L’Americaaaa!
di Romano A. Fiocchi
Pochi
sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti
parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei
verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora
l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che
Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi
avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!
Ma
l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il
1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa
fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu
trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir
(alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è
acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale
francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello
che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori
campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni
del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un
isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici
milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di
Americani. Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione
italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un
volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi,
come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è
un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da
un intero romanzo…)
Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2,
l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È
stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della
Libreria del Mondo Offeso.
Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino,
la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua
scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione
di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a
nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel
modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di
non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti:
cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni
dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre
milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila
dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così
via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal
vecchio continente. Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la
nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli,
Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San
Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante
delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama?
Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti
soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua
traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi
viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un
medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi. Gli
altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli
ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una
lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il
viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto,
TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la
sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta
sino ad essere respinto.
Tutti
insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista
organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica
all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a
capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un
pugliese, all’altro capo – previa ispezione degli occhi, ispezione delle
tasche, vaccinazione, disinfezione – ne esce un americano”. Col tempo
le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i
respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I
fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase:
Welcome to America.
Perec
non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella
mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché
il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale:
“L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che
incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I
messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno
dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici
di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in
Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano
fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.
Tutto
questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era
stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i
primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non
restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici
ore al giorno. “I tacchini – scrive Perec – non cadevano già arrostiti
direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate
d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora
capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti
venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi
dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave,
fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum,
corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di
quelli che avevano scoperto all’arrivo”.
Recensione di
Georges Perec, Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Archinto, 2017.
Georges Perec, Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Archinto, 2017.
Testo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/
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