26 agosto 2022

E. DE MARTINO e C. GALLINI: INTERPRETARE LE INTERPRETAZIONI

 


I DE MARTINO DELLA GALLINI (1995)

 

INTERPRETAZIONI DEMARTINIANE

Clara Gallini (1931-2017) insigne antropologa italiana, formatasi con Ernesto de Martino, viene intervistata da Federico De Melis nel 1995 per Il Manifesto. Nessuno può considerarsi "vestale" di un pensiero così complesso come quello dell'etnologo partenopeo, tra l'altro stimolato da diverse sensibilità culturali (storicismo crociano, esistenzialismo, marxismo, l'incrocio tra ontologia e antropologia). Non esiste un'"ortodossia" demartiniana, ma c'è semmai la necessità di renderlo attuale nell'interpretazione del presente e della sua possibile trasformazione e non un ‘balocco accademico’. Leggendo l'intervista, appare chiaro che anche le interpretazioni della Gallini (esempio piuttosto noto le due introduzioni scritte per l'edizione 1977 de "La fine del mondo" e del 2002 sempre per Einaudi) sono diverse relativamente alle varie fasi di studio e ricerca attraversate. - fe.d.

 

dall’Archivio storico de Il Manifesto, 24.05.1995 a firma Federico De Melis 

 

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1995008606

 

I DE MARTINO DELLA GALLINI (1995)

Ernesto de Martino, un padre rimosso 

La sinistra doveva riflettere sulla sua moderna lezione, invece che inseguire le mode come Lévi-Strauss 

FEDERICO DE MELIS intervista Clara Gallini

S IAMO VENUTI a trovare l'antropologa Clara Gallini, nella sua casa all'Esquilino, per parlare con lei di Ernesto de Martino, della fecondità della sua lezione, dimenticata o travisata o addirittura banalizzata. E' così? le chiediamo mentre cerca di distrarre i suoi amati gatti con buoni argomenti alimentari. "Sì - esordisce sullo sfondo di una corrusca e secca tela seicentesca, dove un san Giovanni dà la comunione a Maria - possiamo dirlo: la sinistra non ha colto, con lui, l'occasione di un serio, profondo ripensamento metodologico, ed ha finito per buttarsi tra le braccia di mode culturali del momento, venute dall'esterno: come Lévi-Strauss negli anni sessanta, ora gli interpretativisti... Diceva de Martino: se non ti crei le tue memorie, il passato torna come cattivo passato. E d'altra parte insegnava che la fedeltà alla propria cultura è possibile solo attraverso il confronto, il rapporto con l'altro. Non s'è voluto capire". L'occasione di questo incontro è a suo modo eccezionale: l'inizio della pubblicazione in edizione critica, da parte di una piccola casa editrice leccese di nome Argo, di una serie di opere, edite e inedite, di Ernesto de Martino. Le prime due, di imminente pubblicazione, sono: Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di Marcello Massenzio, e Note di campo. La 'spedizione etnologica' in Lucania (1952), a cura della stessa Clara Gallini.

Cominciamo dal travisamento del pensiero demartiniano.

Come ogni pensiero forte, esso si presta al saccheggio ideologico. Nonostante la sua indubbia tenuta sul piano filologico, è possibile cavarne parti funzionali a una prospettiva ideologica o politica del momento, rendendolo inerte. Esso è invece un pensiero teso all'unità delle diverse tematiche che esplora. Lo schematico ripensamento che se ne è fatto negli anni settanta tuttora nuoce a de Martino: il quale ne è uscito come un meridionalista che teorizza una rigida dialettica e alterità tra culture egemoniche e culture subalterne. Questo approccio ideologizzante e riduzionistico ha finito per travisare il significato profondo dell'opera demartiniana: nella quale è vero che si riflette la gramsciana dialettica tra alto e basso, e in essa l'articolarsi delle culture in termini di potere - prospettiva di cui, detto per inciso, rifiuto l'attuale cancellazione -, ma questa dialettica si realizza attraverso sfumature, articolazioni, ibridazioni che ne mutano sostanzialmente la natura e ne fanno la grande modernità.

In che senso ne fanno la modernità?

Premessa l'idea, contestabile, di de Martino secondo cui le madonnine che piangono dovrebbero scomparire, e se non succede è perché la ragione occidentale non è abbastanza forte e unificante, non è questo che gli interessa in particolare. Nella sua trilogia del sud - Morte e pianto ritualeSud e magiaLa terra del rimorso - egli studia degli "istituti culturali", degli insiemi di quelle che oggi chiameremmo "pratiche simboliche", nelle comunità tradizionali, evidenziandone gli infiniti raccordi con la cultura cosiddetta alta, e le compromissioni, e le ibridazioni: per cui tra magia e religione ci sono infinite possibilità di passaggio. Un esempio: durante il medioevo il modello elaborato dal cristianesimo per contenere la morte non è sufficiente, per cui deve integrare elementi pagani: ecco allora, nelle sacre rappresentazioni, la madonna in veste di lamentatrice.

Un tessuto magico

Un altro esempio è la jettatura: per de Martino essa nasce all'interno di ceti intellettuali, che tentano una mediazione tra approccio razionalistico e approccio magico-simbolico. Queste forme intermedie costituiscono una trama, un tessuto così forte, da rendere del tutto infondata l'idea della magia come esperienza isolata, separata, rispetto alla religione cattolica. A seconda dei momenti, delle necessità, tra le quali vanno comprese le "strategie" della chiesa, si creano queste forme instabili e complesse che si legano le une alle altre in una catena infinita. E' su questa base che de Martino poneva critiche a Gramsci: per lui la cultura popolare non è un amalgama indigesto e residuale ma si collega con quel che le sta sopra. Niente di più distante da de Martino, dunque, del discorso pasoliniano sull'omologazione culturale.

E questa prospettiva demartiniana quali orizzonti apre sull'oggi?

Oggi, per altre strade, nell'antropologia si va affacciando l'interesse per i processi di cosiddetto meticciato culturale. Venendo meno l'idea gramsciana - che non aveva de Martino - di un forte nucleo culturale egemonico e di culture altre fortemente chiuse in se stesse, si è molto attenti alla costruzione di nuovi sensi che i soggetti danno alle cose utilizzando equalmente il bagaglio tradizionale e quello della modernità. Il "meticciato culturale" presuppone l'attività del soggetto dominato, il quale, dice de Martino, risponde alle sollecitazioni dall'alto con gli strumenti suoi propri, trasformandole. Bisogna avere sempre presente questo elemento, per scongiurare la falsa immagine dell'imperialismo culturale che arriva e tutto cancella. Nondimeno de Martino pensa che un certo mondo deve finire: il mondo della magia, in quanto realtà dell'angoscia e della dipendenza.

E' falsa dunque, per de Martino, l'idea delle culture tradizionali che "resistono" o che "scompaiono".

E' totalmente falsa. Eppure si è voluto vedere in lui il teorico delle culture di "contestazione". Con de Martino siamo agli antipodi del culto assai pericoloso di un certo filone indigenista che vuole le culture "altre" stoicamente resistenti alla modernità. Insieme alla resistenza nelle culture tradizionali c'è fluidità, abbandono, compromesso: ciò che fa la vita quotidiana di tutti.

E qual è di conseguenza la sua posizione nei confronti del "relativismo culturale", l'idea che ciascuna cultura debba essere compresa e giudicata attraverso i suoi propri metri, oggi rilanciato dal 'politically correct'?

Già alla fine degli anni quaranta de Martino era assolutamente contrario al relativismo culturale, che poi si sarebbe imposto come moda intellettuale. Egli lo riteneva un frutto del tardo capitalismo, laddove assolutizza ciascuna cultura, chiudendola al confronto con le altre.

Un'altra immagine di de Martino è lo studioso scisso tra richiami irrazionalisti e adesione al marxismo.

Quest'immagine ha elementi di realtà non confutabili, anche se bisogna un poco correggerla, tuttavia senza tante speranze di risolverla. Non c'è tanto un'antinomia tra marxismo e irrazionalismo, quanto un'antinomia, che si propone come viva contraddizione, tra ragione e irrazionalismo. De Martino non risparmiava critiche alla "svalutazione" del mondo magico operata dal marxismo. E d'altro canto nella Fine del mondo non indugia a inserire il marxismo tra le "apocalissi culturali", sottolineandone la carica utopistica. Già alla fine degli anni quaranta postulava una relativa autonomia del simbolico e del culturale, con critiche precise al rapporto meccanico che il marxismo allora dominante stabiliva tra struttura e sovrastruttura.

S'è rilevato tuttavia che in de Martino queste critiche di metodo non erano del tutto consequenziali sul piano politico.

Però sono le critiche che alla lunga avrebbero determinato la sua rottura col partito comunista, il cui atteggiamento va a sua volta visto con più ponderazione. Dai taccuini della prima ricerca sul campo in Lucania, che oggi pubblichiamo, sono uscite, da questo punto di vista, cose estremamente interessanti: come il fatto che essa fu in buona parte finanziata dal Pci e dalla Cgil. Nello stesso anno in cui Togliatti si scagliava contro gli intellettuali che scrivevano poesie sull'amore pederastico "attivo o passivo", o contro i rischi di irrazionalismo connessi alle ricerche sulla stregoneria, sia Alicata che Di Vittorio mostravano una diversa apertura. Anche il Pci, dunque, non va visto come un corpo monolitico, era attraversato da una certa dialettica interna. Il punto di crisi era laddove de Martino puntava a sovrapporre a una visione politica in senso stretto una visione culturale: e oggi vediamo quanto fosse lungimirante.

Affrontiamo ora l'altro corno del problema: l'irrazionalismo. Nel 1991 Pietro Angelini ha curato per Bollati Boringhieri l'epistolario tra Ernesto de Martino e Cesare Pavese intorno alla "Collana viola" di Einaudi, con cui subito dopo la guerra si volevano portare da noi i grandi testi dell'antropologia e mitologia europee, tra cui non mancavano "classici" dell'irrazionalismo, da Kerényi ad Eliade. Tra i due curatori v'è una specie di tira e molla, con Pavese immerso senza remore nella magia e de Martino più attento ai suoi interessi di studioso, e in una certa misura interprete, per altro, delle esigenze "didattiche" della casa editrice, fortemente influenzata dal Pci: il quale era preoccupato dall'introduzione in Italia, dopo l'ecatombe nazista, di opere in cui vedeva la "distruzione della ragione". Con una parte di sé de Martino sembra condividere, però, il culto di Pavese.

De Martino ebbe una grande attenzione, che sfociava nell'attrazione, per alcune correnti irrazionaliste del pensiero europeo. Non ne rimase inviaschiato, ma semplicemente le usò. Criticava fortemente nei pensatori irrazionalisti - a cominciare da Rudoplh Otto - la propensione a considerare il simbolico come una fenomenologia del sacro, a sua volta considerato come una categoria ontologica, autosufficiente, esterna alla storia. E' una posizione che si ravvisa tuttora, per esempio in Italia nelle speculazioni di Elemire Zolla. Per de Martino tuttavia questi pensatori portavano il nuovo, attraverso cui riformulare in modo originale le proprie categorie.

E parlo soprattutto delle categorie teoriche. E' molto sintomatica, in questo senso, la sua disattenzione verso i funzionalisti inglesi, che risolvono nella relazione sociale la dimensione del simbolico, per cui, brutalmente, se credi nella stregoneria è perché hai dei cattivi rapporti con la suocera. Questa disattenzione costò a de Martino non poche critiche. Anch'io ne ero perplessa ma più vado avanti negli anni più ne capisco le ragioni profonde. Certo, de Martino teneva fuori, così, un problema di ampia portata come quello dell'articolarsi complesso del rapporto tra soggetto e sue rappresentazioni. Ma la sua scelta - che era di affinare la conoscenza dei meccanismi del simbolico - lo conduceva altrove.

Infine, come leggere oggi 'La fine del mondo', opera ultima pubblicata postuma nel '77 dove, come lei scrisse nell'introduzione, "oramai Gramsci cede il posto ad Heidegger"? Il problema di de Martino è a questo punto l'"esserci", al di qua di ogni specifica sociale o culturale. E' qualcosa di totalmente alieno, come è stato scritto, dal de Martino precedente?

C'è sia continuità sia rottura. Quando scrissi l'introduzione a La fine del mondo avevo non poche resistenze, teoriche e politiche, nel constatarne l'assenza della dialettica gramsciana egemonia-subalternità, cioè di una prospettiva di classe, a favore della centralità del dualismo crisi-reintegrazione rispetto a un universo sociale o culturale indicato come "mondo". Non si può dire peraltro che quest'opera spunti come un fungo. C'è una continuità di pensiero in relazione soprattutto al Mondo magico, che aveva visto la luce nel '48: a sostanziarla è il preminente interesse verso la dimensione epistemologica. Le modalità attraverso cui si forma il pensiero simbolico, e va fortemente a collidere, come riteneva de Martino, col cosiddetto pensiero razionale, oggi suscitano peraltro uno stimolante ripensamento della sua opera in campo antropologico, filosofico e storico, che rapporta de Martino ad alcune grandi correnti del pensiero europeo, come ha messo bene in luce Marcello Massenzio. Nella Fine del mondo de Martino prova, poi, a misurare la tematica del simbolico con la varietà del reale e con la dimensione del potere, non sempre riuscendo persuasivo. Il suo era il tentativo di ricostruire un'organicità che va dal vitale all'economico, dal simbolico al razionale, sia sul piano d'una riflessione astratta sia su quello della verifica concreta: un tentativo titanico, prometeico, tutto suo nel bene e nel male. Però sarebbe stato molto più facile ripensare le nostre categorie, le nostre bandiere, se più per tempo si fosse assunta l'importanza, che de Martino ravvisa prima di tutti e già nel Mondo magico, del piano simbolico in quanto piano della realtà.


Articolo ripreso da https://ferdinandodubla.blogspot.com/2022/08/i-de-martino-della-gallini-1995.

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