I tre cardini del Pd a trazione democristiana
Anche
a dispetto dell’evidenza, è oramai invalsa la tendenza a
giudicare l’evoluzione (o involuzione) del Pd alla luce della
storia del comunismo italiano. Senza prendere in considerazione
l’altra componente che in quel partito è confluita, quella
democristiana. Per cui, valutato nella prospettiva del
comunismo, ci si appella
all’unione attorno al Pd come
“la sinistra" o, in maniera alternativa ma speculare, ci
si scaglia contro per i suoi "tradimenti".
Questo
potrebbe dipendere dalla maggiore inclinazione intellettuale -
se non grafomania - della sinistra: quelle che scrivono sul Pd
e ne costruiscono la narrazione sono le componenti che ne sono
entrate a
far parte, o se ne sono allontanate, da sinistra.
Perciò si stende una cortina fumogena che impedisce di
cogliere con esattezza quanto si muove in quel partito. Gli ex
comunisti scrivono; gli ex democristiani, nel frattempo,
comandano.
Se per una volta si provasse a valutare la parabola
storica e l’attuale collocazione nel sistema politico del Pd
non alla luce dell’esperienza comunista, ma di quella
democristiana, probabilmente ne ricaveremmo bussole più esatte
per l’agire politico.
Una disamina del Pd come erede della
Dc sarebbe possibile da diversi punti di vista, ma una
valutazione complessiva richiederebbe l’analisi di
una molteplicità di fattori impossibili da riassumere per
intero.
Pertanto è utile concentrarsi
su tre aspetti
sostanziali di cul-
tura politica, tutti rintracciabi-
li
nella parabola del partito de-
gasperiano e moroteo, e
tutti
largamente ereditati dal Pd.
1) La Dc è stata il
garante del vin-
colo esterno in Italia, nella sua
doppia
versione atlantica ed
europea; quando (raramente) i
due
vincoli sono entrati in con-
trasto tra di loro, la Dc ha
sem-
pre scelto la fedeltà a quello
atlantico.
2) La
Dc ha sempre
identificato la salvezza della
(debole)
democrazia italiana
con la propria centralità nel
sistema
politico del Paese.
3) La politica delle alleanze
della
Dc, pur a geometria variabile,
è sempre stata
subordinata al-
la tenuta dei due fattori prece-
denti. Per
cui ogni alleanza,
anche la più spregiudicata, è
stata
ritenuta possibile, a pat-
to che questa non mettesse in
forse
il vincolo esterno e non
minacciasse la centralità
de-
mocristiana.
Ora sembra abbastanza agevole rintracciare
queste caratteristiche ereditate dalla cultura politica
democristiana nel comportamento del Pd degli ultimi anni,
e in questa campagna elettorale. Il Partito democratico ha sempre
favorito la nascita di governi solo parzialmente rispondenti al
voto elettorale, identificando la propria presenza in
maggioranza con la salvezza della democrazia, di volta in volta
sottoposta ad oscure minacce esterne. Il discrimine ultimo
è sempre stato quello della fedeltà al vincolo esterno, nella
doppia variante europeista (nascita del governo Monti e
commissariamento della politica economica del Paese) ed
atlantista (governo Draghi e guerra in Ucraina).
Finalmente,
la scelta elettorale apparentemente suicida di abbandonare il
dialogo con Conte da un lato nasconde una paura - che il
rapporto con una forza di peso tendenzialmente equivalente ne
mini la centralità, rischio corso col Conte II;
dall’altro una conclamata esigenza - quella cioè che gli
alleati siano “affidabili” in politica estera: questo è
stato risposto esplicitamente a chi chiedeva il motivo per
cui “Fratoianni sì e Conte no”.
A complicare la
situazione del Pd rispetto a quella che fu la Dc vi è un
dettaglio di non poco conto: la centralità della Dc
nel sistema politico era resa possibile dal proprio effettivo
peso elettorale, oltre che dall’impossibilità che si
verificasse un’alternanza data la natura particolare
dell’opposizione comunista nel contesto della guerra fredda.
Nella situazione attuale, al contrario, non c’è nessun elemento
sistemico che impedisca la messa all’opposizione del Pd. Di
qui alcune ricostruzioni che analizzano le mosse suicide del Pd
in questa campagna elettorale in modo apparentemente arzigogolato,
ma forse non lontano dal vero.
Con la scelta di rompere con
Conte, il Pd emargina il M5S, si rafforza come partito pur
in presenza di una annunciata sconfitta della coalizione, e
scommette tutto sull’implosione della destra ad urne chiuse,
per riproporre surrettiziamente la propria funzione di garanzia nel
prossimo parlamento. Se così fosse, si tratterebbe di
un errore di prospettiva dal prezzo salato. La destra è molto
più coesa di quanto possa sembrare, mentre le lamentazioni
sulla sua inaffidabilità internazionale sono buone solo per la
nostra provincia. Washington è in tutt’altre e ben più
gravi faccende affaccendata. E storicamente la destra italiana,
anche nelle sue versioni più estreme, non l’ha mai
infastidita più di tanto, per usare un eufemismo.
Il lavoro
politico da fare per le forze di progresso è tutto interno
alla società italiana, e ci sono sempre più dubbi
sulla possibilità che sia il Pd lo strumento più adatto per
portarlo avanti.
il manifesto, 17 agosto 2022
Pubblicato da Giovanni Carpinelli a 11:24
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