Nuove generazioni crescono
Raúl ZibechiChe accade e cosa pensa la gioventù di un paese che si affaccia al fare politica dopo decenni segnati da un lungo, entusiasmante ciclo di lotte e grandi rivolte e dopo tre mandati consecutivi di una presidenza storica, importante quanto ingombrante (e poi perfino imbarazzante) come quella di Evo Morales? La tappa boliviana del nuovo lungo tour di Raúl Zibechi in giro per l’America Latina cerca qualche risposta a una domanda complessa e difficile. I tempi della guerra dell’acqua di Cochabamba e della guerra del gas del 2003, all’alba del nuovo secolo, fanno ormai parte della storia e le promesse del primo presidente indigeno del continente e di Álvaro García Linera hanno ormai deluso perfino molti dei sostenitori più fedeli di un ticket presidenziale arrogante e votato all’eternità. Quel che sembra certo, scrive Raúl nel suo reportage da El Alto e La Paz, è che le nuove generazioni stanno provando a sbarazzarsi del patriarcato e di quelle idee di leaderismo e avanguardia che tanti danni hanno causato alle rivolte boliviane. Poi c’è il nuovo protagonismo degli Aymara, che guardano allo Stato plurinazionale, tanto lodato nelle storiche Costituzioni di altri paesi, come alla pretesa che “la volpe coesista in armonia con le pecore”. C’è poco da fare, passano i decenni ma il paese che “non esiste”, secondo la definizione che ne diede adirata la regina Vittoria a Londra alla fine dell’Ottocento, per chi lo guarda dall’Europa è sempre pieno di sorprese
“Siamo orfani politici”, dice Cami da un angolo della stanza dove una ventina di persone, per lo più giovani e donne, si radunano in una fredda domenica a La Paz. Una femminista concorda: “Rimprovero la generazione precedente per non averci trasmesso la sua esperienza”. Il resto di noi ascolta in silenzio. “Non possiamo capire la totalità, ma possiamo provarci. Dobbiamo riconoscere la vulnerabilità, perché si cresce solo dal vulnerabile”.
È un doppio rimprovero, di generazione e di genere, a quelli di noi che non hanno saputo trarre qualcosa dall’esperienza accumulata, di certo perché non abbiamo saputo accettare il fatto di commettere errori e deviazioni dal cammino che ci eravamo proposti di fare, cioè per la nostra cultura patriarcale e avanguardista, che ha sempre guardato dall’alto in basso i giovani e in particolare le donne.
A partire da lì, le cose da mettere in discussione si accumulano. Alcuni giovani si chiedono “cosa significa essere militante” in questo periodo complesso della storia boliviana. Alcuni provengono da famiglie di minatori del mitico 20°secolo, dagli ayllu contadini indigeni e dalle logiche comunitarie, ma ci sono anche artisti, femministe radicali e queer a comporre un arcobaleno di diversità, sebbene tutti si chiedano quale potrebbe essere oggi un “orizzonte rivoluzionario”.
Una giovane donna che lavora con le bambine e i bambini realizzando pupazzi, sottolinea il “non farsi notare” e il “non alzare bandiere”, una critica diretta all’egocentrismo dei leader, che continuano a ricoprire incarichi perché sì, perché sono uomini, hanno potere, sono bravi a parlare e si impegnano più a dominare le organizzazioni che nel trasformare la realtà.
La crisi del movimento popolare in Bolivia è una delle questioni centrali che occupa e preoccupa un’intera generazione militante che raramente supera i trent’anni, che non ha vissuto il ciclo di lotte che, dal 2000 al 2005, ha disarticolato il neoliberismo e consentito a Evo Morales l’accesso al governo. Quella generazione ha però subito la crisi del 2019 che si è risolta con la fuga di Morales e Álvaro García, negoziata con i poteri di fatto di allora.
Uno schiaffo per chi a un certo punto aveva creduto nel processo di cambiamento ma non si è lasciato convincere da un colpo di stato mai avvenuto o, almeno, non è stato quello il motivo della rinuncia e della fuga, quanto piuttosto la perdita di legittimità nei confronti delle proprie basi. “La COB è stata la prima a chiedere le dimissioni”, ricorda qualcuno che sottolinea come il prestigioso sindacato dei lavoratori aveva preceduto il comandante in capo delle forze armate nel chiedere l’uscita dal governo, come il miglior modo per risolvere la crisi, generata dal desiderio di rendere eterno il potere.
Il ritrovarsi orfani è politico ed etico. È si è fatto più grave perché l’ex presidente ha lanciato una dura campagna contro l’attuale vicepresidente, David Choquehuanca, cercando di delegittimare qualcuno che oggi ha più prestigio di Evo Morales. I dati parlano chiaro: a ottobre del 2019 Morales e García hanno ottenuto il 47% dei voti. Nell’ottobre 2020 Luis Arce e Choquehuanca hanno raggiunto il 55%. Il MAS senza Evo è cresciuto del 20% nei voti.
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L’Università Pubblica di El Alto (UEPA) continua ad aggiungere edifici di quattro e cinque piani, dove migliaia di giovani aymara si sforzano di sfidare il freddo gelido di agosto che oggi si traduce in una bella nevicata. La città simbolo degli aymara, situata a 4.000 metri, è l’epicentro del pensiero indigenista che prende le distanze dai governi progressisti.
“Evo è sempre stato un capo per conto di altri, un maggiordomo, non siamo mai stati un governo in 14 anni”, diceva lo storico Inka Waskar Chukiwanka, un punto di riferimento importante per questa corrente che però è recentemente scomparso. Difendeva la tesi secondo cui sopravvive ancora una gerarchia di civiltà che non è cambiata, cosa che ha portato infine alla ricomposizione del colonialismo sotto nuove forme.
Pachakuti Akarapi, che appartiene a una nuova generazione di laureati aymara dell’UPEA e di altre università, si esprime con un tono simile. Molti di loro hanno partecipato, alcune settimane fa, al “Primo incontro degli intellettuali della Nazione Aymara”, che ha avuto il sostegno della Vice Presidenza boliviana guidata da David Choquehuanca.
L’incontro ha definito un’agenda politica che mira alla ricostruzione della nazione aymara, per la quale hanno disegnato l’Agenda Atawallpa 2032, che mira a ripristinare il loro sistema (parzialità o regione), che dovrebbe essere la forma plurinazionale aymara, quechua e tupi guaranì, secondo Pachakuti. Quella data segna il 500° anniversario dell’assassinio dell’Inka Atawallpa e dell’invasione di Tahuantinsuyu.
Per questo vogliono farla finita con lo stato coloniale, ricostituire le varie nazioni native secondo il principio del federalismo e il sistema delle comunità o ayllus, formando un potere basato sulla rotazione degli incarichi, “senza l’intervento dei precetti della democrazia istituzionalizzata dello Stato”, si legge nel documento approvato dagli intellettuali aymara.
Questa generazione non si sente rappresentata dalla Costituzione dello Stato e scommette sulla creazione di poteri propri, ispirati alla loro cultura politica, cioè poteri federati non statali, sovracomunitari. Si tratta di costruire territori e governi autonomi nell’Altiplano ma anche nelle città.
Un esempio di questa ricerca di autonomia è stata la presentazione di Pachakuti all’incontro che abbiamo avuto, dove ha evidenziato che una delle questioni centrali è come vengono scelte le cariche: in base agli usi e costumi come si fa nelle comunità oppure con criteri esterni appartenenti alla cultura politica dominante. Per essere ancora più esplicito, ha detto che affidarsi allo Stato Plurinazionale è come pretendere che “la volpe coesista in armonia con le pecore”.
Nello scambio che abbiamo avuto all’UPEA, Pachakuti Akarapi ha analizzato due questioni centrali: la storia delle resistenze alla conquista spagnola e l’esistenza di ribelli che non erano indigeni ma si unirono alle loro lotte.
Ha passato in rassegna le ribellioni che si sono succedute in 500 anni, che mostrano la volontà di ricomporre i governi aymara, ancora costretti alla clandestinità, che ha definito “governi in movimento”. Si è anche proposto di smantellare alcuni pregiudizi: “Quando guardiamo al movimento indigeno, siamo soliti vedere solo rivendicazioni, mentre in realtà si cerca di ristabilire il governo aymara”.
Da lì è passato direttamente a mettere in discussione i governi del MAS, perché “ciò che è stato fatto in Bolivia con lo Stato Plurinazionale è stato di mantenere intatta la gerarchia coloniale”. Ha però ricordato che diverse ribellioni sono state guidate da persone non indigene per nascita, come Rumi Maqui nel 1915, sottolineando che la lotta indigena non ruota attorno al colore della pelle.
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Una nuova generazione sta cominciando a scolpire il presente sulle rovine lasciate dalla generazione precedente. Impossibile sapere se riuscirà a superare i principali problemi che hanno appesantito i tentativi del passato. Possiamo tuttavia esser certi che sta provando a sbarazzarsi sia del patriarcato che dei ruoli di avanguardia, che però potrebbero naturalmente riemergere sotto le sembianze di ciò che è politicamente corretto. La cosa migliore, credo, sia aspettare e sostenere questa generazione mentre mostra il suo potere creativo.
Versione in castigliano uscita su Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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