L'AMORE E' UNA COSA LEGGERA. IN RICORDO DI GUIDO GOZZANO
di Elena Santagata
Il
9 agosto 1916 moriva Guido Gozzano, uno dei poeti più amati, ma
anche più negletti: l’autore da recita scolastica, da bigliettino
d’auguri, così caro alla tradizione popolare e allo stesso tempo
così poco considerato dai critici di poesia. Gozzano è stato il
cantore della leggerezza ben prima che Calvino la teorizzasse nelle
Lezioni americane, delle «buone cose di pessimo gusto» e dell’amore
fatto per gioco, o, come avrebbe detto Paolo Pietrangeli, «anche un
po’ per noia».
Proprio la noia sembra essere stata l’asse
portante di una vita infelice, coperta da rose liberty e oggetti
kitsch. Un’esistenza passata da recluso, in luoghi lontani dalla
città e, di conseguenza, dalla vita culturale. Tutto ciò per colpa
della tisi, diagnosticata alla giovane età di ventiquattro anni. E
non bastano le lettere all’amico Carlo Vallini o le visite
dell’innamoratissima Amalia Guglielminetti per alleviare la
solitudine che traspare così nitida dai suoi versi, una condizione
che il poeta continuerà a nascondere sotto una apparente patina di
felicità:
Sono
felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno: il sogno che non
varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza
rimpianto:
appartenersi, meditare. Canto
l’esilio e la
rinuncia volontaria.
«Canto
/ l’esilio e la rinuncia volontaria»: come condensare in un verso
e mezzo la bugia di una vita intera (per quanto breve), nella quale
«l’esilio» e la «rinuncia» sono imposti dalla tubercolosi che
consuma i polmoni e stigmatizza l’ammalato quale untore.
Una
cospicua parte della critica sembra essersi fatta un’idea ben
precisa dell’uomo Gozzano: nella sua accurata biografia, pubblicata
ormai nel lontano 1983 per Rizzoli, Guido Gozzano. Vita breve di un
rispettabile bugiardo, Giorgio De Rienzo tratteggiava il ritratto di
un giovane poeta e uomo che mentiva sempre: su fatti biografici;
negli scambi epistolari; a proposito della sua poesia. Diceva bugie
con eleganza e sicurezza, al punto che non è facile capire quando vi
sia nella sue parole anche un fondo di verità. Era un bugiardo
‘rispettabile’, che sapeva sempre quando era necessario tacere e
adoperava le parole giuste in ogni situazione. È certo che nella
quotidianità Gozzano esagerasse fatti di poco conto, minimizzasse
problemi di una certa gravità, omettesse informazioni importanti e
inventasse storie mai accadute, soprattutto quando queste avevano a
che fare con la propria poesia.
Per
lungo tempo è stato incerto addirittura il luogo della sua nascita:
Torino, non Aglié Canavese, come è stato per lungo tempo creduto;
forse giustamente, perché Gozzano sembra così legato al Canavese,
dove ha trascorso la sua infanzia, che è stato facile cadere in
errore.
I lettori lo conoscono come Guido, ma in casa e agli amici
canavesani era noto come Gustavo, suo secondo nome. Per diverso tempo
si firmerà «Guido Gustavo Gozzano» – nelle epistole famigliari
rimarrà sempre tale – per poi passare alla comica sigla
«gggozzano», con la quale si firma sui numeri del 14 e del 24
dicembre de «Il Campo», e infine al telegrafico «g.g.g.».
Finalmente deciderà di essere sincero e meno estroso, almeno per
quanto riguarda la propria firma, chiamandosi con solo il suo primo
nome.
Gozzano si fregia di un titolo che non ha mai ottenuto, malgrado gli anni passati iscritto all’Università di Giurisprudenza: ‘Avvocato’. Come ‘Avv.to’ si atteggia con gli amici; con Amalia Guglielminetti e persino con l’editore Streglio. ‘Avvocato’ si fa chiamare anche dai giornalisti: ben poco onesta è l’intervista rilasciata a Pietro Arcari nel dicembre 1911 per la rivista «Prisma». Il titolo dell’articolo è proprio L’avvocato Guido Gozzano, senza ironia. Come spesso accade, il fatto biografico alimenta la fantasia poetica: l’‘Avvocato’ si trasforma ben presto in un alter ego letterario. Ne Le due strade, l’Avvocato è il terzo silente spettatore del colloquio tra Graziella e la sua insegnante («Ah! Ti presento, aspetta, l’avvocato: un amico / caro di mio marito», vv. 15-16). Ne La signorina Felicita è il finto innamorato che corteggia Felicita («E l’avvocato è qui: che pensa a te», v.12).
Una
vita di bugie: e che bugie! Le stesse menzogne leggere che fanno da
sfondo all’esistenza di Gozzano alimentano anche la sua penna: è
un mondo di fantasia quello nel quale vive, una dimensione in cui lui
è un affascinante intellettuale e poeta che seduce giovani donne per
poi spezzare loro il cuore.
È ciò che succede nella poesia Un
rimorso, dove, tra le luci soffuse della città, Guido lascia la
giovane ‘piccola attrice famosa’, così simile a Emma Gramatica:
O
il tetro Palazzo Madama…
la sera… la folla che imbruna…
Rivedo
la povera cosa,
la povera cosa che m’ama:
la tanto simile ad
una
piccola attrice famosa.
Ricordo. Sul labbro contratto
la
voce a pena s’udì:
«O Guido! Che cosa t’ho fatto
di male
per farmi così?»
«O
Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?»: una
dichiarazione di sottomissione che serve al ‘despota signore’–
così Amalia Guglielminetti chiamerà Gozzano ne Le seduzioni – per
sottolineare una mascolinità che non ha mai avuto.
Guido Gozzano
bugiardo e misogino? Apparentemente sì. Soprattutto quando si scava
nella strana relazione con Amalia Guglielminetti, alla quale è
dedicata Il gioco del silenzio.
Non
so se veramente fu vissuto
quel giorno della prima
primavera.
Ricordo – o sogno? – un prato di velluto,
ricordo
– o sogno? – un cielo che s’annera,
e il tuo sgomento e i
lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto…
Poi
la cascina rustica sul colle
e la corsa e le grida e la massaia
e
il rifugio notturno e l’ora folle
e te giuliva come una
crestaia,
e l’aurora ed i canti in mezzo all’aia
e il
ritorno in un velo di corolle…
– Parla!
– Salivi per la bella strada
primaverile, tra pescheti
rosa,
mandorli bianchi, molli di rugiada…
– Parla! –
Tacevi, rigida pensosa
della cosa carpita, della cosa
che
accade e non si sa mai come accada…
– Parla!
– seguivo l’odorosa traccia
della tua gonna… Tutto
rivedo
quel tuo sottile corpo di cinedo,
quella tua muta
corrugata faccia
che par sogni l’inganno od il congedo
e che
piacere a me par che le spiaccia…
E
ancor mi negasti la tua voce
in treno. Supplicai, chino rimasi
su
te, nel rombo ritmico e veloce…
Ti scossi, ti parlai con rudi
frasi,
ti feci male, ti percossi quasi,
e ancora mi negasti la
tua voce.
Giocosa
amica, il Tempo vola, invola
ogni promessa. Dissipò coi baci
le
tue parole tenere fugaci…
Non quel silenzio. Nel ricordo,
sola
restò la bocca che non diè parola,
I due amanti del Gioco del silenzio si rifugiano in una «cascina rustica» sulla vetta di un colle, in un «paese sconosciuto»: qui consumano il loro amore. La scena sembra la parodia di uno spot pubblicitario, in cui scorre au ralenti una lunga diapositiva piena di cliché. I due amanti, colti dal maltempo, sfuggono al temporale e dopo una corsa sfrenata si riparano in un casolare. Il ritmo incalzante della seconda strofa, che si snoda repentina grazie alla «e» anaforica di inizio verso e alla descrizione fulminea e quasi cinematografica di alcuni elementi della storia («la cascina rustica»; «la corsa»; «le grida»; «il rifugio notturno»; «l’ora folle» ecc…), si stempera con il compiersi dell’atto erotico: l’omissione di quanto avvenuto all’interno del casolare, suggerita dall’utilizzo degli eloquenti punti di sospensione, lascia maliziosamente immaginare il seguito della vicenda. La scena si apre nuovamente con l’aurora che sorge tra i canti dei contadini e il ritorno dei due amanti tra «le corolle» fiorite dei «pescheti rosa» e dei «mandorli bianchi». I fiori bagnati e sgualciti, «molli» di rugiada, brillanti al chiarore dell’aurora, sono una metafora naturale per indicare l’atto taciuto. La protagonista è silenziosa, pensa a quanto è accaduto e assume un’aria riflessiva e scorbutica nei confronti del poeta, che ironicamente utilizza una tessera petrarchesca per descrivere l’atteggiamento dell’amata: Sanguineti indica in «e che piacer a me par che le spiaccia» un richiamo di R.V.F 171, 8 «che piacere altrui par che le spiaccia». Si veda però il più forte riferimento a R.V.F 178, 7 «e ’l sommo piacer par che li spiaccia», in cui «spiaccia» è in rima con «traccia» («onde ’l vago desir perde la traccia»), rima ripresa ne Il gioco del silenzio, nella quale ricorre il trittico rimato «traccia-faccia-spiaccia».
In treno, durante il ritorno verso casa, la donna-Amalia è pensierosa e turbata da quanto avvenuto: forse si domanda se quell’incontro avrà un séguito o se si concretizzerà in una vera relazione amorosa. Sappiamo che, nella realtà, questo non avviene: i rapporti tra i due, per volere di Guido, si raffreddano. Gozzano non scrive durante i giorni successivi all’incontro avvenuto nella poesia e risponde, in ritardo, a una lettera di Amalia, rievocando il convegno come un avvenimento che fa ormai parte del passato e lasciando intendere che, se ci saranno altri incontri, saranno velati di fraternità affettuosa e priva di erotismo. È la fine della storia d’amore tra i due, l’unica che Gozzano abbia mai avuto: il sigillo definitivo di una vita passata nella solitudine, addolcita dai molli e splendidi versi di un poeta che ha inneggiato alla vita leggera, all’amore senza impegno e alla goduria epicurea di un benessere che, lui per primo, non hai mai provato.
9 agosto 1916 moriva Guido Gozzano, uno dei poeti più amati, ma
anche più negletti: l’autore da recita scolastica, da bigliettino
d’auguri, così caro alla tradizione popolare e allo stesso tempo
così poco considerato dai critici di poesia. Gozzano è stato il
cantore della leggerezza ben prima che Calvino la teorizzasse nelle
Lezioni americane, delle «buone cose di pessimo gusto» e dell’amore
fatto per gioco, o, come avrebbe detto Paolo Pietrangeli, «anche un
po’ per noia».
Proprio la noia sembra essere stata l’asse
portante di una vita infelice, coperta da rose liberty e oggetti
kitsch. Un’esistenza passata da recluso, in luoghi lontani dalla
città e, di conseguenza, dalla vita culturale. Tutto ciò per colpa
della tisi, diagnosticata alla giovane età di ventiquattro anni. E
non bastano le lettere all’amico Carlo Vallini o le visite
dell’innamoratissima Amalia Guglielminetti per alleviare la
solitudine che traspare così nitida dai suoi versi, una condizione
che il poeta continuerà a nascondere sotto una apparente patina di
felicità:
Sono
felice. La mia vita è tanto
pari al mio sogno: il sogno che non
varia:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza
rimpianto:
appartenersi, meditare. Canto
l’esilio e la
rinuncia volontaria.
«Canto
/ l’esilio e la rinuncia volontaria»: come condensare in un verso
e mezzo la bugia di una vita intera (per quanto breve), nella quale
«l’esilio» e la «rinuncia» sono imposti dalla tubercolosi che
consuma i polmoni e stigmatizza l’ammalato quale untore.
Una
cospicua parte della critica sembra essersi fatta un’idea ben
precisa dell’uomo Gozzano: nella sua accurata biografia, pubblicata
ormai nel lontano 1983 per Rizzoli, Guido Gozzano. Vita breve di un
rispettabile bugiardo, Giorgio De Rienzo tratteggiava il ritratto di
un giovane poeta e uomo che mentiva sempre: su fatti biografici;
negli scambi epistolari; a proposito della sua poesia. Diceva bugie
con eleganza e sicurezza, al punto che non è facile capire quando vi
sia nella sue parole anche un fondo di verità. Era un bugiardo
‘rispettabile’, che sapeva sempre quando era necessario tacere e
adoperava le parole giuste in ogni situazione. È certo che nella
quotidianità Gozzano esagerasse fatti di poco conto, minimizzasse
problemi di una certa gravità, omettesse informazioni importanti e
inventasse storie mai accadute, soprattutto quando queste avevano a
che fare con la propria poesia.
Per
lungo tempo è stato incerto addirittura il luogo della sua nascita:
Torino, non Aglié Canavese, come è stato per lungo tempo creduto;
forse giustamente, perché Gozzano sembra così legato al Canavese,
dove ha trascorso la sua infanzia, che è stato facile cadere in
errore.
I lettori lo conoscono come Guido, ma in casa e agli amici
canavesani era noto come Gustavo, suo secondo nome. Per diverso tempo
si firmerà «Guido Gustavo Gozzano» – nelle epistole famigliari
rimarrà sempre tale – per poi passare alla comica sigla
«gggozzano», con la quale si firma sui numeri del 14 e del 24
dicembre de «Il Campo», e infine al telegrafico «g.g.g.».
Finalmente deciderà di essere sincero e meno estroso, almeno per
quanto riguarda la propria firma, chiamandosi con solo il suo primo
nome.
Gozzano si fregia di un titolo che non ha mai ottenuto, malgrado gli anni passati iscritto all’Università di Giurisprudenza: ‘Avvocato’. Come ‘Avv.to’ si atteggia con gli amici; con Amalia Guglielminetti e persino con l’editore Streglio. ‘Avvocato’ si fa chiamare anche dai giornalisti: ben poco onesta è l’intervista rilasciata a Pietro Arcari nel dicembre 1911 per la rivista «Prisma». Il titolo dell’articolo è proprio L’avvocato Guido Gozzano, senza ironia. Come spesso accade, il fatto biografico alimenta la fantasia poetica: l’‘Avvocato’ si trasforma ben presto in un alter ego letterario. Ne Le due strade, l’Avvocato è il terzo silente spettatore del colloquio tra Graziella e la sua insegnante («Ah! Ti presento, aspetta, l’avvocato: un amico / caro di mio marito», vv. 15-16). Ne La signorina Felicita è il finto innamorato che corteggia Felicita («E l’avvocato è qui: che pensa a te», v.12).
Una
vita di bugie: e che bugie! Le stesse menzogne leggere che fanno da
sfondo all’esistenza di Gozzano alimentano anche la sua penna: è
un mondo di fantasia quello nel quale vive, una dimensione in cui lui
è un affascinante intellettuale e poeta che seduce giovani donne per
poi spezzare loro il cuore.
È ciò che succede nella poesia Un
rimorso, dove, tra le luci soffuse della città, Guido lascia la
giovane ‘piccola attrice famosa’, così simile a Emma Gramatica:
O
il tetro Palazzo Madama…
la sera… la folla che imbruna…
Rivedo
la povera cosa,
la povera cosa che m’ama:
la tanto simile ad
una
piccola attrice famosa.
Ricordo. Sul labbro contratto
la
voce a pena s’udì:
«O Guido! Che cosa t’ho fatto
di male
per farmi così?»
«O
Guido! Che cosa t’ho fatto / di male per farmi così?»: una
dichiarazione di sottomissione che serve al ‘despota signore’–
così Amalia Guglielminetti chiamerà Gozzano ne Le seduzioni – per
sottolineare una mascolinità che non ha mai avuto.
Guido Gozzano
bugiardo e misogino? Apparentemente sì. Soprattutto quando si scava
nella strana relazione con Amalia Guglielminetti, alla quale è
dedicata Il gioco del silenzio.
Non
so se veramente fu vissuto
quel giorno della prima
primavera.
Ricordo – o sogno? – un prato di velluto,
ricordo
– o sogno? – un cielo che s’annera,
e il tuo sgomento e i
lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto…
Poi
la cascina rustica sul colle
e la corsa e le grida e la massaia
e
il rifugio notturno e l’ora folle
e te giuliva come una
crestaia,
e l’aurora ed i canti in mezzo all’aia
e il
ritorno in un velo di corolle…
– Parla!
– Salivi per la bella strada
primaverile, tra pescheti
rosa,
mandorli bianchi, molli di rugiada…
– Parla! –
Tacevi, rigida pensosa
della cosa carpita, della cosa
che
accade e non si sa mai come accada…
– Parla!
– seguivo l’odorosa traccia
della tua gonna… Tutto
rivedo
quel tuo sottile corpo di cinedo,
quella tua muta
corrugata faccia
che par sogni l’inganno od il congedo
e che
piacere a me par che le spiaccia…
E
ancor mi negasti la tua voce
in treno. Supplicai, chino rimasi
su
te, nel rombo ritmico e veloce…
Ti scossi, ti parlai con rudi
frasi,
ti feci male, ti percossi quasi,
e ancora mi negasti la
tua voce.
Giocosa
amica, il Tempo vola, invola
ogni promessa. Dissipò coi baci
le
tue parole tenere fugaci…
Non quel silenzio. Nel ricordo,
sola
restò la bocca che non diè parola,
I due amanti del Gioco del silenzio si rifugiano in una «cascina rustica» sulla vetta di un colle, in un «paese sconosciuto»: qui consumano il loro amore. La scena sembra la parodia di uno spot pubblicitario, in cui scorre au ralenti una lunga diapositiva piena di cliché. I due amanti, colti dal maltempo, sfuggono al temporale e dopo una corsa sfrenata si riparano in un casolare. Il ritmo incalzante della seconda strofa, che si snoda repentina grazie alla «e» anaforica di inizio verso e alla descrizione fulminea e quasi cinematografica di alcuni elementi della storia («la cascina rustica»; «la corsa»; «le grida»; «il rifugio notturno»; «l’ora folle» ecc…), si stempera con il compiersi dell’atto erotico: l’omissione di quanto avvenuto all’interno del casolare, suggerita dall’utilizzo degli eloquenti punti di sospensione, lascia maliziosamente immaginare il seguito della vicenda. La scena si apre nuovamente con l’aurora che sorge tra i canti dei contadini e il ritorno dei due amanti tra «le corolle» fiorite dei «pescheti rosa» e dei «mandorli bianchi». I fiori bagnati e sgualciti, «molli» di rugiada, brillanti al chiarore dell’aurora, sono una metafora naturale per indicare l’atto taciuto. La protagonista è silenziosa, pensa a quanto è accaduto e assume un’aria riflessiva e scorbutica nei confronti del poeta, che ironicamente utilizza una tessera petrarchesca per descrivere l’atteggiamento dell’amata: Sanguineti indica in «e che piacer a me par che le spiaccia» un richiamo di R.V.F 171, 8 «che piacere altrui par che le spiaccia». Si veda però il più forte riferimento a R.V.F 178, 7 «e ’l sommo piacer par che li spiaccia», in cui «spiaccia» è in rima con «traccia» («onde ’l vago desir perde la traccia»), rima ripresa ne Il gioco del silenzio, nella quale ricorre il trittico rimato «traccia-faccia-spiaccia».
In treno, durante il ritorno verso casa, la donna-Amalia è pensierosa e turbata da quanto avvenuto: forse si domanda se quell’incontro avrà un séguito o se si concretizzerà in una vera relazione amorosa. Sappiamo che, nella realtà, questo non avviene: i rapporti tra i due, per volere di Guido, si raffreddano. Gozzano non scrive durante i giorni successivi all’incontro avvenuto nella poesia e risponde, in ritardo, a una lettera di Amalia, rievocando il convegno come un avvenimento che fa ormai parte del passato e lasciando intendere che, se ci saranno altri incontri, saranno velati di fraternità affettuosa e priva di erotismo. È la fine della storia d’amore tra i due, l’unica che Gozzano abbia mai avuto: il sigillo definitivo di una vita passata nella solitudine, addolcita dai molli e splendidi versi di un poeta che ha inneggiato alla vita leggera, all’amore senza impegno e alla goduria epicurea di un benessere che, lui per primo, non hai mai provato.
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