23 agosto 2022

IL PAESAGGIO E' UN MOSTRO

 


IL PAESAGGIO È UN MOSTRO. INTERVISTA AD ANNALISA METTA

Voglio dirlo subito: con Il paesaggio è un mostro, uscito a febbraio 2022 per DeriveApprodi, Annalisa Metta ha scritto un libro bellissimo. Da tempo cerco letture spiazzanti, che vadano nella direzione di apertura imprevista e totale su mondi per me ancora inesplorati; il “mostro” di Annalisa Metta – architetta e professoressa associata in Architettura del Paesaggio all’Università Roma Tre – ha risposto a questa necessità già a partire dalla copertina, con la maschera tradizionale panamense del diablico pariteño (testa di coccodrillo e corpo umano) immortalata dal fotografo Charles Fréger.

Lontane dall’architettura come spettacolarizzazione “artistica” come dalla noiosa visione a volte nostalgica, altre normalizzante di molte politiche e pratiche pubbliche in ambito paesaggistico, le osservazioni di Annalisa Metta si articolano intorno all’idea di un paesaggio sempre mobile e “terzo” rispetto alle nostre intenzioni e aspettative, frutto di ibridazioni e continue rinegoziazioni spaziotemporali tra soggetti molteplici e spesso invisibili.

Riflessioni portate avanti con gusto tra mito, sperimentazione formale e una tensione progettuale che non si arrende all’ipotesi che la tecnica sia prerogativa umana e dunque di per sé contenuto (o, peggio, spirito del tempo), dando vita a un volume sfidante, fortemente consigliato anche per chi si occupa di arte, letteratura, danza, cinema, teatro, oltre che a semplici curiosi di architettura e filosofia del paesaggio.

Ciao Annalisa. Prima di tutto: come stai? Come sta andando il libro, che tipo di feedback hai ricevuto fin qui?

Ciao Marco, sto bene, grazie! E anche il Mostro sta viaggiando bene, proprio in queste ore ho appreso che la prima tiratura è esaurita e ci sarà ora una seconda ristampa, ne sono molto contenta. Ricevo inoltre spesso messaggi di lettori che provengono da ambiti diversi dal mio e ne sono felicemente stupita, significa che il libro sta circolando anche al di fuori dei circuiti accademici e questo mi fa enorme piacere. Durante la stesura non avevo in mente un pubblico in particolare, ho raccolto pensieri maturati negli ultimi anni su argomenti che mi appassionano, tutti variamente legati all’architettura del paesaggio, e osservare ora che il libro segua proprie traiettorie, arrivando anche a lettori che si occupano prevalentemente di filosofia o danza, scienze ambientali e teatro, ecologia ed estetica, mi rende molto felice, oltre che grata. In autunno avrò modo di presentarlo in diverse città italiane nell’ambito di festival di genere più diverso, di letteratura, politica, arti performative, attivismo civico, oltre che in alcune scuole di architettura, e sono molto curiosa delle altre osservazioni che riceverò. Mi giungono commenti anche sul registro della scrittura, la giornalista Raethia Corsini, ad esempio, ha osservato che Il paesaggio è un mostro è scritto come una musica jazz e la cosa mi ha molto divertita: è verissimo, è un libro jazz!

È vero, hai uno stile molto jazz, e anche molto poetico. Mi ha colpito, tra le tante, l’espressione “la fertilità del malinteso”: secondo me restituisce lo spirito del libro, sia a livello tematico che formale.

Confesso che adoro i malintesi e li considero una straordinaria piattaforma di creatività, o di fertilità. I malintesi sono l’antidoto al determinismo, a quel modo di intendere e fare il mondo come conseguenza prevedibile di eventi, come concatenamento lineare di causa ed effetto che rende il futuro un’ovvietà preconfezionata. Il malinteso invece implica la molteplicità degli esiti possibili, implica risposte multiple alla stessa domanda, conseguenze differenti o anche opposte di uno stesso presupposto. E soprattutto richiede la necessità di un’interpretazione, di una lettura a proprio modo inventiva o propositiva dei fenomeni che ci circondano, da cui far scaturire azioni non predeterminate. Amo il malinteso come possibilità dell’interpretazione e della sorpresa, come possibilità di anomalie o difformità, cioè di scarti e avanzamenti rispetto alla linearità di processi di controllo predittivo. In fondo è per questo che sono affascinata dai mostri, perché sono creature doppie, ambigue, irrisolte, difformi, sorprendenti: i mostri sono la personificazione dei malintesi e della loro fertilità.

Ecco, appunto: in che senso il paesaggio è un mostro?

Sento con urgenza la necessità di sottrarre il paesaggio alla visione pacificata e tranquillizzante che spesso prevale nelle narrazioni e che lo riconduce a un inutile, polveroso e ingombrante cliché, quello secondo cui il paesaggio sia necessariamente bello-buono-e-giusto, uno scrigno di virtù e valori positivi, che curi le nostre nevrosi e ponga riparo ai mali del nostro corpo e del nostro spirito. Trovo che questa ossessione per la santità paesaggistica spesso mortifichi e depotenzi il paesaggio, non riconoscendo il valore che emana dai suoi aspetti irrisolti, dalle contraddizioni, dalle anomalie, dalle difformità, e lo riduca a una sorta di digestivo postprandiale contro il logorio della vita moderna, un sedativo o un analgesico che intorpidisce il pensiero, attenua la sensibilità e l’immaginazione. Per questo amo pensare al paesaggio come a un mostro, ma non nell’accezione negativa che spesso si associa a questo termine, quanto perché i mostri sono creature ibride, sono l’incarnazione del doppio. 

In effetti nel libro ti soffermi a lungo su ibridi, doppi e creature mitiche, oltre che mostruose.

Sì, i mostri sono composti di membra umane e non umane, così sono le sfingi, le sirene, i centauri o l’uomo ragno: e cos’è il paesaggio se non l’incontro tra umano e non umano, negoziato continuo tra le nostre competenze e volontà e le competenze e le volontà di numerosissime altre forme di vita, piante, animali, microbi, batteri, ma anche di minerali e acqua, suolo e atmosfera, clima e correnti? Nei mostri convivono cosmogonie diversissime, proprio come nel paesaggio. Per questo i mostri non si danno ‘per natura’, non seguono le presunte ‘leggi della natura’, al contrario le sovvertono, le mescolano, per generare qualcosa di nuovo e inedito: in altri termini, i mostri sono fatalmente progetto, sono frutto di invenzione, portano novità. Non è un caso che nell’antica Roma si ricorresse ai mostri per l’esercizio dell’arte divinatoria. È così che penso il paesaggio, come progetto, come avanzamento, come proiezione di futuro. In questo loro manipolare le leggi del mondo, i mostri sono creature irrisolte, al contempo belle e brutte, irresistibili e repulsive, buone e cattive, familiari e sconosciute, attraenti e ostili. Ed è così, di nuovo, che penso ai paesaggi, come situazioni effervescenti, che ci smuovono proprio perché ci interrogano con domande scabrose e irrituali su cosa siano la bellezza, la giustizia, il piacere, il benessere, le tradizioni, il futuro. I paesaggi, come i mostri, sono sfacciati e ci chiedono senza pudore cos’è che desideriamo. I mostri sono perturbanti e possono auspicabilmente esserlo i paesaggi, quando capaci di scuoterci dal torpore dell’anestesia che ci somministriamo sia quando persistiamo a inseguire paesaggi d’antiquariato, che non ci somigliano più, fuori tempo massimo, sia quando costringiamo il paesaggio entro le briglie della cosiddetta sostenibilità, che si accontenta di ‘nature aritmetiche’, tutte giocate su numeri, indicatori, quantità di servizi ecosistemici erogati, che di nuovo sono modi per sottomettere il paesaggio al nostro controllo e metterlo ‘a norma’, indurlo dentro protocolli prestazionali che diano garanzia di risultati da premiare con etichette gold, platinum, ecc. Perché in fondo quello che più turba dei mostri non sono tanto le loro sembianze inusuali, ma i loro comportamenti inconsulti, il loro trasgredire il determinismo dell’agire, il loro sottrarsi ai meccanismi predittivi, del decoro o della prestazione, secondo i casi. 

In quanto mostro, il paesaggio va quindi (anche) temuto?

Diciamo che anche con i paesaggi occorre chiedersi se incontrarli sia un pericolo da scampare o una benedizione da accogliere. Io credo che la via sia quella della conversazione, del mettersi in ascolto dei luoghi e capire cosa vogliono essere, cosa vogliono diventare, in una dimensione autenticamente dialettica, in cui l’idea di dominio perde senso a vantaggio del negoziato, cioè del continuo aggiustamento delle relazioni tra le numerosissime voci di questo parlamento che è il paesaggio. È in fondo l’idea e la pratica dell’addomesticazione vicendevole, mai definitiva, perciò sempre fertile. Un’addomesticazione reciproca e immersiva, perché sì, il paesaggio siamo noi, ne siamo parte, ed è per questo che è un mostro.

Centrale nel libro è anche la distinzione tra paesaggio come qualcosa che esiste “in quanto è visto” oppure “in quanto agisce”. 

Credo che questo sia un passaggio cruciale del tempo che attraversiamo e sono certa che porterà a esiti che ancora facciamo fatica a intravedere o tratteggiare. Mi riferisco all’idea che il paesaggio non possa essere trattenuto dentro un’interpretazione letteraria/pittorica che trova il suo fondamento nella rappresentazione, dunque nella ‘messa in visione’ o ‘messa in scena’. Una serie di indizi che provengono dai mondi più diversi, dalla filosofia all’arte all’ecologia, ci suggeriscono che tutto ciò che al mondo è intriso di un elan vital, di una volontà, di una competenza, di una capacità di autodeterminarsi e di determinare la porzione di mondo che abita e che perciò quel che chiamiamo mondo non è altro che l’esito dell’incessante sovrapporsi di azioni tecniche prodotte da innumerevoli forme di esistenza. Credo che sia qui la radice poco nobile dell’Antropocene, nell’umanità che avoca a sé l’esclusiva della tecnica. Se può dirsi acquisita l’idea che l’agency, intesa come generica espressione di volontà, appartenga a molteplici forme di vita, anche con derive animiste al limite dell’esoterico o del religioso, è l’idea dell’artificialità dell’agire naturale che ancora stenta ad affermarsi. La convinzione che la tecnica sia prerogativa umana è un tabù inossidabile. 

Cioè?

Non si tratta di riconoscere che animali, piante e sassi abbiano un’anima, soffrano o nutrano sentimenti. Si tratta di riconoscere che abbiano competenza trasformativa, dunque progettuale. E che perciò qualsiasi nostra azione nel mondo è un fatto tecnico che si aggiunge a una moltitudine di altri fatti tecnici non umani. Per chi si occupa di architettura del paesaggio questa considerazione è un’ovvietà. Chiunque abbia progettato uno spazio aperto sa bene che il proprio agire si colloca all’interno di una coralità attoriale dilatata, in cui i propri desideri configurativi dovranno accordarsi con le azioni, altrettanto configurative, di tutti gli altri protagonisti, di volta in volta il suolo e l’acqua, quella sotterranea, quella che piove o che se ne sta nell’aria e nel respiro, e poi la vegetazione e la miriade di esistenze animali, oltre che, certamente, altri soggetti umani. Per questo, l’esito di un progetto di paesaggio non può mai essere del tutto previsto: è la creazione di una situazione, non di un manufatto; è la predisposizione delle condizioni per l’accadere, senza avere certezza che si compia nei modi e nei tempi previsti, con l’intensità e l’efficacia immaginate. E chiunque abbia dimestichezza con la progettazione del paesaggio non vive queste interferenze come una diminutio, non considera l’immanente inesattezza del proprio campo previsionale come una mortificazione della propria autorialità, ma come un’ineludibile condizione esistenziale, persino come un’opportunità o un’occasione di qualità additiva, che si dà come un regalo. Per questo sono autenticamente persuasa che l’architettura del paesaggio sia il paradigma del progetto presente e futuro. Perché non è solo una disciplina o una competenza, ma è un modo di stare al mondo, di fare mondo. 

Nel libro parli del “verde” come una gabbia in cui è stato imprigionato lo spazio aperto con vegetazione, soprattutto in ambito pubblico.

La diffusione dell’espressione “verde” per indicare gli spazi aperti con vegetazione nelle città è un fatto piuttosto recente, di circa un secolo fa. È subentrata a sostituire con un’unica voce, capiente e generica, un vocabolario molto ricco di termini in uso in Europa almeno dal XVII secolo per indicare con accuratezza la varietà di specie di spazi della città. Era un lessico soprattutto francese, per ragioni storiche che ora sarebbe lungo rievocare, ma che consentiva di distinguere chiaramente un pré da un alléè, un boulevard da un cours, un jardin da uno square, un boulingrin (forma francofona del bowling green anglosassone) da una forêt e così via. Nell’Europa di fine Ottocento nessuno avrebbe usato l’espressione “verde” per designare un giardino, un parco, un viale, un prato, un parterre, un bosco, e così via. Dare un nome alle cose significa distinguerle, riconoscerle, identificarle. Quello che è accaduto è che, nella stagione della città efficiente e funzionale delle prime decadi del Novecento, quando in ambito urbanistico si sono definiti gli standard, gli spazi aperti hanno cessato di essere luoghi, con la propria tornitura architettonica, per diventare una dotazione quantitativa, un certo numero di metri quadri, purché sia. Il colore del materiale prevalente, la vegetazione, è diventato perciò sufficiente per individuarli e denotarli, senza nessuna attenzione per gli specifici caratteri funzionali, morfologici, ambientali, simbolici, estetici e così via che erano alla base della distinzione lessicale in uso appena qualche decennio prima. La conseguenza è che abbiamo smesso di chiamare gli spazi, dunque di riconoscerli, di guardarli e, inevitabilmente, di progettarli. “Verde” è quella che Federica Giardini chiamerebbe parola o concetto esonero, perché ci esonera dalle conseguenze, ci solleva dall’agire, non implica un fare. Per cui quando ancora oggi si dice “verde urbano” si sta ribadendo la prevalenza di una visione quantitativa, atopica, generica, omologante e di fatto incomprensibile, nel senso letterale che non si comprende cosa significhi, ha bisogno di specifiche, di dettagli, di attributi, “verde” di per sé significa tutto, quindi niente. 

E però in Italia siamo pieni di assessorati al “verde”.

È evidentemente legittimo continuare a farne uso, purché con consapevolezza. Io cerco di evitarlo, ho praticamente rimosso questa parola, che per me rimane solo un colore. Sarebbe molto bello se avessimo assessorati agli spazi aperti, reimparando a chiamarli per nome, perché poi i nomi per dirlo esistono, abbiamo un vocabolario ricchissimo di termini anche in italiano, dovremmo solo rammentarcene. 

Un’altra distinzione importante nel libro è quella tra selvaggio e selvatico.

Mi occupo di città selvatica da diverso tempo e nel 2019 ho curato con la mia cara amica e collega Maria Livia Olivetti un libro che si intitola proprio così, La città selvatica. Allora mi è capitato più volte di essere invitata a presentare le mie ricerche in occasioni pubbliche e che spesso il titolo fosse erroneamente riportato come ‘città selvaggia’. La circostanza ogni volta mi faceva sorridere, ma non capivo bene perché. Ho cominciato allora a interrogarmi sulla differenza di significato tra queste due parole così simili e al contempo distanti, differenza che intuivo ma senza riuscire bene a metterla a fuoco. Lo scarto è molto sottile, infatti, e credo stia nella capacità operante. Selvatico è un aggettivo che indica uno stato, un carattere, una condizione attribuita, tipici di ciò che non sia addomesticato e si sviluppi spontaneamente. Selvaggio è invece relativo a chi o cosa abbia comportamenti al di fuori delle regole, del controllo, del previsto. In altri termini, selvaggio è il selvatico che agisce. A conferma di questa ipotesi, la costruzione etimologica della parola selvaggio che, come tutti termini che finiscono con il suffisso -aggio, è un sostantivo di azione, cioè un nome derivato dal verbo corrispondente, come lavaggio, pattinaggio, coraggio, la stessa parola paesaggio, e così via. Quindi selvaggio è chi si comporti in modo selvatico. E quindi selvatico è in qualche modo una forma di mansuetudine, una rassicurazione semantica. Se selvaggio è il selvatico che agisce, selvatico è il selvaggio che è in quiescenza. Sarà per quello che sorridevo, come chi sappia di essere stato scoperto. Perché in fondo a me interessa il selvatico all’opera, il selvatico che agisce, ma forse non lo sapevo, non del tutto.

Il tuo mi sembra anche un libro sull’importanza del progetto (in architettura come in altri campi), sulla capacità e volontà di non rinunciare ad avere una visione, purché aperta alle contaminazioni… è un messaggio politico, credo. Forse il punto è che i processi si possono ancora governare progettando, ma senza la paranoia di dover mantenere il controllo a tutti i costi?

E sì, questa è la chiave di tutto, del libro senz’altro. E sono molto contenta che tu sottolinei che è un libro sull’importanza del progetto, direi anzi che rivendica la necessità del progetto, il dovere del progetto. La questione è quale progetto, come. Spesso infatti ricorre un equivoco: quello per cui lasciare spazio e tempo allo spontaneo manifestarsi di volontà e competenze ulteriori rispetto a quelle del progettista equivalga alla rinuncia a dare forma ai luoghi e questo, per un architetto, è avvertito come una debolezza o una colpa, come un’ammissione di inadeguatezza. Ma non è affatto così, si tratta invece di intenderci su cosa significhi ‘dare forma’ e se la forma abbia qualcosa a che fare con la stabilità. Io non lo credo affatto. Viceversa, proprio perché tutto è in continua trasformazione, lo è anche la forma dei luoghi, non vi è nulla di stabile o di definitivo, a cambiare è semmai l’entità delle trasformazioni o l’evidenza della loro visibilità. Compreso questo, accettata l’idea che tutto ciò che mettiamo al mondo si trasforma incessantemente, diventa del tutto ovvio e inevitabile proiettarsi nella dimensione dinamica e processuale della ‘forma performativa’, cioè della forma che muta, che diviene, si sviluppa, persino scompare e queste mutazioni sono indotte dalle interferenze o contaminazioni, come le chiami tu, tra il progetto e le innumerevoli esistenze che ne condividono lo spazio e il tempo. Si tratta di immettere consapevolmente il progetto in una dimensione dilatata, la cui dilatazione è attoriale (chiedersi chi sono gli autori del progetto) e temporale (dubitare che un progetto possa mai essere concluso). E di lasciarsi stupire dagli esiti, solo in parte prevedibili. Significa intendere il progetto come costruzione di condizioni per l’accadere, senza avere alcuna ansia sulla certezza dell’esito. In fondo è come costruire una relazione affettiva, ci si impegna per creare le condizioni perché cresca o prenda una direzione, ma non si può mai dire cosa accadrà. È come intavolare una conversazione. È come allevare una pianta o coltivare un campo. Ecco, sì, progettare è come coltivare, aver cura. 

Può sembrare un approccio puramente teorico, ma nel libro dimostri che ha avuto e continua ad avere applicazioni molto pratiche e interessanti.

Sì, nel libro cerco di dimostrare la fondatezza di questo convincimento raccontando di progetti di architettura del paesaggio di epoche, geografie, committenza, budget differenti, per dimostrare che non si tratta di posizioni astratte, ma di approcci radicati nella pratica. Perché dal resto è da lì che ho ricavato questa convinzione, dallo studio e dall’osservazione di progetti. Non sono considerazioni da anime belle, ma modi assai concreti di costruire i nostri paesaggi. E al contempo sono progetti d’autore, spesso a firma di progettisti molto noti e affermati. Ne sono sempre stupita, però ancora ogni tanto si levano voci ‘contro il progetto’, ‘contro l’architettura’, animate di contrita violenza. Ecco, i casi di cui parlo nel libro dimostrano che il progetto è una forma di collaborazione gentile e gioiosa, a volte anche conflittuale, ma nel senso del confliggere insieme, della creazione di condizioni d’attrito da cui far scaturire l’effervescenza vitale spesso latente dei nostri paesaggi.

_Articolo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/wp/arte/il-paesaggio-e-un-mostro-intervista-ad-annalisa-metta/


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