Il potere dei simboli: una conversazione con Francesco Boer
Non c’è par condicio con chi ostenta la sopraffazione come visione della società. la menzogna come strategia comunicativa e la violenza come modus operandi. Non si può dare dignità di opinione a false notizie, calunnie sistematiche, insulti razzisti. Il cortocircuito del politicamente corretto ha finito per mozzare tutte le dita che indicavano una luna marcescente, pronta a scoppiare: viviamo in un momento storico in cui gli artisti sono censurati se usano espressioni forti, ma i governanti possono dire ciò che vogliono, mentire pubblicamente, sputare sulla Costituzione, offendere i disabili, difendere criminali nazisti, in nome della “libertà”.
“Nulla è più anarchico del potere”, sanciva in una delle sue ultime e più celebri sentenze Pier Paolo Pasolini. In questa mastodontica opera di deformazione culturale, spesso le tematiche spirituali e la visione archetipica sono ostaggio, pur tra clamorose contraddizioni, della “cultura” di Estrema Destra.
Perfino Umberto Eco identificava un certo tipo di attaccamento agli archetipi tra i fondamenti dell’Ur-Fascismo (quello che è ritornato, cambiando appena nome, prosperando nell’indifferenza impotente dei guardiani del politicamente corretto), mettendo, con eccessiva sbrigatività, pensatori come René Guénon ed Elémire Zolla (controversi, soprattutto il primo, ma non certo da ignorare) nello “scaffale dei cretini”.
Fa tristemente sogghignare, dall’altra parte, rendersi conto di come una generazione di ragazzi, deviata dai deliri incendiari di Evola, si potesse identificare con il nobile compito fatale di Arjuna mentre si accingeva a pestaggi dieci contro uno.
Molto spesso chi ha agitato con esaltazione guerriera lo spettro del Kali Yuga (l’Era della Confusione, nella prospettiva indù del tempo ciclico), ne è stato in primo luogo agente e fautore.
Basti pensare che il citato barone nero figura tra coloro che hanno fornito ai nazisti le chiavi della conoscenza esoterica indiana e buddhista. Per questo, è necessario recuperare quei sublimi testi sacri, quella visione del mondo sacra, illuminante e liberatrice (anche per un laico), liberandola a sua volta dal più infame dei sequestri ideologici.
In questo senso, Francesco Boer è una delle figure più interessanti, attive e consapevoli nel panorama culturale contemporaneo. Autore del blog Alchimia dei Simboli, miniera quotidiana di spunti culturali, come di numerosi testi sull’argomento, Boer ha appena pubblicato per Fontana Editore un libro che ha per titolo un verso celebre quanto meraviglioso del nostro santo patrono William Blake: L’immaginazione non è uno stato mentale è l’esistenza umana stessa. Ci è parso obbligatorio intervistarlo: avevamo ragione, visto il nitore illuminante delle sue risposte.
“Alchimia dei simboli”è il nome del tuo blog e del libro che ti ha fatto conoscere: certamente una sfida impegnativa. Qual è stata l’ispirazione per questi progetti?
La mia è una risposta al diffuso pregiudizio secondo cui il simbolo è un’espressione del passato, una lingua iniziatica di cui si è ormai perduta la chiave, e che non ha più alcuna influenza sul mondo contemporaneo. Sono di tutt’altro parere: il simbolo non è mai stato così vivo, così presente nelle nostre vite. È un centro di gravità che ordina le nostre azioni, le nostre scelte, anche e soprattutto quando non ce ne accorgiamo.
Credo che sia possibile – anzi, auspicabile – assumere un ruolo consapevole in questo rapporto. Per questo ho scelto il termine di “alchimia”: una pratica attiva, in cui il simbolo non viene soltanto studiato, raccolto e conservato nella teca di un museo; ma va preso in mano, va vissuto. È qualcosa con cui possiamo interagire, lasciando in esso la nostra impronta, ma lasciando anche che sia esso a imprimere il suo segno nella nostra anima.
Perché in questa epoca è importante studiare il valore e il significato dei simboli?
Sono convinto che il significato sia il grande nodo dei nostri tempi. Da un lato la sua assenza, l’insensatezza che così tanti provano nella loro vita. Una mancanza di direzione, come se l’intera esistenza fosse un accidente privo di scopo. “Un racconto fatto da un idiota, pieno di grida e furia, che non significa niente”, nelle parole di Shakespeare.
Sul versante opposto ci sono forze torbide che cercano di riesumare significati ormai tramontati. Un’operazione di negromanzia degli ideali, che non può portare alcun bene. Non riportano in vita i valori di una volta, ma un simulacro vuoto che serve solamente a incanalare le masse nelle reti del potere. È comprensibile, chi è nelle tenebre dell’insensatezza si aggrappa ad ogni speranza luminosa che incontra. Ma in questi casi non si tratta di un faro che porta alla salvezza. È piuttosto l’esca luminosa della rana pescatrice, che attira le sue prede verso la perdizione.
Dall’occultismo più facilone fino all’esoterismo deviato che strizza l’occhio all’estremismo politico: imbonitori dello spirito che ci vendono un prodotto miracoloso, moderni pifferai di Hamelin che promettono di ridare un significato alla nostra vita. E’ una promessa vana, che alla lunga non fa che aggravare l’insensatezza che piaga i nostri tempi. Così, in fin dei conti, non fanno che aumentare quelle masse disperate che sono proprio il loro bacino d’utenza. Un’operazione di marketing ideologico che ci porta a passo spedito verso l’abisso.
In questa cupa situazione, lo studio dei simboli aiuta a tracciare una terza via, un’alternativa fra la rassegnazione del nichilismo e l’abdicazione della volontà di chi aderisce a un ideale preconfezionato. Si tratta, appunto, di comprendere e vivere l’intera esistenza come se fosse un simbolo: una domanda a cui corrisponde un significato, un segno concreto a cui si sposa un senso. È una via attiva, perché il senso della vita non è qualcosa di già pronto. Nessuno ce lo può rivelare. È qualcosa che dobbiamo creare noi, rimboccandoci le maniche e mettendoci in gioco in prima persona. Non è per forza un’innovazione; può ben darsi che la ricerca personale conduca alle stesse conclusioni dei saggi dei tempi antichi. Solo dopo un cammino personale, tuttavia, questa convergenza avrebbe davvero un valore vivificante. Nell’immaginazione, la creatività si fonde con la scoperta, sapere e fare diventano tutt’uno.
Credo dunque che grazie alla via indicata dai simboli sia possibile sfuggire dall’imboscata che il nichilismo tende nella nostra epoca confusa. Il più delle volte si vive soltanto metà della vita: un’esistenza che è solo segno, orfana del suo significato. Una frattura dell’anima a cui è urgente porre rimedio
A quali studiosi ti ispiri?
Mi affascinano i pensatori che sono in grado di tracciare nuove connessioni fra diversi campi del sapere. Jung è stato il colpo di fulmine giovanile, in lui ho scoperto un modo di pensare ampio e ricco, capace di spaziare dalla scienza alla storia, dalla psiche all’arte, senza però peccare di superficialità. Poi ho incontrato Joseph Campbell e la sua straordinaria abilità di riportare i miti al presente, di farli vibrare nella vita di tutti i giorni, di ritrovarne le tracce nelle storie contemporanee. E ancora Eliade, Cattabiani, Corbin, Jünger. Ma anche poeti come Blake e Eliot.
Non credo nel Maestro con la verità in mano. Ogni essere umano ha i suoi limiti, e anche in questo sta la sua profondità. Tuttavia grazie a questi autori ho imparato a leggere il mondo che mi circonda, e adesso proseguo per la mia strada – magari a tentoni, ma scegliendo in piena libertà la mia rotta. Così mi perdo in letture apparentemente frammentarie – romanzi, biografie, testi scientifici, cataloghi di mostre museali, fiabe antiche, e in generale quel che mi capita a tiro: in ognuno di questi trovo le tessere di quel mosaico sconfinato che è la sapienza umana.
Tu sei una delle poche figure intellettuali che, al momento, si occupano di temi quali l’esoterismo e il valore dei simboli senza cedere ad inquietanti tendenze reazionarie. Qual è il tuo rapporto nei confronti della cosiddetta Tradizione?
Per me il perennialismo è un aspetto della storia della religiosità umana, e come tale riscuote il mio interesse, ma non la mia adesione. Non ho mai voluto far parte di parrocchie e correnti, preferisco sbagliare di testa mia che appiattirmi su una Verità con la V maiuscola, dettata da qualcun altro.
Nel mio sentire la tradizione non è il rispetto di leggi immutabili e il recupero di valori ormai tramontati, ma è una pratica viva e gioiosa, un gesto d’amore con cui una generazione passa il testimone a quella successiva, senza però aver pretese di controllare come proseguirà il suo cammino.
Bisogna poi rilevare che la sedicente “Tradizione” spesso manca colpevolmente di rigore storico e filologico, tanto da giungere a riscrivere il passato in funzione delle proprie idee. Ciò si può osservare specialmente in quegli ambienti in cui l’esoterismo integralista si fonde al nazionalismo più becero. Nascono così neo-tradizioni, novità create a tavolino mescolando la storia con l’ideologia. Una forma nuova che sostituisce il passato – e tutto ciò, paradossalmente, avviene nel nome della tradizione!
È ovvio che anche una riscrittura simile è pur sempre un fenomeno storico, e come tale va osservata, studiata, compresa. Tuttavia non nascondo il fastidio per l’inquinamento storiografico che tali riletture comportano, né la mia preoccupazione per le ombre che queste ideologie gettano sul presente.
Nel libro “Latte dell’Anima” esponi un’interessantissima panoramica di rappresentazioni iconografiche dell’allattamento. Anche in questo caso però appari in controtendenza, diffidando di accostamenti immediati sotto l’egida dell’archetipo della Grande Madre. Puoi illustrare il tuo punto di vista?
La Grande Madre è un archetipo che riconosco e rispetto profondamente. Tuttavia anche una luce troppo intensa può offuscare la vista; un’attrazione simbolica molto forte attrae a sé la mente, e così l’interpretazione di ogni cosa riporta sempre ad essa, perdendo inevitabilmente di pregnanza. È il caso ad esempio di certi bestiari medievali, in cui praticamente ogni singolo animale finisce per diventare un simbolo di Cristo: è evidente che in quel caso l’archetipo Cristo è come un fortissimo centro gravitazionale, che dispone sulla sua orbita simbolica tutto ciò che entra nel suo campo.
Con la Grande Madre a volte succede lo stesso: l’archetipo è talmente affascinante e intenso che si riconduce ad esso ogni elemento femminile che si incontra. Così, tuttavia, si perdono i dettagli, le differenze, le singole peculiarità del simbolo. Il femminile è un campo simbolico sconfinato, ricco di sfumature e di caratteristiche uniche, che appunto andrebbero perse se si riconducesse ogni suo aspetto alla Grande Madre.
In ambito archeologico, dunque, e specialmente nei confronti dell’arte preistorica, è necessaria grande cautela nell’interpretazione dei simboli, altrimenti si rischia di reinventare la storia, proiettando nell’incertezza del passato sentimenti e idee attuali.
Addirittura hai scritto un libro che si chiama “Guerra alla Dea Madre”, un altro “Contro Dio”. Eppure, a leggerli si tratta di tutto fuor che di opere blasfeme o inneggianti all’ateismo. Cerchi in questo approccio un capovolgimento della logica convenzionale?
Ogni simbolo racchiude in sé due polarità, un aspetto luminoso e uno d’ombra. Il simbolo quindi può configurarsi come il tratto d’unione fra gli opposti, ma anche come contrasto; quest’ultima modalità, purtroppo, è quella prevalente in questi tempi.
Il primo passo per risolvere il contrasto è riconoscerlo, solo dopo averlo compreso si potrà arrivare a una sintesi. “Guerra alla Dea Madre” illustra appunto il contrasto fra la spiritualità maschile e quella femminile, e le visioni del mondo che da esse derivano. “Contro Dio” studia l’opposizione fra Creatore e creatura, il sentimento di ribellione che da sempre l’essere umano prova nei confronti della divinità.
Parlando di conflitti, il titolo non può che essere provocatorio. Èuna scelta dettata dalla necessità, perché mi interessa parlare anche – e forse soprattutto – a coloro che sono immersi in questo conflitto, a chi milita per una visione parziale, credendo sia l’unica vera e giusta.
Sempre contro le facili associazioni che poi diventano dogmatiche, in quanto seducenti ma indimostrate, hai scritto “La verità dei tempi”. Come si può combattere il fenomeno dilagante delle false notizie e dei complotti deliranti?
In “Psicologia delle folle” Gustave Le Bon scrisse: “Il meraviglioso e il leggendario sono in realtà i veri sostegni delle civiltà. Nella storia l’apparenza ha sempre avuto più importanza della realtà. L’irreale predomina sul reale.”
Complottismo e fake news sono due fenomeni che emergono in risposta alla mancanza di significato della nostra era. Il primo è una sorta di narrazione semi-spontanea, un surrogato della mitopoiesi. Il pensiero dominante non concepisce l’immaginazione se non come gioco puerile, e pertanto la cultura popolare non riesce a creare i propri miti, se non confondendoli con la realtà. Le false notizie sono simili al complottismo nella natura, ma rispetto a quest’ultimo sono completamente tecnicizzate, studiate da un centro di potere per condizionare la mentalità collettiva, con un determinato scopo in mente. Condizionare non significa convincere, sia chiaro: anche quando la notizia falsa è talmente improbabile da essere riconosciuta come tale, lascia comunque un segno emozionale, andando a costruire un clima psichico nella popolazione, che verrà poi sfruttato per fini politici o economici.
Si tratta di surrogati della mitopoiesi, dicevo, e come tali anch’essi utilizzano quelle “immagini primordiali” che Jung riconobbe come archetipi dell’inconscio collettivo. Il nemico come orco, come uomo nero. L’invasione, la terra, il sangue, i confini, la riscossa.
La mia idea è che occorre imparare ad ascoltare le narrazioni complottiste, e soprattutto ad interpretarle. Il loro valore non si colloca, ovviamente, sul piano del reale, ma su quello simbolico: sono storie scambiate per verità, ma in quelle storie vengono espressi, per speculum in aenigmate, sentimenti, paure e ansie che serpeggiano nel sentire collettivo, e che non trovano altro modo che questo per far sentire la propria voce. Sono tensioni psichiche di cui gli stessi complottisti non hanno consapevolezza: scosse telluriche nel profondo dell’inconscio collettivo. Non ha alcun senso, dunque, deridere e zittire queste modalità di espressione, per quanto siano bislacche e spesso deleterie. Bisogna armarsi di pazienza, e capire cosa si cela dietro le storie. Una ricerca che ci potrebbe offrire antidoti efficaci anche contro il dilagare delle fake news, che fanno appunto leva sulle stesse tensioni inconsce popolari.
Il tuo ultimo libro “L’immaginazione non è uno stato mentale è l’esistenza umana stessa” è, fin dal titolo, una citazione da William Blake. Molto interessante è il sottotitolo: “La presenza viva dei simboli dalla storia più antica fino ai giorni nostri, e l’importanza dell’immaginazione per scoprire e costruire il senso del mondo”. Già avevi scritto sul tema “Il Sentiero dei Simboli – Esercizi per riattivare l’immaginazione ed esplorare l’anima”, unendo due temi a te cari. Qual è per te il valore dell’immaginazione? Cosa pensi dell’accezione negativa che gli conferiva Gurdjieff, simile alla critica che Elémire Zolla faceva al “fantasticare” di James Joyce?
C’è un annoso equivoco fra “fantasia” e “immaginazione”. Il fatto stesso che le due parole siano usate come sinonimi dimostra quanto la nostra società abbia perso di vista l’importanza dell’immaginazione.
La fantasia è il libero gioco della mente. Si avvicina allo stravagante e sfiora l’assurdo, è come un gatto che salta sulla tastiera di un pianoforte e suscita una melodia che sfugge da ogni regola compositiva. L’immaginazione, invece segue strade ben diverse. E’ l’esplorazione dell’Anima, è creazione e conoscenza al tempo stesso. L’immaginazione non è insensata, al contrario, è la scoperta e la manifestazione nel tempo di un significato, al tempo stesso nuovo e atemporale. Se la fantasia è una fuga dalla realtà, l’immaginazione è la facoltà umana di comprendere e al tempo stesso trasformare il mondo.
E’ ovvio che i confini fra fantasia e immaginazione non siano così netti. Ed è vero che la fantasia eccessiva rischia di essere nociva, perché allontana dalla realtà, ma non per questo bisogna demonizzarla in toto: è pur sempre un tocco di leggerezza, che può donare colore e gioia alla vita.
Hai scritto anche racconti e favole (“Il Democristiano e il Diavolo”, “Il Labirinto Interiore”, “Favole della Grande Guerra”). Puoi parlarci di questi libri? Perché in questo caso hai scelto la creazione narrativa e non saggistica?
Da sempre la forma più efficace per parlare di simboli è il racconto – il mythos. La narrativa permette di far vibrare i simboli, dando loro un grado di libertà, un margine di indeterminatezza che permette di coinvolgere in prima persona il lettore. Il simbolo è un rapporto fra segno e significato, fra oggettivo e soggettivo. Per questo, in una storia con forti connotati simbolici, ogni lettore interviene in prima persona, riflettendo la propria anima come se il simbolo fosse uno specchio che parla di lui, e con lui. Nella saggistica c’è maggior precisione lessicale, ma ciò significa che questa interazione non sempre è permessa.
Per me dunque anche la narrativa è uno strumento di ricerca, l’esplorazione di territori che poi avrò tempo di rielaborare in approfondimenti saggistici.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
In questo periodo mi sto concentrando sulle creazioni simboliche del patrimonio popolare d’Italia. Stiamo per concludere un bestiario illustrato degli animali fantastici d’Italia, con i disegni di Alessandro “Tatzel Wurm” Russo. Si tratta di un lavoro di ricerca negli archivi folkloristici di tutte le regioni italiane, per recuperare draghi, basilischi, mostri marini e bestie strane che un tempo popolavano le nostre terre. L’intento è di riportarli in vita, di reintrodurli nel loro ambiente naturale, per vivificare l’immaginario locale e ristabilire un legame simbolico sano con il territorio.
I testi sono conclusi, e anche le illustrazioni sono a buon punto, per cui contiamo di pubblicare il libro già nel corso dell’anno.
Nel frattempo ho iniziato una nuova ricerca, dedicata a tutte le piante spontanee che nei nomi dialettali hanno a che fare con i santi, la Madonna, il Cristo e il diavolo. Ognuna di queste piante è al tempo stesso una storia, una medicina, una magia: un piccolo universo simbolico che nasce spontaneo nei prati. Un modo simbolico di concepire la natura, un legame fra l’uomo e il mondo che vale la pena di riscoprire e recuperare.
Articolo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/potere-dei-simboli-conversazione-francesco-boer/
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