Remo Bodei: Leopardi filosofo
16 Agosto 2022
«È questo un poeta, che – a differenza dei metafisici tedeschi – non confonde poesia e filosofia e non crea “poemi filosofici”». A Remo Bodei piaceva Giacomo Leopardi per la sua grandezza insieme di poeta e di filosofo e perché – a differenza dei “suoi” tedeschi (Hegel, Schelling e Hölderlin) – sapeva trovare la giusta distanza tra componimento poetico e riflessione filosofica.
Non era, Bodei, uno studioso di Leopardi, ma lo aveva frequentato con attenzione, almeno a partire dal 1992, quando tenne una conferenza alla Fondazione Calzari Trebeschi su Il male e la sofferenza in Leopardi, riprodotta nel secondo dei nove capitoli del postumo Leopardi e la filosofia che ho curato insieme alla vedova prof.ssa Gabriella Giglioni, che ringrazio per la grande disponibilità nella curatela, partecipe e accurata. Gli altri otto capitoli toccano temi cari a Bodei e cruciali nella lettura filosofica di Leopardi, a partire dal primo – La scoperta novecentesca del Leopardi filosofo, relazione inedita che inaugurò il XIV Convegno Internazionale di studi leopardiani Leopardi e la cultura del Novecento. Modi e forme di una presenza tenutosi a Recanati il 27-30 settembre 2017. Alcuni capitoli richiamano testi già pubblicati, spesso modificati per seguire le varie riscritture dell'autore: Pensieri immensi.
Leopardi e l’“ultrafilosofia”; Vulcani sublimi; Il percepito e l’immaginato: Leopardi tra romantici e neoclassici. Quattro capitoli sono inediti: oltre al primo, già ricordato, Infinito e sublime in Leopardi, ricavato dall’ultima versione di tre dattiloscritti datati 25 luglio, 29 agosto 2007 e 2012 relativi a lezioni svolte presso la University of California, Los Angeles (UCLA); Oltre la siepe: Leopardi e l’immaginazione, trascrizione della lezione magistrale tenuta a Sassuolo il 20 settembre 2008 in occasione del Festival di Filosofia; Passione del presente, deficit di futuro, scritto per Pier Luigi Celli e datato 21 agosto 2015.
Gli scritti toccano – lo rivelano già i titoli – alcuni aspetti centrali del pensiero leopardiano, quali il male e la condizione umana, l’«ultrafilosofia», la riflessione sulla natura, con un approfondimento sul vulcanismo, il sublime e le «situazioni romantiche», i motivi etico-politici. Ma il leit-motiv che tutti li attraversa è un tema di fondo costante nelle interpretazioni sull'opera leopardiana, a partire dall'espressione che l'amico Pietro Giordani consegna al Proemio al terzo volume delle opere di Leopardi del 1845: «sommo filologo, sommo filosofo e sommo poeta». E dal riconoscimento di Vincenzo Gioberti, che ebbe modo di discutere a lungo con Leopardi durante il viaggio che li condusse da Firenze a Recanati il 10 e l’11 novembre del 1828.
Gioberti riconosce a Leopardi l’acume del filosofo – «la filosofia, che il Leopardi bevve col latte», «una filosofia sconsolata», «le angosce di una filosofia disperante» – che, come Hume, ha condotto il razionalismo cartesiano alle sue logiche conseguenze scettiche, ma rimarca il suo “errore” nel mancato superamento del pessimismo, legato a un’aderenza forte alla tradizione empirica, per aprirsi alla visione superiore di un mondo intelligibile rischiarato dalla bontà divina (le riflessioni di Gioberti su Leopardi sono ora raccolte in Vincenzo Gioberti legge Leopardi, filosofo dell’infinito, «Rivista Internazionale di Studi Leopardiani», 14, 2021).
L'indagine sul rapporto in Leopardi tra poesia e filosofia, e sugli aspetti più originali della sua filosofia, conduce Bodei a confrontarsi – nella relazione del 2017 – con il rapporto intricato tra ragioni, passioni e illusioni che attraversano, con esiti e forme diverse, il «vero e perfetto filosofo» e il «sommo e perfetto poeta». Lo testimonia, tra le altre, una pagina celebre dello Zibaldone del 4 ottobre 1821, sulla quale Bodei si sofferma con profondità d'analisi: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente e sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime ecc. ecc.
Non già perché il cuore e la fantasia dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, nel che non entro a discorrere, ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo [...]. Quindi si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire che questa qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e che appena ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n’è mai sorto [...]. È del tutto indispensabile che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per ragionar da poeta; anzi per esaminar da freddissimo ragionatore e calcolatore ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere» (Zib., 1833-1834 e 1838-1839).
La grandezza del «perfetto filosofo» risiede tutta nello sperimentare passioni e illusioni, e non si tratta di una reciprocità asimmetrica, come ebbe modo di notare Cesare Luporini, con il quale Bodei qui interloquisce. Essa contiene una tradizione e una cultura, quella dei filosofi italiani: «Essi hanno assunto come oggetto di indagine e come compito di pedagogia politica questioni che virtualmente coinvolgono la maggior parte degli uomini, ben sapendo che si tratta non solo di animali razionali, ma anche di animali desideranti e progettanti, i cui pensieri, atti o aspettative si sottraggono ai precedenti statuti argomentativi o a metodi rigorosamente definiti».
Si tratta di un rilievo critico che, senza richiamarsi espressamente alla italian theory teorizzata da Roberto Esposito (si pensi a Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, 2010), valorizza la dimensione etico-politica della tradizione filosofica italiana, della quale Leopardi è testimone eminente. «La filosofia italiana – prosegue Bodei – è una filosofia del concreto (da cum crescere, ciò che cresce insieme ed è dotato di intrinseca complessità), di quel che tiene conto dei condizionamenti, delle imperfezioni e delle possibilità del mondo, più che della ragion pura, logico-metafisica, rivolta all’astrazione, al calcolo, alla conoscenza dell’assoluto, dell’immutabile o del rigidamente normativo.
Essa ha dato il meglio di sé in quegli ambiti problematici, dove s’incontrano e si scontrano – in un intreccio ‘ambiguo’ – l’universale e il particolare, la logica e l’empiria, le relazioni sociali e la coscienza individuale, la consapevolezza dei limiti imposti e l’opacità dell’esperienza in cui si vive, l’immaginazione e l’intelletto, il desiderio e la realtà – insomma il pensiero e il vissuto, traendo giovamento precisamente dai limiti, se non dagli errori, di quella ragione. Ciò non significa che si debba essere carenti sul piano razionale, ma solo che ci si applica ad ambiti di maggiore complessità, che includono desideri e decisioni umane prive di quella necessità loro attribuita, ad esempio, da Hobbes o da Spinoza». Il rinvio all'aureo libretto Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana (1998) chiarisce bene l'orizzonte etico-politico nel quale si colloca la riflessione di Bodei, auspice Leopardi, sul «perfetto filosofo».
In questo orizzonte acquista il giusto rilievo la visione raziocinante di Leopardi che non può essere confusa in un indistinto contesto irrazionalista e nichilista: «Leopardi non è perciò un “irrazionalista”, così come non è, per contro, un “progressista” nel senso per noi tradizionale. E non è neppure, strettamente parlando, un “nichilista” (nel significato nietzschiano e post-nietzschiano del termine, secondo un accostamento ormai costante, da Adriano Tilgher a Emanuele Severino)».
Certo, nella nota frase della lettera al suo editore Antonio Fortunato Stella del 23 agosto 1827 – «la ragione non può edificare, ma solo distruggere» –, motivata dalla ricezione “negativa” delle Operette morali, Leopardi ribadisce la sua distanza dalla ragione moderna, «la nostra capitale nemica», ma insieme afferma la propria partecipazione a questa stessa modernità, come testimonia la frase che si riporta per intero: «Che i miei principii sieno tutti negativi io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran maraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle; che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere». Anche la “ragione” leopardiana, nelle Operette non edifica nella direzione voluta dai liberali moderati e progressisti della cerchia di Giovan Battista Vieusseux, ma “distrugge”, e pure essa è mossa da passioni e illusioni e partecipa – rimarca Bodei – di una “critica della ragione impura”: «inserirò preliminarmente il pensiero di Leopardi – pur salvandone la peculiare fisionomia – in un filone di lunga durata della filosofia e della cultura italiana, che chiamerò di “critica della ragione impura” e di vocazione civile».
Una vocazione civile che appare pienamente dispiegata nell'ultimo Leopardi, per esempio in un canto spesso trascurato sul quale Bodei si sofferma: la Palinodia al marchese Gino Capponi che «introdotta in chiusura nei secondi Canti come unico e magistrale pezzo satirico (a meglio marcare il pluristilismo del libro), riprende dal Tristano (analogo pezzo conclusivo) il motivo della finta ritrattazione. Sono due testi palinodici che, nella stampa Starita, hanno in comune il privilegio dell’epilogo» (G. Tellini, Leopardi, Capponi e la Palinodia, in L. Melosi, a cura di, Leopardi a Firenze, 2002). Qui troviamo la critica feroce «contro l’ideologia di un progresso che ignora le catastrofi sociali che esse [le macchine] generano». Sono riflessioni preziose, che si intrecciano con l'ultima grande ricerca di Bodei, frutto di una lunga e ampia ricognizione, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale (2019). Nei versi 109-121 della Palinodia
«Più molli
di giorno in giorno diverran le vesti
o di lana o di seta. I rozzi panni
lasciando a prova agricoltori e fabbri,
chiuderanno in coton la scabra pelle,
e di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
certamente a veder, tappeti e coltri,
seggiole, canapè, sgabelli e mense,
letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
di lor menstrua beltà gli appartamenti;
e nove forme di paiuoli, e nove
pentole ammirerà l’arsa cucina.»
Bodei vede un Leopardi che assiste alla rivolta contro i telai meccanici che produsse «la disoccupazione di massa che funesta la prima metà del XIX secolo» e con i suoi versi satirici esprime un dissenso condiviso dal contemporaneo, e forse direttamente conosciuto durante i soggiorni fiorentini, economista svizzero Simonde de Sismondi, residente nei dintorni di Pescia dal 1816 (chiamati proprio per la sua presenza la “Svizzera pesciatina”) che «affermò chiaramente, nei Nouveaux principes d’économie politique (1819), che il progresso tecnico produce disoccupazione e che questa è, a sua volta, dovuta alla sovrapproduzione introdotta, appunto, dall’uso delle macchine. Per causa loro, in altre parole, si allarga per Sismondi la forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo, dato che la società industriale produce troppo rispetto alle possibilità di acquisto della maggior parte dei consumatori».
La modernità della riflessione etico-politica di Leopardi risalta nelle pagine del libro, anche attraverso una lettura attenta e ricorrente del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, che dà nerbo all'ultimo capitolo, inedito – Passione del presente, deficit di futuro – dove, «per comprendere a fondo quali strategie di vita seguire» nel nostro tempo, guardando soprattutto alla condizione giovanile, Bodei si affida a Leopardi che nel Discorso ha «mirabilmente analizzato, per quanto riguarda l’Italia» «un atteggiamento di diversa permanenza nel presente immemore e imprevidente», che produce la perdita del futuro, maggiormente sentita in Italia «a causa della maggiore fragilità del nostro paese». Oggi la ricerca della felicità individuale si è definitivamente «staccata da quella della felicità collettiva» e ciascuno vuole «pensare – come gli americani ai tempi di Tocqueville – solo a se stesso o ai suoi familiari e amici».
Le conseguenze sono socialmente e psicologicamente devastanti: «La contrazione delle aspettative all’arco della sua sola esistenza fisica, immerge il singolo nel tempo irredimibile della caducità, lo costringe a elaborare il lutto causato dal dover trapiantare le radici del proprio io dal solido e immutabile terreno dell’aldilà o dai tempi epocali della storia nel friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia o dell’entourage delle persone e delle istituzioni a lui più vicine. A questo disagio si reagisce oggi mediante la prevalente strategia di mettere a coltura intensiva il presente, di farlo fruttare rapidamente, senza preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato.
Ciò comporta però la desertificazione del futuro e rischia di creare una mentalità opportunistica e predatoria». A questa prospettiva temibile, evocata con grande lungimiranza, Bodei risponde con una riflessione leopardiana: «Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benché si possa sempre distinguere logicamente, nondimeno in pratica è ordinariamente un tuttuno, quasi, coll’atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio» (Zibaldone 4143-4146, Bologna 18 ottobre 1825).
Bodei postilla: «Il pensare sospende lo scorrere del tempo cronologico e ci introduce in un tempo qualitativamente diverso, al pari della musica, che riempie il tempo vuoto dandogli un significato del tutto interno al suo svolgersi. In mancanza di questa periodica fase di raccoglimento in sé, tesa ogni volta a riannodare consapevolmente le fila di passato e futuro, il presente si trasforma in spreco, in un lasciarsi passivamente trascinare dalla corrente».
È questo un piccolo sondaggio di quanto Leopardi abbia insegnato a Bodei nelle sue lunghe e simpatetiche letture, di quanto insegna a noi uomini del XXI secolo, anche grazie a Bodei.
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