi non riuscì a trovarli, perlomeno non abbastanza da riempire un’intera sezione, tanto che dovette ricorrere, per indicarli, a una russa, la Natascia di Guerra e pace.
Niente Natasce siciliane, niente antologia: un vuoto significativo, che non si poteva mostrare senza dibatterne, e ancora adesso lascia in sospeso più di una domanda. Un vuoto che fece decadere il progetto, ma continua a indicare un altro libro sciasciano, quello che oggi rimane da scrivere.
Testo ripreso da IL FOGLIO.
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