“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
24 luglio 2015
I DANNATI DELLA TERRA DI F. FANON
Il 20 luglio 2015, Frantz Fanon avrebbe compiuto 90 anni. Lo ricordiamo con le conclusioni de “I dannati della terra”, che risuonano in modo profetico.
Su, compagni, è meglio decidere fin da ora di cambiar sponda. La grande notte nella quale fummo immersi, dobbiamo scuoterla e venirne fuori. Il giorno nuovo che già si leva deve trovarci fermi, preparati e risoluti.
Dobbiamo lasciar stare i nostri sogni, abbandonare le vecchie credenze e le amicizie di prima della vita. Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli. Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo.
Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione degli altri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che in nome d’una pretesa «avventura spirituale» soffoca la quasi totalità dell’umanità. Guardatela oggi altalenare tra la disintegrazione atomica e la disintegrazione spirituale.
Eppure, a casa sua, sul piano delle realizzazioni si può dire che è riuscita in tutto.
L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si stende e si moltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha fatto scoppiare i limiti dello spazio e quelli del pensiero. L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia, ma anche ad ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza.
Non si è mostrata parsimoniosa se non con l’uomo, gretta, carnivora, omicida se non con l’uomo.
Allora, fratelli, come non capire che abbiamo altro da fare che seguire quell’Europa.
Quell’Europa che non smise mai di parlare dell’uomo, di proclamare che non era preoccupata se non dell’uomo, noi sappiamo oggi con quali sofferenze l’umanità ha pagato ciascuna delle vittorie del suo spirito.
Allora, compagni, il gioco europeo è definitivamente terminato, bisogna trovare altro. Possiamo far tutto, oggi, a condizione di non imitare l’Europa, a condizione di non essere ossessionati dal desiderio di raggiungere l’Europa.
L’Europa ha acquisito una tale velocità, pazza e disordinata, che sfugge oggi a qualunque guidatore, a qualunque ragione e va in vertigine spaventosa verso abissi da cui è meglio allontanarsi il più rapidamente possibile.
E’ pur vero, tuttavia, che ci occorre un modello, degli schemi, degli esempi. Per molti di noi, il modello europeo è il più esaltante. Ora, si è visto nelle pagine precedenti a quali disdette ci portava questa imitazione. Le realizzazioni europee, la tecnica europea, lo stile europeo, devono cessare di tentarci e di squilibrarci.
Quando io cerco l’uomo nella tecnica e nello stile europei, vedo un susseguirsi di negazioni dell’uomo, una valanga di assassini.
La condizione umana, i progetti dell’uomo, la collaborazione tra gli uomini per mansioni che aumentano la totalità dell’uomo, son problemi nuovi che esigono vere invenzioni.
Decidiamo di non imitare l’Europa e tendiamo i nostri muscoli e i nostri cervelli in una direzione nuova. Cerchiamo d’inventare l’uomo totale che l’Europa è stata incapace di far trionfare.
Due secoli fa, un’ex colonia europea si è messa in testa di colmare il ritardo con l’Europa. Vi è così ben riuscita che gli Stati Uniti d’America son diventati un mostro in cui le tare, le malattie e l’inumanità dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose.
Compagni, non abbiamo dunque altro da fare che creare una terza Europa? L’Occidente ha voluto essere un’avventura dello Spirito. E’ in nome dello Spirito, dello spirito europeo si capisce, che l’Europa ha giustificato i suoi crimini e legittimato la schiavitù in cui teneva i quattro quinti dell’umanità.
Sì, lo spirito europeo ha avuto singolari fondamenti. Tutta la riflessione europea si è svolta in luoghi sempre più deserti, sempre più dirupati. Si è presa così l’abitudine d’incontrare sempre meno l’uomo.
Un dialogo permanente con se stessi, un narcissismo sempre più osceno non hanno cessato di preparare il letto a un semidelirio in cui il lavoro cerebrale diventa una sofferenza, non essendo le realtà per nulla quelle dell’uomo che vive, lavora e si fabbrica, ma parole, accozzamenti diversi di parole, le tensioni nate dai significati contenuti nelle parole. Si sono tuttavia trovati europei per invitare i lavoratori europei a spezzare questo narcissismo e rompere con questa srealizzazione.
In linea generale, i lavoratori europei non hanno risposto a quegli appelli. Il fatto è che i lavoratori si sono creduti, anch’essi, interessati dall’avventura prodigiosa dello Spirito europeo.
Tutti gli elementi d’una soluzione ai grandi problemi dell’umanità sono, in momenti diversi, esistiti nel pensiero dell’Europa. Ma l’azione degli uomini europei non ha realizzato la missione che le spettava e consisteva nel premere con violenza su quegli elementi, nel modificarne l’ordinamento, l’essere, nel mutarli, infine nel portare il problema dell’uomo a un livello incomparabilmente superiore.
Oggi, assistiamo a una stasi dell’Europa. Fuggiamo, compagni, quel movimento immobile in cui la dialettica, a poco a poco, si è mutata in logica dell’equilibrio. Riprendiamo la questione dell’uomo. Riprendiamo la questione della realtà cerebrale, della massa cerebrale di tutta l’umanità di cui occorre moltiplicare le connessioni, diversificare i reticoli e riumanizzare i messaggi.
Su, fratelli, abbiamo veramente troppo lavoro per trastullarci con giochi di retroguardia. L’Europa ha fatto quel che doveva fare e tutto sommato lo ha fatto bene; smettiamo di accusarla, ma diciamole fermamente che non deve più continuare a far tanto rumore. Non abbiamo più da temerla, cessiamo dunque d’invidiarla. Il Terzo Mondo è oggi di fronte all’Europa come una massa colossale il cui intento deve essere quello di cercare di risolvere i problemi ai quali quest’Europa non ha saputo recare soluzioni.
Ma allora, importa di non parlare di rendimento, di non parlare d’intensificazione, di non parlare di ritmi. No, non si tratta di ritorno alla Natura. Si tratta molto concretamente di non tirare gli uomini in direzioni che li mutilano, di non imporre al cervello ritmi che rapidamente l’ostruiscono e lo guastano. Non bisogna, sotto pretesto di colmare il distacco, malmenare l’uomo, strapparlo a se stesso, alla sua intimità, spezzarlo, ucciderlo.
No, noi non vogliamo raggiungere nessuno. Ma vogliamo camminare sempre, notte e giorno, in compagnia dell’uomo, di tutti gli uomini. Si tratta di non allungare la carovana, poiché, allora, ogni fila percepisce appena quella che la precede e gli uomini non si riconoscono più, si incontrano sempre meno, si parlano sempre meno.
Si tratta, per il Terzo Mondo, di ricominciare una storia dell’uomo che tenga conto al tempo stesso delle tesi a volte prodigiose sostenute dall’Europa, ma anche dei delitti dell’Europa, di cui il più efferato sarà stato, in seno all’uomo, lo squarcio patologico delle sue funzioni e lo sbriciolamento della sua unità; nel quadro d’una collettività, la rottura, la stratificazione, le tensioni sanguinose alimentate da classi; infine, alla scala immensa dell’umanità, gli odi razziali, la schiavitù, lo sfruttamento e soprattutto il genocidio esangue costituito dall’aver messo da parte un miliardo e mezzo di uomini.
Dunque, compagni, non paghiamo tributo all’Europa creando Stati, istituzioni e società che se ne ispirano. L’umanità aspetta altro da noi che quest’imitazione caricaturale e nell’insieme oscena.
Se vogliamo trasformare l’Africa in una nuova Europa, l’America in una nuova Europa, allora affidiamo ad europei le sorti dei nostri paesi. Sapranno farci meglio che i meglio dotati tra noi.
Ma se vogliamo che l’umanità avanzi d’un grado, se vogliamo portarla a un livello diverso da quello in cui l’Europa l’ha manifestata, allora occorre inventare, occorre scoprire.
Se vogliamo rispondere all’attesa dei nostri popoli, bisogna cercare altrove che non in Europa.
Inoltre, se vogliamo rispondere all’attesa degli europei, non bisogna rinviare loro un’immagine, anche ideale, della loro società o del loro pensiero per i quali essi provano saltuariamente un’immensa nausea.
Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna rinnovarsi, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di metter su un uomo nuovo.
Frantz Fanon
MARIA MESSINA, la timida corrispondente di G. Verga
Maria Messina : una scrittrice dimenticata e da poco riscoperta.
Giuseppina Bosco
Maria
Messina è una donna che ha trovato nella scrittura uno strumento per esprimere
la sua vocazione narrativa e la sua
grande sensibilità.
Nasce nel 1887 ad Alimena, uno sperduto paese
della Sicilia in provincia di Palermo. Il padre Gaetano era un maestro
elementare, la madre Gaetana Valenza Traiana apparteneva ad una famiglia
baronale e, come era consuetudine in quel tempo, ricevette un’educazione
domestica e da autodidatta iniziando a formarsi come scrittrice a partire dalla
narrativa moderna leggendo gli scrittori
realisti russi quali Turghenev e Cecov.
Esordisce
con la raccolta “Piccoli gorghi” inserendosi in quel filone narrativo verista
inaugurato da scrittori siciliani quali Capuana, Verga, De Roberto. Ma di lei
nelle antologie scolastiche non c’è traccia. Un tentativo di riconoscimento
sarà l’inserimento negli atti del convegno “Letteratura siciliana al femminile,
donne scrittrici, donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà, docente
dell’università di Magistero di Catania, e la pubblicazione da parte della casa
editrice Sellerio di Palermo di tutti i romanzi e le novelle della scrittrice,
tradotte in diverse lingue e perciò conosciuta all’estero oltre alle iniziative culturali, che la città di Mistretta le ha
tributato. Diversi sono stati a partire
dagli anni Ottanta gli studi critici su tutta la sua produzione letteraria, di
cui sono stati approfonditi alcuni
nuclei tematici, soprattutto in un recente studio di Maria Serena Sapegno,
quali il rapporto tra società patriarcale e condizione femminile, coscienza
della condizione marginale della donna e desiderio di libertà, costruzione di
un’identità sociale. 2
L’esordio
letterario di Maria Messina è legato ad alcune novelle ambientate a Mistretta
,dove il padre si era trasferito nell’estate del 1903, per cui la scrittrice
dovette abbandonare la città di Palermo per quel paese di provincia e nella
novelle “L’ideale infranto” e “Sotto tutela” si
può scorgere il disagio della scrittrice per un ambiente paesano privo di stimoli culturali: non arrivavano i
giornali, non c’erano biblioteche, teatri, ecc... quasi a sottolineare la sua insofferenza per quel mondo popolato
oltre che da persone umili, da figure femminili silenziose e rese schiave da una cultura maschilista
dominante; nella raccolta di novelle “Pettini fini” (pubblicato per la prima
volta nel 1909), Maria Messina ci offre
così un affresco del paese di Mistretta
con i suoi umili protagonisti, i loro vissuti, le vie del paese in cui
si rivela l’attaccamento alla scuola verista e il canone dell’impersonalità. Difatti
Giovanni Verga ne ricevette una copia dall’autrice in quanto egli rappresentava
una “guida sicura, un padre da cui ricevere insegnamento e protezione”3
[…] e da quel momento ha inizio una corrispondenza col grande scrittore
catanese che durerà una decina d’anni. In una di queste lettere la timida Maria scriverà: "Le parole buone che mi ha detto mi
hanno sostenuta nelle ore più amare. Il suo ritratto è stato il mio
conforto".
Nei primi anni del Novecento la scrittrice si trasferisce ad Ascoli Piceno
perchè il padre era stato nominato ispettore scolastico. Questo è il periodo in
cui dalle novelle rusticane la scrittrice passa a quelle di ambientazione
borghese.
Nelle successive raccolte di novelle, Le
briciole del destino (1918), Il
guinzaglio (1921) e Ragazze
siciliane (1921), il verismo di Maria Messina comincia a spostarsi dal mondo rusticano dei "
vinti" all’analisi della piccola borghesia. Ma i "vinti" sono
per lo più le donne,le quali "non posseggono la forza di offendere né
quella di difendersi" : sia nella condizione di mogli recluse
tra le mura domestiche sia in quella di nubili che sprecano le loro esistenze sacrificandosi per gli altri e consumando la
propria giovinezza tra fatiche e lavoro.
Emblematico è il racconto
"Casa paterna”6 , in cui si rivela una
struttura compositiva più matura, per un abile gioco di architettura letteraria
di trama e di intreccio. La protagonista,
Vanna, è una giovane siciliana sposata da poco tempo ad un avvocato
romano, la quale ritorna alla casa paterna, dopo aver deciso di lasciare il
marito e la città in cui vivono, perché non sopporta la solitudine e
l’indifferenza sia della grande città che del marito stesso.
Mentre il viaggio si sta concludendo, è sopraffatta dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, rievoca le speranze ed i progetti, ritorna a quel nido pensando di ritrovare la stessa pace e lo stesso amore di allora: tante cose però sono ormai cambiate, i fratelli sono sposati, e le cognate non accettano la vergogna che lei porta in famiglia perché ha osato separarsi dal marito e nemmeno il padre e la madre - ormai succubi delle nuore - possono più aiutarla e pertanto l’epilogo sarà tragico.Fa parte della raccolta Le Briciole del destino anche la novella “L’ora che passa”. La protagonista è Rosalia, maestra elementare che sacrifica se stessa per la cura della famiglia, la quale si trova in condizioni economiche disagiate. Non riesce ad uscire dal “carcere” del suo ruolo, dalla non- vita. Questa estraneità a se stessa rispetto a quella parte di sé che avrebbe voluto vivere ed amare, invece, di guardarsi vivere, sembra riecheggiare il personaggio di Adriano Meis - Pascal, di Luigi Pirandello, meno giocato però sull’assurdità delle situazione, sul grottesco e sul sottile ragionamento, e in ciò si rivela l’originalità e la linearità dell’arte narrativa di Maria Messina. Non a caso Leonardo Sciascia, in una nota critica, l’ accosta alla grande scrittrice inglese Katrin Mansfield definendola una “Mansfield siciliana”, forse perché Maria Messina ,al pari della Mansfield ,riesce a rappresentare con poche immagini un universo femminile succube dell’egoismo e del degrado morale di una società maschilista e sa descrivere con brevi squarci momenti di vita quotidiana e stati d’animo femminili, resi da una struttura sintattica semplice e con diversi ricorsi all’indiretto libero.
Mentre il viaggio si sta concludendo, è sopraffatta dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, rievoca le speranze ed i progetti, ritorna a quel nido pensando di ritrovare la stessa pace e lo stesso amore di allora: tante cose però sono ormai cambiate, i fratelli sono sposati, e le cognate non accettano la vergogna che lei porta in famiglia perché ha osato separarsi dal marito e nemmeno il padre e la madre - ormai succubi delle nuore - possono più aiutarla e pertanto l’epilogo sarà tragico.Fa parte della raccolta Le Briciole del destino anche la novella “L’ora che passa”. La protagonista è Rosalia, maestra elementare che sacrifica se stessa per la cura della famiglia, la quale si trova in condizioni economiche disagiate. Non riesce ad uscire dal “carcere” del suo ruolo, dalla non- vita. Questa estraneità a se stessa rispetto a quella parte di sé che avrebbe voluto vivere ed amare, invece, di guardarsi vivere, sembra riecheggiare il personaggio di Adriano Meis - Pascal, di Luigi Pirandello, meno giocato però sull’assurdità delle situazione, sul grottesco e sul sottile ragionamento, e in ciò si rivela l’originalità e la linearità dell’arte narrativa di Maria Messina. Non a caso Leonardo Sciascia, in una nota critica, l’ accosta alla grande scrittrice inglese Katrin Mansfield definendola una “Mansfield siciliana”, forse perché Maria Messina ,al pari della Mansfield ,riesce a rappresentare con poche immagini un universo femminile succube dell’egoismo e del degrado morale di una società maschilista e sa descrivere con brevi squarci momenti di vita quotidiana e stati d’animo femminili, resi da una struttura sintattica semplice e con diversi ricorsi all’indiretto libero.
Anche la scrittrice Ada Negri dedicò una prefazione alla raccolta
“Le briciole del destino”e dell’opera
dirà “Tu hai voluto studiare questi cantucci
di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di
vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola
sorella Maria”.7
La rassegnazione e l’impossibilità di
un riscatto per la condizione femminile sono i temi dei romanzi “Casa del
vicolo”, di cui la
Sapegno fornisce chiare chiavi interpretative e tematiche. , e “Amore negato”in cui si rivela una maggiore
maturità compositiva della scrittrice. Difatti in quest’ultimo romanzo si nota
un maggiore scavo riguardo alle psicologie femminili, e l’attenzione si sposta
verso la città, descrivendo un ambiente
piccolo borghese, (Il romanzo è ambientato ad Ascoli Piceno) in cui si deve
sopravvivere alle difficoltà materiali e all’estraneità degli affetti. Sembra
quasi riecheggiare lo Svevo dei romanzi giovanili, la cui analisi
dell’inettitudine è più legata all’inconscio maschile.
È comunque
interessante fornire strumenti interpretativi delle opere di esordio di Maria
Messina, analizzando le cinque novelle che la casa editrice Sellerio ha
raccolto in un volume del 1998 dal
titolo “Dopo l’inverno”, grazie alle ricerche di Roswita
Shoell-Dombrowsky che le ha raggruppate, poiché erano state pubblicate in
diverse riviste letterarie del primo Novecento.
La novella
“Dopo l’inverno” risente della scuola verista in cui domina la descrizione
dell’ambiente rurale siciliano gravato dalla miseria, dall’ignoranza degli umili
e dal dramma dell’emigrazione.
Il
protagonista, “Ssu Vanni”, un contadino oppresso dalla povertà, tenta, nonostante
gli anni e la salute malferma, di lavorare in campagna. Ha un solo figlio, “bello
e grande come una bandiera”, il quale è
partito dal paese in primavera con l’intenzione di andare in America.
‘Ssu Vanni
,era divenuto per quella solitudine, asprigno ed irascibile,” e se qualcuno gli
si accostava egli se l’aveva a noia”, aveva ricevuto, dopo poco tempo dalla
partenza del figlio, alcune lettere. Con l’inizio dell’inverno quelle lettere
non arrivarono più, quasi a voler simboleggiare la ciclicità delle stagioni presente
nel mito di Persefone e Kore .Quando Ade rapisce Core ,che stava
sottoterra , la madre Persefone per la
disperazione rende infertile la terra,
che non dà più i suoi frutti (periodo della stagione invernale),e quando Core
poteva tornare libera sulla terra per sei mesi, la dea la rendeva fertile e
lussureggiante.
A metà inverno, verso l’anno nuovo, dopo tanto
silenzio, arriva una lettera di Turiddu. E
Ssu Vanni, analfabeta, si rivolge al Rosso, il falegname, per farsela
leggere così seppe che il figlio era
partito dall’America e si trovava a combattere in Turchia, a Bengasi.
La novella,
pubblicata nel 1912 nel quindicinale “La Donna”, è ambientata in un preciso
momento storico, quello di Crispi, e della politica coloniale dell’Italia volta
alla conquista della Libia. Anche il Meridione è coinvolto nella propaganda
patriottica, per cui Turiddu combatte per la gloria della patria. Anche
l’atteggiamento dei paesani cambia nei confronti del contadino che non sarà più
deriso ma rispettato: il figlio è un eroe, non uno squattrinato in cerca di
fortuna in America. Quando lo’ Ssu Vanni apprende la notizia che un gruppo di
feriti della guerra in Libia erano stati
rimpatriati e sarebbero ritornati in paese, inizia a sperare di poter
rivedere Turiddu proprio nel periodo in cui “il grano accestiva e le rondini tornavano a stridere sul cielo
luminoso(…) e la terra sapeva di tanti buoni aromi (ritorna il mito di
Proserpina). Difatti “è festa grande in paese, in quel pomeriggio odoroso di
primavera per i soldati reduci.” 8 Il contadino che non osava
pensare che tra di loro vi fosse il suo Turiddu, improvvisamente lo vide tra la folla festante ,accolto dalla
banda e dal sindaco del paese che aveva fatto imbandire un tavolo nella piazza
per onorare i reduci della guerra “E Ssu Vanni chiedeva perdono a Dio del
corruccio germinato nel suo cuore di uomo meschino, di uomo che, roso dalla
fatica, non distingue più un bruco dalla foglia; e ora pensava con gioia che
quel figlio era suo ,era sangue suo…”9
La novella
“Il violino di Sandro”,
pubblicato nel 1913 nello stesso quindicinale, è centrata sulla psicologia del
protagonista, di nome Sandro, musicista e violoncellista, il
quale,convalescente per una malattia dovuta a continue febbri debilitanti, è
costretto alla quasi inattività.
La sua
malinconica quotidianità è interrotta dall’arrivo dei nuovi vicini della casa
gialla : una famiglia che abitava di fronte. La figlia, era una giovane
fanciulla dal viso da bambina e dai capelli biondi che brillavano al sole come “pagliuzze d’oro”. Però la separazione
tra le due abitazioni era colmata dalla
finestra da cui spesso Sandro si affacciava per osservare le abitudini della
fanciulla dirimpettaia . Il giovane ,invaso da mille fantasie ed emozioni verso
di lei, cerca di stabilire un intimo contatto attraverso la musica “La voce
umana del violino si diffondeva nella
piazza deserta, saliva verso il cielo stellato col profumo dei calicanti ,nelle note lunghe ed appassionate vibrava
tutta la tenerezza contenuta nell’anima romantica del convalescente, affinata dalla malattia…gli occhi di tanto in tanto
si levavano a cercare colei che restava davanti alla finestra aperta”.10
Un giorno mentre
il medico parlava sommessamente con Clara, sorella di Sandro, seppe della
menomazione della ragazza dal viso di bambina: la sua sordità. La rivelazione
lo fece impallidire e tremare perché aveva cercato di comunicare con lei
attraverso l’unica voce e l’unica parola che potesse esprimere i suoi nobili
sentimenti. Ma lei non aveva potuto sentirli e così, all’improvviso, il ragazzo uscì dalla stanza perché la casa simbolicamente rappresenta la segregazione, la
non vita, l’inazione, la soglia tra ciò che è conosciuto e” l’altrove” da
scoprire e da conoscere.
Così Sandro
cerca di stabilire un contatto vero con la fanciulla per manifestarle il suo
amore e lei, se non potè sentire da lontano la dolcezza di quelle note
musicali, poteva vedere ed ascoltare da vicino
le parole di Sandro.
“Vincere” è
la più assurda ed anche un po’ grottesca novella di Maria Messina in cui si
avverte il suo pirandellismo. Intanto la storia ha quasi un impianto teatrale; due
spazi interni, i balconi, mettono in relazione due famiglie nello stesso
palazzo baronale. La moglie del professore di disegno (da poco trasferitasi in
quel luogo) con la signora Panebianco. La figlia del professore, Carmelina, sarà
la novità per il giovane aristocratico Giorgio, il quale imporrà subito alla
ragazza il suo potere di classe e di maschio “Giocavano a fare il ritratto e le comandava di stare ferma: Carmelina si
metteva nella posa che voleva lui davanti la macchina [...],e sul più bello si allontanava,
distratta […] Giorgio, che abituato a essere contentato dalla mamma, o
contrariato dal papà, obbedito dalla serva, diventava rosso sino alla radice
dei capelli”. 11
Il
desiderio adolescenziale di Giorgio di autonomia dalla famiglia lo portano a
fantasticare sul desiderio di sposare Carmelina, sfidando anche la leggenda di
famiglia dello zio ricco che si suicida perché gli fu impedito di sposare una
popolana.
La
sottomissione di Carmelina nell’accettare di sposare Giorgio, spinta da
entrambe le famiglie, la condurrà a recitare il ruolo di moglie felice ed
appagata che tutti credevano che fosse ,ma che in realtà non era. Giorgio
assume il suo ruolo all’intero di una gerarchia patriarcale e di classe e si
occuperà solo delle sue proprietà, trascurando Carmelina. La donna, cosciente
della sua condizione infelice, girellava
attorno alla vasca del “ giardino” . “Certe volte sedeva sull’orlo. Brutta
abitudine quella di sedere sull’orlo…Andò a finire che un giorno, dopo averla
cercata qua e là nel giardino…Disgrazia…oppure…ma no! Era stata una disgrazia! Una
donna fortunata come lei! Se lo dicevano tutti a una voce: le amiche, le
vicine. Che le mancava per essere felice?”12
Un suicidio, una disgrazia, qual è la verità? Ecco
riecheggiare un certo piradellismo, nel
contrasto tra apparenza e verità. Cosa le mancava per essere felice?
Anche Giorgio, avvisato della disgrazia rispose rinfrancato “Una casa
spezzata…forse non era destino…”
Lo stile e la lingua di queste novelle può essere definito
minimalista, con un ricorso ad un periodare breve, lontano da complessi
costrutti sintattici. Il linguaggio è
colloquiale e risente di espressioni del
parlato.
Giuseppina Bosco
1 Bartolotta , “ Literary” , studio su Maria Messina.
2 Maria Serena Sapegno, Sulla soglia : la narrativa di Maria
Messina, in “altre lettere”, 14-03-2012
3 Bartolotta ibidem
4 Cfr.Palermo,Sandron. 1911. Così scrive al Verga da Ascoli
Piceno
5 Bartolotta ibidem
6 M. Messina, Casa
paterna. Palermo, Sellerio 1981
7 Bartolotta, ibidem
8 Maria Messina, “Dopo l’inverno”. Sellerio 1998, Palermo, pag 16
9 Maria Messina, ibidem,
pag 20
10 Maria Messina, ibidem, pag 25
11 Maria Messina, ibidem, pag 63
12 Maria Messina, ibidem, pag 77
RILEGGERE BEPPE FENOGLIO
Per
gli amanti di Fenoglio un volume da non perdere.
Lorenzo Mondo
Su L’Illuminista un Fenoglio a 360 gradi
Nell’eco
dei settant’anni dalla guerra di Liberazione, la rivista
L’Illuminista è uscita con un numero triplo dedicato interamente a
«Beppe Fenoglio». E’ un volume di 800 pagine curato da Gabriele
Pedullà, uno dei più agguerriti critici dello scrittore di Alba. E
merita il più vivo apprezzamento per una serie di ragioni. E’
introdotto intanto da un’ampia cronologia della vita di Fenoglio,
basata sulle testimonianze dirette che offrono «un ritratto a più
facce, quasi ‘cubista’, di un narratore altrimenti famoso per il
suo riserbo a la sua impenetrabilità».
Segue poi una antologia della critica che rappresenta una grande novità. Raccoglie infatti tutti gli articoli e i saggi che accompagnarono la prima uscita dei suoi libri (con qualche aggiunta ulteriore particolarmente significativa). E’ un contributo prezioso per gli studiosi e gli ammiratori di Fenoglio, documenta infatti dal vivo le impressioni e i giudizi dei primi lettori, disegnando l’accidentata parabola della sua fortuna. Condizionata, oltreché dall’intelligenza di un critico, dalla temperie culturale e politica.
Registriamo così,
facendo seguito alle incomprensioni di Vittorini, le ottuse denunce
che gli vennero mosse per lesa Resistenza e leso Neorealismo
(successivamente ritrattate, nel perdurante imbarazzo per il
paradosso rappresentato dal massimo cantore della Resistenza che si
proclamava monarchico e anticomunista).
Ma non mancò fin dai primordi un blocco di ferventi estimatori, come Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Giorgio Bàrberi Squarotti, e la battagliera Anna Banti che non darà tregua, anche sotto il profilo politico, ai detrattori. Le oscillazioni e riserve si stemperarono quando uscì nel 1959 Primavera di bellezza, fino a quando i romanzi postumi, Una questione privata e Il partigiano Johnny, decretarono la sua apoteosi.
Tra le rare eccezioni, la sordità di Pasolini che si fa curiosamente censore «purista» del linguaggio fenogliano. Ma egli gode ormai di grande consenso anche tra le nuove generazioni, e viene proclamato uno dei vertici della letteratura novecentesca. Avvertendo che l’ispirazione resistenziale e langarola, pur imprescindibile, è soltanto una delle modalità in cui si esprime il suo sentimento tragico della vita, intriso di visionarie, «metafisiche» suggestioni.
Per dirla con Giovanni Raboni, non bisogna dimenticare che le Langhe svolgono in lui «anche un ruolo violentemente immaginario, che non sono solo il suo Mississippi ma anche, in qualche modo, la sua contea di Yoknapatawpha». (Dove vengono suggeriti, con ardita metafora, i nomi di Twain e di Faulkner).
La Stampa – 16 luglio 2015
22 luglio 2015
GUERRA E STAMPA NEL 1915
Un paese restio
all’intervento militare catapultato a combattere nelle trincee ai
confini del paese e in quelle contro il nemico interno. Un
imperialismo straccione che vide in pochi mesi gran parte dei
sostenitori della neutralità convertirsi alla guerra. Un libro molto
interessante che svela le ricadute sociali della campagna di stampa che
portò l'Italia all'intervento.
Gianpasquale
Santomassimo
Un imperialismo
provinciale
Tra lo scoppio della
prima guerra mondiale e l’intervento italiano
intercorrono dieci mesi. Lo stesso intervallo, giorno
più, giorno meno, si riproduce in occasione della seconda
guerra mondiale.
Coincidenza
troppo ingombrante per essere considerata
casuale, e che rinvia invece a profili di lungo
periodo dello Stato italiano. Quel complesso dell’«ultima
grande potenza», arrivata tardi all’unificazione, esclusa dal
«grande gioco» dell’equilibrio mondiale e dalle
spartizioni coloniali, e che aspira a giocare
un suo ruolo.
Negli anni Trenta del
secolo scorso sarà il più lucido ministro degli Esteri del
fascismo, Dino Grandi, a formulare la teoria
del «peso determinante», razionalizzando
una disposizione già presente e che aveva
operato nella decisione dell’intervento del maggio
1915: le dimensioni dell’Italia non le permettevano
di agire da protagonista ma le consentivano
pur sempre di decidere quale piatto della bilancia far
prevalere col suo schieramento.
Potranno essere in
discussione alleanze, da dismettere o da allacciare,
motivazioni e rivendicazioni della
guerra da intraprendere, ma in ogni caso non sarà mai in
discussione l’intervento in sé, fattore considerato
strettamente connesso al «prestigio»
del paese.
A ben vedere, è una
disposizione di fondo che sopravvive alla fine
dell’imperialismo italiano, sebbene disciplinata
da una Costituzione che ripudia la guerra e da
una politica estera prudentissima nel tempo della
guerra fredda. Ma non appena salteranno gli equilibri
del «secolo breve» riaffioreranno gli impulsi che
inducono gli italiani a infilarsi in tutte le
guerre che scoppiano, la costrizione di un malinteso
«prestigio nazionale» che impone la
partecipazione a tutte le missioni
militari operanti sullo scenario internazionale.
E non a caso quando
si ha ormai la certezza che la guerra è inevitabile,
nel luglio 1914, il nuovo Capo di stato maggiore dell’esercito
italiano, Luigi Cadorna, formula un piano bellico che
prevede l’invio sul Reno di 5 corpi d’armata e due
divisioni di cavalleria, rispettando la
convenzione militare con la Germania.
Comincia rievocando questo episodio il
nuovo libro di Mario Isnenghi, Convertirsi alla
guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure
nell’Italia tra il 1914 e il 1918 (Donzelli, pp.
282, euro 20).
I nuovi equilibri
liberali
Nell’arco di dieci mesi
si produrranno la conversione dell’immagine
della Germania da modello ad antimodello, la
crisi dell’internazionalismo socialista e il
passaggio al nazionalismo di settori
importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana,
mazziniana, la trasformazione dei
cattolici da intransigenti nemici dello Stato
unitario a clerico-patrioti (in continuità
col precedente già intervenuto durante la guerra
di Libia) e, infine, il completo riassetto degli
equilibri interni alla classe dirigente liberale.
L’irredentismo agitato
per le masse si traduce nella «quarta guerra d’indipendenza»
(che era ancora la formula dei nostri libri scolastici,
e anche di qualche recente orazione presidenziale):
Trento, Trieste, Istria, qualcosa della Dalmazia.
Invece Nizza, la Corsica, Savoia, Gibuti, Malta, obiettivi
agitati all’avvio delle ostilità, scompaiono
rapidamente dall’orizzonte: torneranno buoni
nella prossima occasione.
Le classi popolari,
fino a tre anni prima ritenute indegne di esercitare
il diritto di voto, sono ora chiamate a dare la vita per la
patria. Ma la cosa che all’autore preme sottolineare
è che il «passaggio dalla società dei notabili
alla società di massa», che sarà uno dei risultati
irreversibili della guerra, viene però gestito con
ferrea capacità di controllo da gruppi di notabili.
L’agile libretto vuol essere anche una riflessione sulla
«solitudine delle élites» che gestiscono
intervento e guerra senza accettare intromissioni.
Sono chiamati in
causa generali, preti, giornalisti del Corriere
della sera (vero giornale-partito che diviene house-organ del
bellicismo, soppiantando nella vicinanza
al potere la Stampa giolittiana di Frassati,
favorevole alla neutralità). Nelle pagine di
Isnenghi troveremo potenti giornalisti
coinvolti nella gestione della guerra non meno dei generali
(Albertini, Ojetti, Barzini, Fraccaroli),
diaristi perplessi a futura memoria (Gatti)
e anche donne emancipate o in via di
emancipazione, come l’anarco-rivoluzionaria
paladina dell’interventismo Maria Rygier, o la
cattolica-democratica Antonietta Giacomelli.
La religione
è coinvolta da subito nell’intervento. Cadorna,
cattolicissimo malgrado l’accostamento
inevitabile del suo cognome a Porta Pia,
reintroduce i cappellani militari, non
solo cattolici, ma anche pastori e rabbini, se
pure in misura molto esigua. Tra i tanti ecclesiastici
coinvolti spiccano Giovanni Semeria e Agostino
Gemelli, entrambi «religiosi che vengono bene accolti al
Comando supremo», «uomini d’azione e di potere –
interpreti di un volontariato cattolico dai
larghi orizzonti e imprenditori di lungo
corso del sacro», con direzioni di marcia non
sovrapponibili, tuttavia, visto che
«Semeria aspira a coniugare i cristiani con
la modernità, mentre Gemelli – altrettanto moderno
nei metodi – guarda culturalmente all’indietro
e aspira a indirizzare la “riconquista
cristiana” del mondo verso ciò che non teme di chiamare
Medioevo».
Sono molto pochi gli
intellettuali che tentano di sottrarsi alla
regressione propagandistica del
nazionalismo, e tra questi l’esponente più
illustre – ma ormai isolato – della cultura
italiana, Benedetto Croce: «Considero tutto ciò
– scrive nelle pagine dedicate alla guerra — come
manifestazioni dello stato di guerra. Non si tratta
già di quesiti razionali, ma di urti tra passioni;
non di soluzioni logiche, ma di asserzioni d’interessi
che, sebbene altissimi, sono nazionali, ossia
particolari; non di ragionamenti, ma di
finti ragionamenti, costruiti dall’immaginazione».
Una piccola logica
di potenza
Ma di fronte al dilagare
del «trentotrientinismo», a quel
«Trento-e-Trieste», formula patriottica talmente
indissolubile da far pensare a molti
italiani lontani dal fronte che si trattasse di
un’unica città (alcuni dicevano due città divise da un
ponte, come Buda e Pest), gioverà ricordare che
è solo propaganda per le masse, «favola bella» che
gli «uomini d’ordine» (gli «atei devoti» dell’epoca, aggiunge
Isnenghi) lasciavano usare nelle piazze, senza scaldarsi
troppo in proprio.
Forse sono proprio
queste le considerazioni che il lettore
troverà più nuove, certamente inusuali. Si
scopre che in realtà Trento interessa molto poco, anche se
è importante portare il confine «naturale»
sul Brennero. Molto di più interessa Trieste, ma solo
in quanto porto che può assicurare il controllo
sull’Adriatico «lago italiano».
Le motivazioni
della guerra sono tutte inscritte nella logica di potenza, nella
volontà di affermazione di un imperialismo
italiano che per tre decenni crederà di poter giocare
un ruolo autonomo e importante, in un mondo che la
guerra avrebbe però messo in crisi, distruggendo gli
equilibri che avevano reso possibile
l’egemonia della vecchia Europa.
L’ondata emozionale
di patriottismo viene in prevalenza da sinistra.
Nella quasi totale revisione delle appartenenze che la
guerra provoca c’è ovviamente un «pullulìo
di ex» (e Isnenghi qui riprende temi già ampiamente
trattati nel suo Ritorni di fiamma dello scorso anno). Si forma
la «strana coppia» Bissolati-Mussolini: il riformista
sconfitto al congresso di Reggio Emilia del 1912
e il giovane rivoluzionario che l’aveva
defenestrato dal partito.
«Energumeno»
non molto ben visto dai comandi, il futuro Duce, e dopo una
lieve ferita rispedito a fare ciò che meglio sa fare, cioè
il giornalista-agitatore, col sussidio datogli dal
governo francese e col compito – come si esprime il
faccendiere Filippo Naldi con l’ambasciatore di Francia
– di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un
intento patriottico tutta la teppa dell’Italia
settentrionale». Ma bisogna aggiungere che
le sfumature tra interventismo
«democratico», «rivoluzionario»
o puramente nazionalistico sono destinate
ad attenuarsi nel corso del conflitto.
Al di là di Cesare
Battisti, imbalsamato nella dimensione di
«martire» antiaustriaco, dello stesso Salvemini,
influente in ristretti circoli intellettuali ma troppo
professorale per parlare con successo alle
truppe, di un Mussolini dall’audience molto limitata,
l’unica figura che appare popolare è quella di
Bissolati, ministro guerriero ascoltato al
fronte, dai fanti come dai generali.
Resta ben poco di
socialismo riformista nella sua azione: avremo da
parte sua l’approvazione dei metodi di Cadorna, decimazioni
comprese, col triste primato conseguito
dall’esercito italiano in questa forma di governo
terroristico della truppa («pura rappresaglia
nel mucchio, vendetta sociale allo stato puro», scrive
Isnenghi), sia pur raccomandando «moderazione»,
ma pure addivenendo a minacce di fucilazioni
«politiche» dei suoi ex-compagni dopo Caporetto.
Si crea una «grande area
trasversale dell’adattamento – progressivo
o di schianto – ai fatti compiuti» nella quale
confluirebbero tutti i tre grandi «partiti
di raccolta» del neutralismo, cioè
liberal-giolittiani, cattolici e socialisti.
Anche se è indubbio, il grande adattamento ai
fatti compiuti che la successione degli eventi impone,
si possono sollevare dubbi su alcuni giudizi di
insieme che Isnenghi suggerisce, assai più che
teorizzare.
«Perché e come
una nazione intera cambiò alleanze e diventò
interventista», recita la fascetta editoriale
che accompagna il libro. Ma davvero l’Italia intera
diventò interventista?
Ci sarà la fortissima
pressione delle piazze del «radioso maggio» per
intimidire un Parlamento in maggioranza
giolittiano e neutralista, e che
sarà chiamato a esprimersi solo a guerra già
deliberata dal sovrano. Però in Italia non abbiamo le
grandi manifestazioni popolari e proletarie
che invadono le piazze inglesi e tedesche,
e l’agitazione coinvolge esclusivamente
una borghesia irriflessiva e manesca,
che presidierà assai più le trincee del «fronte
interno» che quelle scavate al fronte. Ma le piazze non erano
solo interventiste, come testimoniano
i numerosi studi raccolti nel volume curato da Fulvio
Cammarano (Abbasso la guerra! Neutralisti in
piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia,
Le Monnier, pp. 606, euro 29).
Il neutralismo
silente
Cattolici,
socialisti e liberali giolittiani erano
la stragrande maggioranza del paese, e al di là
di transfughi chiassosi e attivissimi
il corpo fondamentale di questa maggioranza
d’Italia non sarà mai intimamente conquistata
alle ragioni della guerra. La costruzione di una memoria
pubblica fondata essenzialmente sul mito
unificante della Grande Guerra sarà impresa non semplice
e laboriosa, inaugurata dalla classe dirigente
del primo dopoguerra e portata a compimento
dal fascismo.
In più, avremo in
Italia l’unico partito socialista, accanto
a quello socialdemocratico russo, che
rifiuta la guerra e manterrà questo atteggiamento
fino alla fine del conflitto (e nei suoi risvolti culturali
e psicologici anche oltre), pur nelle
difficoltà, le attenuazioni, gli equilibrismi
dialettici che accompagnano il tormentato
«non aderire né sabotare» (con un avvicinamento
alle ragioni del «patriottismo» che avverrà solo dopo lo
sfondamento delle linee a Caporetto, in un
compromesso rifiutato da pochissimi, e tra
questi in primo luogo Giacomo Matteotti).
Da qualche tempo
Isnenghi sembra proporre in termini esemplari
la personalità di Cesare Battisti,
«tragica figura di irredento territoriale
e redento politico», esempio di socialismo
sensibile alle ragioni della patria che i suoi
compagni ebbero il torto di non seguire, condannandosi
a una sterile emarginazione dallo spirito
nazionale.
Ma le stesse pagine di
Isnenghi mostrano la fortuna quasi inesistente
del lascito politico di Battisti, a scapito
della figura di martire patriottico che assorbirà
interamente il suo ricordo. E la coerenza
socialista nel rifiuto della guerra sarà alla base del
prestigio presso le masse lavoratrici di quel
partito, che si affermerà nelle prime elezioni
democratiche del 1919 come il più grande partito
italiano.
Quella che interviene
dopo, come sappiamo, sarà un’altra storia, dove gli
errori commessi si sommeranno anche e soprattutto
a un enorme carico di violenza subita.
Il Manifesto -8 luglio 2015
PICCOLI E LENTI
L’importanza di essere piccoli
La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.
P. Celan, Microliti, ed. Zandonai
PROGRAMMA
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si svolgono a partire dalle ore 21:00
Lunedì 3 agosto, ospiti dell’affascinante castello neogotico Manservisi di Castelluccio (Porretta Terme) dentro un grande parco con alberi secolari e che si estende fino al Museo Laborantes, il più grande Museo etnografico della montagna bolognese, due “regine” del panorama cantautorale e poetico nazionale, Cristina Donà e Elisa Biagini,
condivideranno per la prima volta il palco regalando al pubblico una
raffinata serata tutta al femminile. Con la sua “parola verticale”,
sfrondata da ogni elemento ridondate, e per questo motivo ancor più
incisiva e limpida, la poetessa fiorentina annoderà i suoi versi con
l’eco e il respiro delle voci di Paul Celan e Emily Dickinson. Un
dialogo elettivo e sentimentale composto da versi taglienti affacciati
“ai bordi” della vita e sempre tesi verso l’altro da sé. Dopo l’ascolto
della poesia sarà la volta del live acustico di Cristina Donà, uno
dei talenti più cristallini e influenti emersi alla fine del millennio
dalla nuova scena milanese e poi decollata, grazie al suo talento vocale
e al valore poetico dei suoi testi, verso un successo internazionale.
Per L’importanza di essere piccoli sarà accompagnata dal compositore, arrangiatore multistrumentista Saverio Lanza, anche produttore dell’ultimo album Così vicini, un disco delicato e potente composto da canzoni intime e “vicine”, adatte a una condivisione ravvicinata e più intima.
Nei giorni del festival nascono dei legami che durante l’anno continuano a crescere e a ramificarsi, per questo motivo martedì 4 agosto saranno di nuovo gli ampi e assolati campi del circolo culturale ippico Scaialbengo di Castel di Casio ad ospitare Francesco Di Bella e Guido Catalano. Il clima gioviale e semplice dell’associazione che fa vivere allo stato brado i suoi cavalli, ben si addice con l’entropia di Guido Catalano tra i poeti più irriverenti, odiati-amati e letti degli ultimi anni. Le ultime due raccolte di poesie,Ti amo ma posso spiegarti e Piuttosto che morire m’ammazzo edite
da Miraggi Edizioni, hanno venduto circa 18.000 copie e la sua fan page
è seguita da quasi 20.000 persone. «Le poesie che fanno ridere di cuore
e di pancia, e i reading memorabili lo confermano come uno degli autori che riesce di più ai coinvolgere il pubblico.» Se Catalano il rock l’ha portato tra i suoi versi, Francesco Di Bella, nel suo progressivo allontanamento dai 24 Grana, gruppo che assieme a 99 Posse e Almamegretta
ha rappresentato il meglio della scena musicale napoletana negli anni
’90, si è invece ritirato dai ritmi punk elettronici della band in una
dimensione più intima dedicandosi alla composizione pura. La sua voce
appassionata e dolente chiuderà la serata attraverso un viaggio nella
Napoli settecentesca in cui, tra gioielli sconosciuti scoperti in decine
di vinili-capolavoro, confluiranno, anche dei brani più famosi dei 24 Grana. Nasce così Francesco Di Bella & Ballads Cafè che accompagnerà gli spettatori nel centro della notte, con le sue canzoni ipnotiche dal suono corposo e inebriante.
Vivere il margine non solo
geograficamente ma anche nell’uso di lingue smarrite e in disuso, sono
tra i temi cari al festival che quest’anno focalizza la sua attenzione
sulla poesia dialettale ospitando tre autori che attraverso questa
lingua “povera” riescono a raccontare in modo autentico la vita. Mercoledì 5 il poeta veneto Longega e la romagnola Teodorani
daranno vita a una lettura incentrata sulla musicalità della parola
nel borgo di Castagno di Piteccio, data che conferma la volontà del
comune di Pistoia, partner del festival dal 2014, di rafforzare il
legame tra Toscana e Emilia Romagna. La chiarezza e schiettezza dei
versi di Annalisa Teodorani, paragonata ad «un meteorite precipitato
sul parterre della poesia italiana», ricordano quelli di Tonino Guerra,
di cui è da molti considerata erede. Dalla pastosità “amabile” della
lingua di Santarcangelo all’ariosità del veneto di Andrea Longega, un
autore che fila e tesse le parole con la cura dei lavori artigianali, un
mestiere che richiede tempo e pazienza e che riconduce il lettore a una
giusta dimensione, più piccola e malinconica. Primo lustro è il suo libro più recente, da poco uscito per Nervi Edizioni,
casa editrice di Fabio Donalisio, Francesco Targhetta e Marco Scarpa,
che presenteranno proprio in questa serata il loro progetto editoriale.
La tiratura di ogni volumetto è di cento copie, ognuna caratterizzata da
una attenta lavorazione, curata nella scelta dei titoli e nell’estetica
dei formati. «L’idea di tornare a fare libri partendo da scelte
semplici ma consapevoli: un’impaginazione elegante, la scelta di un
carattere ben leggibile e piacevole alla vista, e una cura
nell’assemblare tutto questo» sono, dalle parole degli editori, il
valore di questo progetto. Una poetica aderente a quella del festival
che quest’anno ha deciso di ospitare la casa editrice dando visibilità a
un mestiere nobile e antico. La serata si concluderà con il live
acustico di Roberto Dellera, bassista degli Afterhours, un originale folletto, vintage e psichedelico, che si muove attraverso epoche e stili con brillante disinvoltura.» Dopo il sorprendente debutto da solista, Colonna sonora originale (2012), Dellera ritorna con il secondo albulm Stare bene è pericoloso,
un disco di rock’n’roll e, in quanto tale, contiene vari elementi: dal
pop al rock, dalla psichedelia, al folk e al jazz ma soprattutto lo
spirito della musica popolare moderna.
Per l’ultimo appuntamento di giovedì 6 agosto si
salirà verso uno dei luoghi più antichi dell’Appennino, l’antica pieve
romanica della Rocca di Roffeno, nel comprensorio del comune di Vergato.
Un piccolo curatissimo borgo immerso nel silenzio, tra ortensie e
gerani, in grado di incantare con la semplice e robusta architettura
tipica della montagna. L’Abbazia, sorta nel X secolo per dare ristoro ai
viandanti, ospiterà la lettura del terzo poeta dialettale Emilio Rentocchini, di Sassuolo (Modena); di lui sulle pagine del Corriere della Sera Giovanni
Giudici ha scritto: «Rentocchini ci offre nella sua ricca tematica un
dono di poesia antica e nuova: il coraggio della malinconia; la vanità
delle imprese umane». Dialetto in forma di sonetti che rivelano una
grande tecnica allacciata a una profonda ricerca dentro l’animo umano,
approfondimento che rivela una moralità che si manifesta dentro la
materialità delle cose. E se Rentocchini è stato anche definito “un
virtuoso della musica per parole”, sarà il cantautorato di alta qualità
a concludere il festival con l’omaggio ai grandi autori e compositori
italiani interpretati da Diodato. A Ritrovar Bellezza è
il disco con cui Diodato omaggia quegli artisti che con le loro opere, a
cavallo degli anni ’60, hanno reso grande la musica italiana nel mondo.
Come Diodato stesso racconta “Queste canzoni ci appartengono, ancora ci
raccontanoe sono in grado di ricordarci di quanta forza e bellezza
siamo ancora capaci.” La voce intensa e le originali riletture di
‘grandi classici’, oltre al talento dimostrato nelle composizioni
originali, hanno portato Diodato all’attenzione nazionale prima grazie
al successo ottenuto al 64esimo Festival di Sanremo e quindi attraverso
la costante presenza nelle puntate domenicali della scorsa stagione di
“Che Fuori Tempo Che Fa”, parte conclusiva del programma di Fabio Fazio
in onda su Rai 3.
——–
Anche quest’anno poi il festival presenterà una serie di creazioni originali e uniche da parte di vari artisti e artigiani che hanno realizzato opere specifiche per l’evento. Borse in lino e cotone cucite a mano, abbinate a una chiocciolina di stoffa imbottita che riprende il tema dell’immagine di questa V edizione sono la proposta di Carohandmade,
una creativa della provincia di Livorno che ha preparato una serie
ridottissima di questi oggetti unici il cui acquisto darà una parte dei
proventi a sostegno del festival. Ritroveremo poi i ‘miniquadri’ di Cifone, al secolo Simone De Berardinis, di cui il fumettista Maicol Rocchetti
(il noto autore degli ‘Scarabocchi animati’ di maicol&mirko) ha
detto “Cifone è uno dei più grandi artisti che mi è capitato di
conoscere. La potenza dei suoi disegni, dei suoi modellini di cartone e
delle sue foto ricordo è devastante. Cifone riesce a stupirmi da ormai
trent’anni. Le sue cose sono sempre vere, giuste, entusiasmanti,
commoventi. Soprattutto non sono mai una truffa”. Saranno presenti poi i
taccuini cuciti a mano della ditta artigiana 13sedicesimi
di Torino, che pensa, disegna, stampa e rilega meravigliosi quaderni
che per il festival riportano in copertina alcuni versi di Amelia
Rosselli, tratti dal poemetto ‘La libellula, panegirico della libertà’.
Gli stessi versi, ovvero: “Io non so cosa voglio, tu non sai/ chi sei, e
siamo quasi pari” sono impressi su una serie di magliette realizzate
dalla ditta Macron di Crespellano (BO) su generoso dono
dell’Hotel Helvetia Thermal Spa di Porretta Terme. Verranno inoltre
presentati inoltre alcuni esemplari di poster d’arte
numerati, pezzi unici realizzati appositamente secondo le antiche
modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d’arte bolognese Anonima Impressori.
Tutti questi specialissimi piccoli grandi oggetti verranno proposti al
pubblico in una raccolta fondi a sostegno delle attività del festival.
Ad arricchire la rassegna saranno presenti i due bookshop della
libreria “L’ Arcobaleno” di Porretta e de “LO SPAZIO di via
dell’ospizio” di Pistoia.INFO
www.sassiscritti.wordpress.com
sassiscritti@gmail.com
fb: L’importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 3690407 | 349 5311807
ufficio stampa SassiScritti: Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com
21 luglio 2015
FRANCO LOI, Forsi û tremâ
Disco di Nebra, la piú antica rappresentazione della volta celeste, risalente al 1.700-2.100 a.C.
Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle,
no per il freddo, no per la paura,
no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza,
ma di quel niente che passa per i cieli
e fiata sulla terra che ringrazia...
Forse è stato come trema il cuore,
a te, quando nella notte va via la luna,
o viene mattina e pare che il chiarore si muoia
ed è la vita che ritorna vita...
Forse è stato come si trema insieme,
così, senza saperlo, come Dio vuole...
*****
Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll,
no per el frègg, no per la pagüra,
no del dulur, legriâss o la speransa,
ma de quel nient che passa per i ciel
e fiada sü la tèra che rengrassia…
Forsi l’è stâ cume che trèma el cör,
a tí, quan’ne la nott va via la lüna,
o vegn matina e par che ‘l ciar se mör
e l’è la vita che la returna vita…
Forsi l’è stâ cume se trèma insèm,
inscí, sensa savèl, cume Diu vör…
Franco Loi
Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll,
no per el frègg, no per la pagüra,
no del dulur, legriâss o la speransa,
ma de quel nient che passa per i ciel
e fiada sü la tèra che rengrassia…
Forsi l’è stâ cume che trèma el cör,
a tí, quan’ne la nott va via la lüna,
o vegn matina e par che ‘l ciar se mör
e l’è la vita che la returna vita…
Forsi l’è stâ cume se trèma insèm,
inscí, sensa savèl, cume Diu vör…
Franco Loi
Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll
da "Lünn" (1982)
Devo all'amica Lorena Melis la scoperta di questa bellissima poesia e l'intervista all' autore che di seguito trascrivo:
Intervista a Franco Loi, Poeta
fatta nel 1990 da Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999, pp.36-42)
Franco Loi, nato a Genova nel 1930, vive a lavora a Milano dal 1937. Ha collaborato con diverse riviste e vinto importanti premi letterati. Le sue poesie sono state tradotte in Russia, Cecoslovacchia, Olanda, Spagna, Romania, Portogallo. Pubblica il primo libro solo nel 1973, I cart (Edizioni Trentadue). Seguono le raccolte: Poesie d'amore (Edizioni Il Ponte, 1974), Stròlegh (Einaudi, 1975), Teater (Einaudi, 1978), L'aria (Einaudi, 1981), L'angel, I parte (San Marco dei Giustini, 1981), Lünn (Edizioni Il Ponte, 1982), Bach (Scheiwiller, 1986), Liber (Garzanti, 1988), Memoria (Boetti & C., 1991), Umber (Piero Manni Ed., 1992), Poesie (Fondazione Piazzolla, 1992), Arbur (Moretti & Vitali, 1994), Alice (Edizioni Il Gatto dell'Ulivo, 1996), L'Angel, in 4 parti (Mondadori, 1996).In prosa ha prodotto Dieci racconti (ICI Milano, 1986), Diario breve, scritti sulla poesia e sulla letteratura (Edizioni Cip, 1995), oltre a innumerevoli saggi.
La vena polemica del poeta traspare in questa intervista che spazia sulle più attuali questioni della vita italiana, una vena polemica che segna l’approccio del poeta al mondo e alla storia. La sua è una voce forte, caratterizzata, come afferma Giacinto Spagnoletti, da “una violenza rappresentativa che non ha eguali nella poesia d’oggi, in lingua e in dialetto.”[1]
Che cos'è per te la poesia, tu che hai scritto in un verso di L'Aria: "si scrive perché la vita sia più vera"?
Quel verso ha significati molteplici. Per me, e non so per altri, lo scrivere è insieme conoscere e conoscersi di più. Sembra quasi che la parola scavi dentro di noi, togliendo incrostazioni e impedimenti di varia natura sino ad agevolare il rapporto tra la nostra coscienza e la memoria inconscia - che è memoria del corpo, delle emozioni e dei pensieri che tutto il nostro essere elabora indipendentemente dalla nostra consapevolezza. E in questo senso ci aiuta ad avere un rapporto più vicino alla verità, sia con noi stessi, sia con il prossimo, sia con le cose e la natura. Quindi a rendere la vita più vera.
La poesia, che è insieme parola significante, musica e ragione, è la forma di un nostro modo di essere spesso ben oltre quanto presumiamo di noi. Ma è anche l'unica possibilità di vero dialogo con l'altro, giacché coinvolge l'ascoltatore nella comune ragione e nella comune emozione oltre gli impedimenti caratteriali e ideologici.
Un mio caro amico, Davide Bracaglia, ha scritto: "Non è che il dono prometeico di una scintilla comune di verità condivisa sul piano creaturale. Poesia non è tanto, o solo, forma, contenuto, simboli o immagini, non tanto un'etica o un'identità, quanto un'elargizione, senza attendere nulla in cambio, di se stessi. Poeta è chi si offre, da guarito, per la salute di ogni lettore, di ogni altro uomo-poeta". E per guarigione, credo che il mio amico intenda il rinnovato rapporto con la vita, con l'amore, con la verità. Infatti quando il mio amico dice "guarire dalla letteratura", vuol dire emanciparsi dalle menzogne della mente, dai pregiudizi, dagli ostacoli di varia natura che frapponiamo ai nostri rapporti con gli altri (e con noi stessi). Dobbiamo rendersi conto che la mente è menzogna nel suo orgoglio di dominare la nostra persona e la nostra vita, di farci credere che l'immagine che abbiamo di noi sia vera. La poesia smaschera questa menzogna, rivela oltre la persona (la maschera) un volto diverso e non sempre piacevole di noi. In questo la poesia rende vera, vicina alla verità la nostra presenza nel mondo.
Hai pubblicato il primo libro solo nel 1973, ma quando hai cominciato a scrivere?
Avevo 9 anni quando ho preparato per un gruppo di amici una riduzione teatrale dei "Tre moschettieri" di Dumas. Sapevo già leggere a 4 anni, quando mia madre mi regalò due libri alla Fiera di Sant'Agata a Genova.
A scuola ci facevano scrivere le "cronache" al posto dei "temi" e ricordo che a 16 anni, mentre tornavo in bicicletta dallo Scalo Merci di Milano Smistamento dove lavoravo, ebbi un gran sconforto per la perdita di un pacco di miei scritti che portavo nel portapacchi dietro il sellino.
Non ricordo periodi della mia vita che non siano intrecciati allo scrivere. Così scrissi versi per la pace che avevo 17 anni e liriche d'amore quando m'innamoravo - tutto in italiano. Cominciai invece a scrivere poesie in milanese quando nel 1965 mi capitò tra le mani la raccolta dei Sonetti del Belli. Il Vigolo dice che la stessa cosa capitò all'arcade Belli, quando a Milano fece la conoscenza con la poesia del Porta. Posso dire con ironia che è una specie di scambio o remunerazione storica.
Per me, comunque, non si "comincia a scrivere" - è illusione degli sperimentali, che intendono lo scrivere come una costruzione mentale o una "produzione letteraria". Credo che scrivere sia, almeno per me, così "insieme" alla vita e nello stesso tempo così lontano, da non esserci inizio - io non ne ho memoria precisa. È un modo di essere ed è un modo di capire, e questo lo si fa sin dalla nascita. Non c'è poi molta diversità tra la consapevolezza di un bimbo e quella di un adulto. Spesso l'adulto si allontana dalla consapevolezza di sé per costruirsi una realtà rassicurante e conformistica. Ripeto che lo scrivere è comunque un mezzo per recuperare consapevolezza di sé. Quindi, non ha inizio. Quando vado nelle scuole chiedo sempre: chi scrive? E più si va indietro nell'età e nel tempo e più numerosi sono quelli che scrivono. Dunque si dovrebbe semmai chiedere: quando si smette e perché? Cioè capire che il "non scrivere" è una perdita.
Con la scelta di scrive poesie in milanese, hai cercato di ridare dignità al dialetto che in Italia è stato per molto tempo la lingua degli umili, delle classi meno privilegiate. Quello che usi però è un dialetto un po' particolare, nel quale confluiscono elementi di altri dialetti, come lo stesso genovese natio o l'emiliano. Che cosa rappresenta per te questa lingua che è stata definita come una "lingua privata"?
Non ho scelto il dialetto. Qualcuno ha scritto che "il dialetto ha scelto me". E non ho cercato di "ridare dignità al dialetto", che ne ha già una sua, grande, nell'uso e nella storia popolare. C'è una significativa serie di sonetti di Carlo Porta sulla "dignità e il valore" del dialetto. Semplicemente, quando, per un motivo estetico, mi son trovato a dar voce a un giovane soldato milanese - che non potevo far parlare in italiano - ho capito due cose: di aver dentro di me il milanese aldilà della mia consapevolezza; e ho capito di aver dentro di me la poesia, cioè questa strana connessione tra suono, contenuti ed emozioni.
Che poi la mia lingua non sia "privata" mi sforzo inutilmente di dirlo da anni. Certo, in un altro senso la lingua di ogni poeta è privata. La gente non ha mai parlato la lingua di Leopardi o di Dante. È successo, semmai, che la gente ha capito la ricchezza della lingua dopo aver letto Dante o Leopardi. È tanto poco privata che spesso versi interi delle mie poesie sono raccolti dalla parlata popolare. per non parlare dei tanti neologismi o di alcune espressioni. Qual è del resto il confine tra pubblico e privato in un poeta e in una poesia? Viviamo la cultura degli uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Anche volendo, non c'è niente che sia completamente privato. Il milanese rappresenta semmai la mia vita e la mia storia in Milano, mentre il colornese rappresenta l'amore per la lingua e la terra di mia madre, e il genovese la memoria della mia prima infanzia a Genova e della lingua di mio padre.
Le classi privilegiate milanesi, un tempo, parlavano milanese. Non si deve dimenticare che all'unità d'Italia (1870) soltanto il 2,3% degli italiani parlava italiano, e che soltanto dopo gli anni '50, per l'avvento della televisione, l'italiano è diventato lingua della maggioranza. Gli italiani ricchi non hanno mai parlato il toscano di Dante, ma quello scolastico. La lingua del potere politico non è del resto mai una lingua poetica. Occorre dimestichezza con la comunità e con lo Spirito che gli uomini di potere non hanno mai avuto, almeno dalla rivoluzione francese in poi. Una volta che si capisce la poesia come "offerta di sé" e forma di una verità sconosciuta, si capisce anche la menzogna nascosta nella contrapposizione lingua-dialetti. La verità, come il dono, sono indifferenti alla lingua. Leopardi scrive nello Zibaldone che occorre star vicino al popolo che parla perché "è più vicino alla natura e privo di logica" - io traduco dalla imposizioni della mente. E Dante parla di poesia come lingua materna - non in quanto della madre - ma delle origini, cioè delle Spirito.
Dunque per me la lingua è un tramite alla verità e alla conoscenza, una voce di me, della gente che ho conosciuto, che ho amato e mi ha amato, dei luoghi in cui ho vissuto, ma anche della cultura mondiale che ho avvicinato - dico spesso che forse, oltre Salgari e Verne e la fisica di Einstein e il Corriere dei Piccoli e Socrate e Kant, anche Shakespeare, Dostoevskij, Cervantes e Drummond de Andrade hanno contribuito con Dante, Belli e Carlo Porta, a risvegliare la mia voce.
Che senso ha scrivere in dialetto oggi in Italia? Non si rischia, con questa scelta, di contribuire in qualche modo a minare ancora di più la già fragile unità italiana?
Che c’entra “la fragilità dell’unità italiana” con il dialetto in poesia? L’unità non è una questione di lingue ma di coscienze. Viene prima la vita poi la lingua. Si sta insieme e si parla una lingua comune quando si comprende che siamo figli di una stessa matrice, che ogni uomo è il suo prossimo, che l’altro è come noi nel profondo di se stesso, quando si capisce che ognuno deve saper sacrificare qualcosa nel rapporto con l’altro. L’unità d’Italia è in pericolo sin dagli inizi, perché è stata un’unità voluta dalla politica internazionale - gli interessi inglesi e francesi contro l’Austria - ed è stata sin dagli inizi supremazia di una regione (il Piemonte) contro le altre regioni, o almeno senza tener conto della volontà dei popoli italiani, e, soprattutto, l’imposizione di una lingua di minoranza potente (il becero toscanismo di Manzoni) 2,3% nel 1870 contro le lingue parlate (lombardo, veneto, ligure, napoletano ecc.) dal 97,7% degli italiani.
L’italiano si parla a maggioranza solo oggi. E non per una questione di “unità” o di “comuni interessi” ma per la diffusione televisiva. Ed è un italiano povero, inespressivo, del tutto adeguato alla finta unità e allo stato attuale delle coscienze. Non vedo proprio come l’uso o l’apprezzamento del dialetto possa incrinare l’unità nazionale. È semmai vero, come scriveva il grande linguista Graziadio Ascoli, che l’unità italiana e l’accesso ad una lingua nazionale non può che avvenire attraverso la conservazione e la crescita delle varie lingue regionali. Se la lingua è legata alla coscienza degli individui, come si può immettere una vera coscienza nel patrimonio nazionale negandone le lingue? L’Ascoli diceva: si parla meglio italiano insegnando ai popoli a leggere e scrivere nei loro dialetti. Ne è prova la ricchezza della narrativa italiana, che ha fatto largo uso dei dialetti in ogni epoca: dal siciliano del Verga, al triestino di Svevo, al piemontese di Fenoglio e Pavese. La gente crea lingua mentre vive e lavora. Non si può imporre una lingua dall’alto.
Se c’è semmai un segno della decadenza, non solo dell’unità della nazione, è nella perdita continua della creatività, semiscomparsa dell’artigianato e del lavoro manuale - e nell’aumento della passività umana nella produzione e nella disattenzione del centro alle periferie. La gente non attiva le proprie facoltà inconscie, diminuisce l’attenzione a sé, alla natura, alle materie, all’importanza dell’altro. I dialetti scompaiono, e l’italiano diventa burocratico e impoverito. La gente non inventa più la lingua. Qui è la radice dello sgretolamento, della dissoluzione. È lo Spirito che dà sapore al pane, come diceva l’antica sentenza.
Diceva un mio traduttore portoghese, “è più facile che c’intendiamo in milanese che in italiano”. E io correggo dicendo: ci si intende in dialetto, in italiano e in inglese quando l’amore ci porta alla comprensione reciproca.
Come si pone il poeta in rapporto al proprio tempo? La poesia è testimonianza storica, è partecipazione civile? O è visionarietà, è capacità di andare oltre la realtà apparente delle cose, di poter scorgere, l'al di là delle limitazioni e contingenze quotidiane, il senso più profondo della vita e anche della morte?
Lo sappia o non lo sappia il poeta è nel proprio tempo. Ma qual è il tempo? Per me è contemporaneo Dante, ed è mio contemporaneo anche Platone. Dunque il tempo è l'arco di una civiltà. Come scriveva qualcuno "un europeo d'oggi è cristiano anche quando non lo sa", e aggiungo anche quando non lo vuole. Ma cos'è il cristianesimo, se non la faccia ebraica di una religione e di una cultura ancora più antiche? Allo stesso modo non si può non avere partecipazione civile. Viviamo nella città e, in modo attivo o passivo, ne partecipiamo il destino. È la divaricazione degli interessi economici, con tutte le loro facce ideologiche e culturali, che scinde la città e quindi le vicende umane. Il poeta non è fuori da questa vicenda storica.
Sicuramente non si comprende la funzione della poesia, se non si comprende anche la sua natura politica. Il che non significa un uso della poesia, ma un'accettazione della più profonda essenza della poesia. Rivelando all'uomo ciò che non conosce e non sa, di sé, della natura, del mondo, la poesia rivela alla società una presenza al di fuori delle ideologie, delle dottrine, delle culture intellettuali. La proposta del poeta è dunque proposta incessante di un uomo al di fuori degli schemi culturali. La cultura ufficiale di una città è messa in crisi dalla poesia e la città accresce la sua visione di sé e delle proprie motivazioni sociali accogliendo la parola dissacrante del poeta. Voglio dire che una società, nel più alto significato della parola, è quella che ascolta il poeta. Accettare la poesia è accettare il diverso.
La poesia e la religione non dicono mai: "Questo è il mondo". Ma semmai: "Questo è il mio modo di essere nel mondo". La poesia, come la religione, dice: "La conoscenza della mente non è sufficiente a disegnare il mondo". Così l'apporto della poesia alla città è apertura verso il possibile e verso l'altro da sé.
Il senso più profondo della vita e della morte viene dall'uomo stesso. La poesia è figlia dell'uomo, non è un'astrazione letteraria. La poesia è il modo in cui l'uomo tiene vivo in sé e quindi nella città la verità dell'essere e del vivere. la civiltà si misura appunto nell'accettazione che una città fa dell'altro, dello sconosciuto, dello straniero, del diverso. Quindi della poesia. I greci hanno dato tanto, eccessivo, spazio alla mente per paura delle Erinni, cioè dell'imprevisto, dell'ignoto, di ciò che è "evento improvviso e inaccessibile". La poesia è questo evento, questo ammettere in sé e fuori di sé il mistero. E la morte e la vita sono congiunte nel mistero dell'essere.
Le limitazioni e contingenze quotidiane sono tali solo nella nostra mente, nell'eccesso delle paure, nel bisogno di sicurezza, nelle mancanze d'amore. Il desiderio è l'ombra della morte. Come dice Dante, nel "desìo" c'è il segreto dei nostri bisogni più profondi. Ma noi abbiamo "passione", cioè diventiamo passivi nel desiderio e confondiamo il desiderio col fine. Crediamo che le cose e le persone o le situazioni desiderate siano lo scopo di ogni nostro desiderio. Perciò siamo sempre delusi quando otteniamo ciò che riteniamo di volere. La città apparente è quella che ruota attorno ai desideri, la città reale è quella che guarda più in là. La poesia richiama dunque incessantemente la città allo sguardo. Questo è il compito politico della poesia. È come se qualcuno guardasse soltanto da un lato e lo si prendesse per le spalle e gli si mostrasse l'altro lato. Così la poesia allarga alla visione.
[1] Giacinto Spagnoletti, Storia della Letteratura Italiana del Novecento, Newton, Roma, 1994, p.800
Vera Lúcia de Oliveira, Perugia, 17 maggio 1990
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