Tanti amici, prima di leggere il mio ultimo libro, mi hanno chiesto di spiegare le ragioni del suo titolo: EREDITA' DISSIPATE: GRAMSCI, PASOLINI e SCIASCIA. Ho già pubblicato in questo blog l' INDICE del libro e l' AVVERTENZA iniziale con cui ho cercato di rispondere ad alcune domande.
Oggi pubblico la Nota conclusiva del libro in cui riassumo il mio pensiero.
Alla luce, poi, dell'assurda campagna elettorale in corso mi appare ancora più felice ed attuale il titolo scelto. (fv)
NOTA CONCLUSIVA
Credo di aver spiegato le ragioni che mi hanno spinto a considerare, almeno in parte, dissipata la grande eredità culturale lasciata da Gramsci, Pasolini e Sciascia. I tre, malgrado il successo che hanno avuto in alcuni momenti della loro vita, sono stati, in gran parte, incompresi dai loro contemporanei.
Antonio Gramsci si è sentito isolato e incompreso dai sui stessi compagni di lotta al punto tale che Umberto Terracini - stretto collaboratore del sardo nella redazione de L’Ordine Nuovo, fin dal 1919, e suo compagno di carcere durante la dittatura fascista - è arrivato a scrivere:« Dal 1930 al 1945 - bisogna pur dirla almeno una volta senza perifrasi questa triste verità - la consegna fu di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica. […] E come dimenticare che, dietro lo squallido carro funebre che ne trasportò la bara al cimitero, altro non c’era che una scia di vuoto? » (1)
Non parliamo poi di quello che è accaduto in Italia dopo il 1989, quando persino gli stessi dirigenti nazionali del Partito che aveva contribuito a creare hanno apertamente dichiarato di considerarlo politicamente inservibile dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica.
Se in Europa e in India non avessero ripreso a leggerlo un gruppo di antropologi che hanno dato vita ai cosiddetti subaltern studies (utilizzando, fin dal nome, una parola chiave del lessico gramsciano); se, in America Latina, Paolo Freire (il pedagogista gesuita autore della famosa Pedagogia degli oppressi) non l’avesse scoperto insieme ai teologi della liberazione (G. Gutierrez, L. Boff, ecc.); se gli stessi intellettuali argentini di sinistra (vicini al populismo peronista) non avessero contribuito a diffonderne il pensiero, oggi, forse, non si parlerebbe più di Gramsci nel mondo.
Qualcosa di simile è avvenuto con Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia. La storia di Pasolini è stata, in gran parte, una storia di incomprensioni. Come ha ben visto Gianni Scalia, dopo la sua morte, i mezzi di comunicazione di massa si sono impadroniti di lui: il poeta bolognese è stato «interpretato, giudicato, commemorato: encasillado (come direbbe Unamuno). Ma non compreso. Chiedeva di essere aiutato nella sua ricerca dei “perché” della condizione presente […]. Faceva domande e sollecitava risposte [...]. Gli si rispondeva con i silenzi puntuali, le polemiche […], o, come diceva, con il “silenzio”». Negli ultimi anni della sua breve vita tutti i suoi interventi, pubblicati sul Corriere della Sera e su altri giornali e periodici, sono stati accolti in modo ostile, oltre che da tutti gli uomini di potere del regime democristiano, persino da tanti intellettuali di sinistra. Basti ricordare, per tutti, gli scontri e le polemiche avute con Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, ecc. ecc. E le incomprensioni non sono ancora finite. Infatti, malgrado si continui a parlare e a scrivere tanto sulla sua opera, rimangono pochi i contributi critici seri.
Leonardo Sciascia è stato uno dei pochi a difenderlo e a restargli vicino nel corso degli anni, come abbiamo mostrato nelle pagine precedenti. Ecco perchè lo scrittore siciliano, dopo la sua morte, dirà: «Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose».
E non è casuale che uno dei suoi saggi più discussi, L’affaire Moro, si apra proprio con una citazione di Pasolini, ripresa dal suo famoso articolo sulle lucciole del 1° febbraio 1975. E qui, visto che ho omesso di farlo prima, è il caso di soffermarcisi un po’ anche per chiudere il cerchio. Sciascia, infatti, nelle prime pagine del suo saggio, oltre a ricordare l’articolo suddetto, cita un’ altro fondamentale testo di Pasolini della metà degli anni sessanta, forse uno dei più gramsciani dello scrittore corsaro, presentandolo così:
« Pasolini aveva parlato del linguaggio di Moro in articoli e note di linguistica (si veda il libro Empirismo eretico). […]. “Come sempre - dice Pasolini - solo nella lingua si sono avuti dei sintomi”. I sintomi del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, “la pura e semplice continuazione del regime fascista”. Nella lingua di Moro, nel suo linguaggio completamente nuovo e però, nell’incomprensibilità, disponibile a riempire quello spazio da cui la Chiesa cattolica ritraeva il suo latino proprio in quegli anni. [...] Pasolini non sa decifrare il latino di Moro, quel “linguaggio completamente nuovo”: ma intuisce che in quella incomprensibilità, […] si è stabilita una “enigmatica correlazione” tra Moro e gli altri; tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo latino (che è ancora il latinorum che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino) e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi. In questo breve inciso di Pasolini - “per una enigmatica correlazione” - c’è come il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la “correlazione” era una “contraddizione: e Moro l’ha pagata con la vita. Ma prima che lo assassinassero, è stato costretto, si è costretto, a vivere per circa due mesi un atroce contrappasso: sul suo “linguaggio completamente nuovo”, sul suo nuovo latino incomprensibile quanto l’antico. Un contrappasso diretto: ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata».(2)
Naturalmente, per ovvie ragioni, L’affaire Moro è stato poco amato dalle classi dirigenti nazionali. Ma, per la verità, malgrado il successo di critica e di pubblico che tutte le sue opere hanno registrato nel mondo intero, in Italia Leonardo Sciascia ha sempre diviso l’opinione pubblica e la classe politica (di governo e di opposizione), insieme alle gerarchie ecclesiastiche, hanno guardato sempre con sospetto al suo spirito eretico. Basti ricordare che, negli anni in cui scriveva sul giornale comunista L’Ora di Palermo, era soprannominato “iena dattilografa”.
Insomma, sarò pure pessimista, ma credo di avere delle buone ragioni per temere che i tre più grandi eretici italiani del Novecento rischiano davvero di essere dimenticati in un mondo dove sembra che ci sia sempre meno spazio per il pensiero critico e indipendente. (*)
Francesco Virga
(*) Nota conclusiva del Saggio EREDITA' DISSIPATE Gramsci, Pasolini e Sciascia, Diogene Editore, Bologna luglio 2022, pp. 315-318.
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