02 agosto 2022

DUE MODI D'INTENDERE LA LETTERATURA

 



CAMERE VISTA MONDO DI G. BERTOLOTTI 

di Gilda Policastro

Esistono due modi di intendere la letteratura: uno è l’intrattenimento, ed è dominante sul mercato, nelle classifiche di vendita, nei premi letterari, nelle conversazioni sociali, nei salotti virtuali (come li ha definiti in occasione della finale dell’ultimo Premio Strega il Presidente della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi). L’altro è l’avventura conoscitiva o, come diceva Nanni Balestrini, l’emozione intellettuale. Uno è il “circostante”, per dirla con Gianluigi Simonetti, l’altra è la miglior letteratura. Non perché esista o sia mai esistito un misuratore oggettivo di valore e di qualità (tanto che le Operette morali non vinsero l’ambito Premio della Crusca), ma perché esiste ancora il “gusto”: non un fatto idiosincratico, ma il portato di una serie di consapevolezze maturate attraverso la discussione, il confronto, il dialogo e il conflitto nella comunità degli interpreti. Che sono, sì, i lettori comuni, i quali dovendo mettere mano al portafoglio (perché non ricevono i libri omaggio dagli uffici stampa) sarebbero, secondo alcuni, più vergini e liberi, ma anche i lettori un po’ meno qualunque, i cosiddetti “esperti”, che esistono in ogni ambito e professione, ma che in nessun ambito e professione vengono ritenuti superflui (se non molesti) e tenuti ai margini come per la letteratura. Questa premessa forse un po’ pedante ma doverosa serve a introdurre un autore che meglio di altri rappresenta il vulnus di questa scissione, vulnus che riassumerei con una frase idiomatica: non sanno cosa si perdono. Chi? Quelli che non leggono, che non hanno mai sentito nominare, che non trovano nelle classifiche o ai premi letterari, uno degli autori più interessanti e importanti emersi nell’ultimo ventennio: Gherardo Bortolotti. Già dagli esordi di Canopo e Tracce, esiti dei primi esperimenti di “post-poesia”, ovvero di poesia pensata come un post (secondo la definizione ultra-gleiziana data da Manuel Micaletto in Concreta, su «Diacritica» del 2018), l’autore ha riportato il genere alla marca specifica della contrainte, non più intesa come vincolo metrico-ritmico ma come confine pseudoversale, e non come marca referenziale o come spazio metrico. Se uno spazio metrico, sempre con Micaletto, esiste, in Bortolotti, è una specie di cubo rosselliano, ma ancor meglio di Rubik, slargato, coi tasselli da riordinare e disordinare secondo logiche e cabale sottese al testo. Nelle Storie del pavimento questo movimento-puzzle ricompatta la tramatura in un quasi diario di quasi lasse in cui accadono cose rasoterra, ai confini del rappresentabile per insignificanza (avventure da battiscopa e correnti convettive delle polveri – e delle epoche) e rappresentate con un surplus di significazione-espressione. Bortolotti, dicendola facile, sa scrivere. Ha tutto quello che serve: sguardo peculiare sul mondo e sugli oggetti, riduzione dell’io a un “personaggio che potremmo chiamare Gherardo”, paladino dei microeventi dell’infraordinario, degli accadimenti “minori” (aggettivo ricorrente e tematico, insieme a “secondario”, “periferico” e altri tropi di ridimensionamento e riduzione) di un everyman “impreparato all’autunno e alle ore salariate” (altro aggettivo tematico cruciale). Così nel suo ultimo, sorprendente Tutte le camere d’albergo del mondo (uscito in “Pennisole”, collana diretta per l’editore hopefulmonster da Dario Voltolini, che firma anche l’accorata postfazione) rimescola le carte, riprende dalla letteratura sperimentale, cui è debitore negli intenti – ma non negli esiti, del tutto originali-, la tendenza a ricominciare le storie, a moltiplicarle, a non lasciarle scadere consumare estinguere in quell’unica storia che, come diceva Manganelli nello scritto sul romanzo, uccide tutte le altre storie possibili (“di che si saran parlati i bravi, andando a quel bivio?”). In questo, più poeta che romanziere, Bortolotti, o romanziere ma non nel senso corrivo della scrittura ridondante e prona agli eventi, bensì nel segno di un rinnovamento della forma attraverso la sua dissoluzione, ovvero la messa in atto perenne della sua inutilità e gratuità. Originalità, quella di Bortolotti, anche rispetto all’area di ricerca attuale, cui è solitamente ricondotto, e da cui invece si stacca, di libro in libro, proprio in virtù di uno dei tratti più tipicamente forclusi dello sperimentalismo: la presenza di elementi autobiografici, introdotta dal nostro già nella nota paratestuale del precedente Romanzetto estivo. Coincida o no con l’autore empirico che firma la copertina, “questo personaggio che chiameremo Gherardo” perde il padre, e l’evento torna negli ultimi libri (in apertura e in chiusura, rispettivamente) con una portata più conoscitiva che emotiva: la vita ha un inizio e una fine, non così le storie di Tutte le camere, che iniziano, ma non possono finire. Sono storie che invece più spesso si complicano, si moltiplicano, si specchiano, e dove quello che succede solitamente nelle trame romanzesche si sfalda intenzionalmente, anzi mai si aggrega e dispiega in trama articolata, anche perché gli stessi dettagli che nei romanzi vanno a comporre e definire i caratteri dei personaggi qui finiscono inevitabilmente per disgregarsi e al contempo elevarsi alla potenza, moltiplicandosi talmente tante volte da perdere di significato, e smettendo di offrirsi, al dunque, come dati di costruzione, ma producendo la messa in pagina allegorica della confusione. Allegoria di cosa? Del ramificarsi degli effetti, delle cause che a partire dal Big Bang irradiano le trame spaziali e temporali nell’universo e determinano le vicende lucreziane della materia, materia che va dissipandosi in calore ed espandendosi. Lo dice chiaro, chi si nega al romance:

 

non avendo fiducia nella continuità delle trame e considerando un’allucinazione consensuale l’esistenza, arriva a pensare che sia il reperto non tanto di una vita precedente ma di una linea narrativa scartata dalla sua vita attuale, una puntata interrotta per errore, un intreccio cancellato per sottovalutazione (p. 64).

 

C’è un angolo cieco, in tutti i libri di Bortolotti, che precede il momento in cui inizia la pagina, necessario per cogliere la vita nel suo darsi, ma che è sempre scandito da un’indicazione temporale irrelata, a negare anziché didascalizzare l’orizzonte di anticipazione tipico della romanzeria corriva o della serialità televisiva. È proprio in questo, lo specifico di Bortolotti: le stagioni delle sue serie non hanno eventi eclatanti, non si svolgono attorno a uno sviluppo preconfezionato ma piuttosto intercettano una frattura, un’interruzione, una soluzione di continuità nella necessità di aderire alle cose, al loro darsi senza scopo e senza effetti. Gli effetti, se mai, sono quelli della lingua, la potenza al detonatore di uno stile sempre al crinale tra lirica e descrizione oggettuale. Non per caso, i titoli dei capitoli rimandano ad alcune delle Tracce o a loro segmenti (“seduti in cucina come esponenti dell’opinione pubblica”), e, in generale, il procedimento di scrittura assomiglia più alla concentrazione e alla “proprietà” (leopardiana) della poesia che alla pedanteria narrativa (fu così, andò cosà). Avviene soprattutto negli inserti più scopertamente poetici, di una poesia senza il frigno intimista e l’ossessività referenziale, che non rinuncia però a raccontare, a riferire del reale così come non appare:

 

Anche in questa occasione, il silenzio del quartiere è quasi assoluto e, nelle lontananze più vespertine, le finestre illuminate degli appartamenti hanno i toni elettrici dei lampadari e dei televisori accesi, in salotti in cui compaiono i riti nascosti della storia, le vicende pulviscolari delle famiglie e dei figli e degli impieghi degli adulti, il decadimento degli arredi, dei desideri inespressi e degli isotopi

 

La difficoltà o la negazione del genere romanzesco, per Bortolotti, sta esattamente nell’impossibilità di elaborare uno svolgimento e nella priorità data in ogni caso al senso: i titoli sintetizzano, comprimono una vicenda potenziale, ed è proprio questo spazio, comunque poetico, dell’enunciato a racchiudere e dispiegare un senso, a suggerirlo, a evocarlo senza però esaurirlo, se mai tirandola per le lunghissime (ma insieme, risolvendola rapidamente, per un effetto di compressione tutta linguistica), alludendo ad altro. I titoli sono i versi che come autore Bortolotti difficilmente si concede (o raramente), indicazioni virgolettate che isolandosi dal narrato riattivano il motore del testo, lo rivolgono in una direzione che è sempre difficile prevedere. È possibile immaginare le prime mosse, ma poi i personaggi si perdono, si confondono, rinunciano a costituirsi in sistema. E questo perché la vera trama è nella lingua: come ha scritto Chiara De Caprio a proposito di Romanzetto estivo sul nostro sito (qui: https://www.leparoleelecose.it/?p=43241), quella di Bortolotti è una “prosa dotata di una trama ritmica riconoscibile e ‘memorabile’; punteggiata da micro-strutture versali sottotraccia”. Qui il sottotraccia si fa invece sovrascrizione, elemento guida: forse perché quello scarto tra desiderio e realtà evidenziato dal suffisso del titolo precedente si è risolto in favore di una riedizione della realtà e (della realtà) del desiderio in un dis-aggregato di senso. Il testo sfugge da tutte le parti, finché non si tendono “i fili del vascello allestito nella bottiglia”, come scrive Voltolini nella postfazione: e si tendono, quei fili, quando la vita esce dalla pagina e si fa vita, mentre quello che sta in pagina è ciò che non è accaduto, le storie che non abbiamo vissuto, “il romanzo che avrei voluto scrivere”, come lo chiama Bortolotti. E meno male che ha disobbedito al suo (finto) desiderio, perché questo libro può incontrare il nostro, di desiderio. Nostro, cioè di chi ha più voglia di giocare con un nostalgico veliero in bottiglia che con uno spoetizzante sparatutto-sparastorie.


Da http://www.leparoleelecose.it/?p=44867



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