08 agosto 2022

POEMA 15 DI VICTOR JARA

 


POEMA 15 DI VICTOR JARA. DEDICATO A ROBERTO NOBILE.

di Lucia Calamaro

“Non è che potresti immaginarti un altro personaggio? In più? Perché ci sarebbe un amico. È da tanto che lavoriamo insieme…una persona squisita” – mi dice Silvio Orlando – “un attore unico, e essendo strani entrambi, credo fortemente affine ai tuoi mondi”
“Età?”
“Una settantina”
“Un fratello maggiore può essere?”
“Eh, sì, vedi tu”
Così.

È stato così, al volo, uscendo dalla casa di Silvio Orlando e Maria Laura Rondanini che l’hanno amato moltissimo , che Roberto Nobile è entrato a far parte della mia vita. Mentale e concreta.

In uno spettacolo che poi si è chiamato “Si nota all’imbrunire”.
Spettacolo in cui non era previsto. E poi un attimo dopo, sì.

Se oggi mi permetto di scrivere queste righe, è perché lavorare con un attore creandogli addosso un  personaggio, conoscendolo come persona, vedendogli i ritmi, la calata, i livelli di energia, le smanie, l’andazzo generale con o contro  il mondo, è uno strano processo alchemico che crea un legame quasi psicomagico con la persona, che ovviamente nella vita vera, quella reale, non esiste.

Quindi non so dare nome a questa materia sottile ma profonda che mi lega a Roberto Nobile. Ma so che esiste. E che non ha fine.

In ordine sparso allora, alcune delle impressioni che ho di lui.

Spiritoso, gagliardo, accogliente, buon uomo, testardo, orgoglioso, cedevole, umanissimo, smaccatamente arreso al fascino femminile, consolatorio, grande intrattenitore, galantuomo, affettuoso, permalosissimo, padre orgoglioso, avventuriero, fuori di testa, esagerato ma con stile, era per lo più totalmente inadatto, direi mortificato, dalle piccolezze dell’esistenza, e gli dispiaceva profondamente la meschinità, che non capiva, pur ammettendo con onestà di non esserne esente.

Poi curiosamente so bene che era fragile di piedi.

Aveva un problema infinito con le scarpe, una scomodità perenne tra alluce e tallone, che non gli dava tregua, di cui sussurrava il fastidio tra quinte e camerini, e che in una presenza così grande e forte come la sua – Roberto sembrava un omone, emanava stazza e prestanza – creava enorme tenerezza.

So anche che in scena parlava fortissimo. Il microfono, quest’inutile orpello della modernità, quasi sempre azzerato con seraficità dal buon Gian Rocco Bruno, lo infastidiva. Mi sono spesso chiesta perché parlasse cosi forte, finché in una replica, ascoltandolo meglio, forse l’ho capito:  lui voleva raggiungere il pubblico di suo, coi suoi mezzi, senza mediazione. Ci teneva proprio. Era un punto d’onore il contatto diretto con i suoi spettatori, il vocione irrinunciabile.

Sostenuto com’era, inoltre, da un profondo senso musicale. Cantava bene Roberto, ci metteva passione, e un certo specifico languore scapigliato, nostalgico, tutto sudamericana.

Cosa significhi la delicatezza nel disaccordo poi, posso dire che me l’abbia insegnato lui.

Maestro dei rapporti umani, alla fine anche se abbozzava alle mie richieste che non sempre gli piacevano, da qualche parte io sapevo che interiormente aveva vinto lui. Perché il garbo con cui mi manifestava il suo disappunto aveva sempre una sua buona ragione, mentre il nervosismo del mio diniego, un patetico torto tecnicista.

Ad Alice Redini, in tournée,  in quinta, teneva spesso la mano a panino, passandole, in quella farcitura di dita, tutta la sua pacatezza .

E poi l’epos: una gioventù  fatta di mille mestieri, quasi gli fosse toccato il destino di un cantastorie stralunato con vocazioni girovaghe come il camionista e il corridore di moto. Leggendario come l’amore per il figlio, solo la sua fissazione per moto e velocità.

Tanto che alla fine, nello spettacolo, infilammo un monologo su cosa significasse correre, per riuscire a dare anche fosse l’eco della scossa vitale, che una qualsiasi passione può creare in un essere umano, e migliorarlo.

Chiuderebbe qui il piccolo pezzo di quel Roberto che io ho avuto l’avventura di frequentare per pochissimo.

Ma Riccardo Goretti ieri me ne ha detta una che va verso la fine: “Quand’era giovanissimo, Roberto per iscriversi a una gara, forse per un rally, lui e un amico suo, squattrinatissimi entrambi, tra il pagare ‘iscrizione e sistemare la macchina erano stati, lui e il suo copilota, un mese senza mangiare. Praticamente erano andati dove c’era la gara un mese prima, e vivevano sul fiume, dentro la macchina e pescavano pesci, mangiando solo quello, e basta, magrissimi”.

Nella sua inconcretezza gloriosa, nel suo passare per l’esistenza tribolando, ridendo e rinascendo più leggero e voglioso ogni giorno Roberto Nobile mi fa pensare alla parabola chassidica del funambulo riportata da Martin Buber:

Rabbi Hajim di Krosno, uno scolaro del Baalshem, stava un giorno insieme ai suoi scolari a guardare un funambolo. Era così assorto in quella vista che essi gli chiesero cosa l’affascinasse tanto in quello sciocco spettacolo.  “Quell’uomo” – rispose – “mette in gioco la sua vita, non saprei dire per quale ragione. Ma certamente, egli mentre cammina sulla corda, non può pensare che con quello che fa guadagna cento fiorini; non appena lo pensasse precipiterebbe”.

Per il funambolo Roberto, nessuna dimenticanza.

Ma in un impossibile ritardo, l’abbraccio sorridente che uno non ha fatto in tempo a dargli, mentre lui si, ci ha abbracciati tutti. Parecchio.

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