01 luglio 2015

W. BENJAMIN TRA LAVORO E AMORE






Fabrizio Denunzio
Benjamin sul confine incerto tra lavoro e amore
La rice­zione fran­cese dell’opera di Wal­ter Ben­ja­min si lega alla prima tra­du­zione che ne fece Mau­rice de Gon­dil­lac nel 1959 per conto dell’editore Juil­lard. Come quella ita­liana – l’epocale Ange­lus Novus del 1962 curata da Renato Solmi – anche l’edizione di de Gan­dil­lac si basava su una scelta dei saggi ben­ja­mi­niani più impor­tanti che Theo­dor W. Adorno aveva rac­colto e pub­bli­cato con Suhr­kamp di Fran­co­forte nei due volumi che por­ta­vano come titolo lapi­da­rioSchrif­ten.

Molto più dell’Italia, la Fran­cia era quasi natu­ral­mente pre­di­spo­sta ad acco­gliere un’operazione edi­to­riale di que­sto tipo, non solo per­ché Parigi era stata luogo di asilo, seb­bene non troppo ospi­tale, di Ben­ja­min, non solo per­ché que­sti ne aveva amato e pro­mosso la let­te­ra­tura, ma anche per­ché, pen­sando soprat­tutto alle tor­men­tate vicende edi­to­riali dell’Opera d’arte nell’epoca della sua ripro­du­ci­bi­lità tec­nica, ne aveva fre­quen­tato alcuni dei pro­ta­go­ni­sti: Ray­mond Aron, il grande socio­logo diret­tore della sede pari­gina dell’Istituto per la ricerca sociale di Fran­co­forte, sulla cui rivi­sta vide la luce la prima ver­sione del sag­gio; Pierre Klos­so­w­ski, non solo tra­dut­tore di quest’ultimo, ma anche mem­bro di quel Col­le­gio di Socio­lo­gia di cui face­vano parte Geor­ges Bataille e Roger Cail­lois, ad alcune delle cui riu­nioni Ben­ja­min era stato ammesso.

Il breve sag­gio che pre­sen­tiamo alle let­trici e ai let­tori de «il mani­fe­sto» [anche questo ripreso su Vento largo], qui tra­dotto per la prima volta in ita­liano, è il testo dell’intervento che de Gan­dil­lac tenne nel corso dell’importante con­ve­gno inter­na­zio­nale svol­tosi a Parigi dal 27 al 29 giu­gno del 1983 e dedi­cato, non a caso, a «Wal­ter Ben­ja­min et Paris», i cui atti nel 1987 furono pub­bli­cati dai tipi di Cerf.

Sono due i motivi d’interesse che spin­gono a pub­bli­care que­sto inter­vento: l’autore e l’interpretazione che dà della vita e dell’opera di Ben­ja­min. Seb­bene in Ita­lia di de Gan­dil­lac non sia stato pub­bli­cato nulla, il suo nome si lega a quello – que­sto sì molto più noto nei nostri ambienti cul­tu­rali – di Gil­les Deleuze. Esperto di filo­so­fia antica e medioe­vale, de Gan­dil­lac fu diret­tore di tesi di Deleuze, di quella grande ricerca che cono­sciamo come Dif­fe­renza e ripe­ti­zione.

All’attività di ricerca univa quella infa­ti­ca­bile di tra­dut­tore dal tede­sco: non solo Ben­ja­min, ma, almeno per men­zio­nare un altro, Nie­tzsche col suo Così parlò di Zara­thou­stra. Di tutti que­sti aspetti si ricor­derà Deleuze quando, nel 1985, col sag­gio Les pla­ges d’immanence, dedi­cherà un «sin­cero» e «rispet­toso» omag­gio ad uno dei suoi mae­stri più discreti e meno com­bat­tuti (si pensi alle rot­ture con Fer­di­nand Alquié e Jean Hyp­po­lite). Quindi, un de Gan­dil­lac che si può arri­vare a sco­prire attra­verso la media­zione d’eccezione di Deleuze.

Il secondo motivo d’interesse è rap­pre­sen­tato dall’interpretazione di Ben­ja­min. Breve, ma fol­go­rante. Come chiave di accesso de Gan­dil­lac usa una cate­go­ria che oggi più che mai serve a spie­gare, non tanto, o almeno, non solo, l’opera ben­ja­mi­niana, ma alcuni aspetti dell’esperienza sociale con­tem­po­ra­nea: il pas­sag­gio.

Se con il socio­logo tede­sco Ulrich Beck prima, e con Richard Sen­net poi, rico­no­sciamo che tanto l’assunzione dei rischi in ogni pro­getto deci­sivo della nostra vita quo­ti­diana, quanto la dislo­ca­zione lavo­ra­tiva sono feno­meni distin­tivi del nostro mondo sociale, allora, dob­biamo pen­sare che ognuno di essi è un pas­sag­gio: da una rela­zione affet­tiva ad un’altra (il rischio fal­li­men­tare imma­nente ad ogni con­vi­venza o ad ogni matri­mo­nio), da una città ad un’altra (il pen­do­la­ri­smo). 
Seb­bene de Gan­dil­lac con grande finezza e acume pensi il pas­sag­gio ben­ja­mi­niano nelle sue sva­riate e com­plesse forme, da quelle geo­gra­fi­che (dall’Europa all’America) a quelle miti­che (dal mondo umano a quello divino), da quelle lin­gui­sti­che (tra­du­zione come tran­sito da una lin­gua ad un’altra) a quelle epi­ste­mo­lo­gi­che (dal tempo con­ti­nuo al discon­ti­nuo), esse diven­tano per noi, oggi, meta­fore di quei pas­saggi con­ti­nui a cui sono sot­to­po­ste alcune delle nostre prin­ci­pali espe­rienze sociali, quelle che deter­mi­nano il nostro essere nel mondo: l’amore e il lavoro.

 ***

 Maurice de Gandillac

Le affinità elettive di Walter Benjamin


Wal­ter Ben­ja­min si è tolto la vita per­ché gli fu negato un pas­sag­gio verso il mondo libero. Già poco inte­grato durante l’esilio pari­gino, avrebbe tro­vato un accesso auten­tico all’America? Durante tutta la sua vita cercò di acco­gliere istanze impos­si­bili, com’è noto, quelle del mar­xi­smo e dell’ebraismo. Vor­remmo, in modo molto sche­ma­tico, rin­viare a qual­cuno dei testi in cui si tro­vano signi­fi­ca­ti­va­mente riu­niti pas­sag­gio e destino.

Nelle due ver­sioni del poema di Höl­der­lin che Ben­ja­min com­menta all’inizio della Prima Guerra mon­diale («Il corag­gio dei poeti» e «Timi­dezza»), si ha a che fare col poeta disar­mato a cui nulla di male può acca­dere lungo la strada che lo con­duce lì dove deve arri­vare e, in seguito, con la catena di bronzo che, in que­sto pas­sag­gio, si for­gia tra gli dei e gli uomini.

L’uso del ter­mine geschickt(inviato, ido­neo) rin­via al destino che costi­tui­sce come inse­pa­ra­bili il canto del poeta e il popolo che si nutre di que­sto canto. Ma è soprat­tutto nel 1921, nel testo «Destino e carat­tere», che appare la rela­zione che vogliamo evi­den­ziare. Il destino si mani­fe­sta attra­verso dei segni che sup­pon­gono una rot­tura; un carat­tere inal­te­ra­bile non è un destino, e gli dei sfug­gono pro­prio alla cate­go­ria delloSchick­sal. Agli uomini il destino si mani­fe­sta quando la loro vita si rivela con­dan­nata, dun­que, col­pe­vole, e una delle sue forme prin­ci­pali è la vio­lenza divina ed espia­trice (vi veda l’episodio della tribù di Korah in «Per una cri­tica della vio­lenza»).

Que­sta Gewalt si esprime nel più ecla­tante dei modi come spa­ri­zione improv­visa (si pensi non tanto alla lenta discesa nella tomba sacra di Edipo a Colono, quanto al destino della «Regina della Notte» nel «Flauto magico» di Mozart). Lo stesso testo del 1921 evoca, a pro­po­sito della morte di Niobe, la nozione di «fron­tiera» (tra l’umano e il divino), già l’anno pre­ce­dente, però, par­lando di Dostoe­v­skij, Ben­ja­min descri­veva l’improvvisa com­parsa dell’immortalità in un istante «indi­men­ti­ca­bile», e pur­troppo dimen­ti­cato, poi­ché la cata­strofe finale sot­trae all’Idiota ogni ricordo.

Il destino, con i suoi segni e i suoi pre­sagi, domina l’intera ana­lisi ben­ja­mi­niana delle «Affi­nità elet­tive». L’acqua è cen­trale, e il pas­sag­gio in barca da una riva all’altra segna il destino del figlio di Car­lotta che cade dalle brac­cia di Otti­lia. Qui Ben­ja­min pre­senta la «vio­lenza natu­rale» sotto la sua forma più bruta. L’enigmatico epi­so­dio del bic­chiere di cri­stallo che (durante l’inaugurazione dell’edificio che diven­terà la camera mor­tua­ria di Otti­lia) viene preso al volo invece di cadere e rom­persi, signi­fica il rifiuto di un’offerta sacri­fi­cale, la col­pe­vo­lezza di quelli che si atten­gono al Dies­seits e igno­rano i segni del pas­sag­gio alJen­seits . Ridotta al magico e al mitico, la «panar­chia» della pura natu­ra­lità resta gestal­tlos, senza vero destino. Il rac­conto incluso nel romanzo mostra un destino che si forma tra un nau­fra­gio e l’occasione colta di una vera Ver­söh­nung (ricon­ci­lia­zione), men­tre sulle teste degli eroi delle «Affi­nità elet­tive» la spe­ranza reden­trice che weg­fährt, passa inu­til­mente, come una stella caduta dal cielo.

Dalle rifles­sioni di Ben­ja­min sul com­pito del tra­dut­tore (Pre­fa­zione ai Tableaux pari­siens di Bau­de­laire, 1923), si nota che la tra­du­zione, «pas­sag­gio» da una lin­gua all’altra, è al con­tempo, per l’opera stessa, muta­zione e rin­no­va­mento, destino che len­ta­mente sva­ni­sce quanto più le lin­gue «si svi­lup­pano così fino alla fine mes­sia­nica della loro sto­ria». L’opera del buon tra­dut­tore è quella di rive­lare il destino dell’opera, ma l’esempio di Höl­der­lin dimo­stra che ciò è pos­si­bile a prezzo di un crollo.

Nel 1931, nella sua «Pic­cola sto­ria della foto­gra­fia», Ben­ja­min ricorda quanto, agli inizi, fosse giu­di­cata bla­sfema la fis­sa­zione chi­mica su di una placca di ciò che in sé è fug­ge­vole; ma pre­ci­sa­mente, soprat­tutto con l’uso del ral­len­ta­tore e dell’accelerazione, la tec­nica per­mette di cono­scere la «fra­zione di secondo in cui si modi­fica un movi­mento», di sepa­rare quindi l’oggetto dalla sua «aura», que­sto sin­go­lare intrec­cio di spa­zio e di tempo che, in una sola volta, sop­prime ogni distanza e per­mette al foto­grafo, erede di auguri e indo­vini, di «sco­prire la colpa» e di «rive­lare il colpevole».

Di un tono più sereno, meno segnati dalla coscienza della col­pe­vo­lezza, motivi ana­lo­ghi affio­rano spesso nelle pagine dedi­cate ai «Pas­sa­ges» di Parigi, per esem­pio, a pro­po­sito della tran­si­zione tra i modi di pro­du­zione, tra i mate­riali di costru­zione, del falan­stero che diventa città. Ma biso­gne­rebbe citare anche la «donna che passa» di Bau­de­laire o quell’apparizione cata­cli­smica di Alber­tine in Proust. E sot­to­li­neare il ruolo di pura discon­ti­nuità nei gio­chi di azzardo, il «tempo male­detto» pro­messo a chi «inve­ste senza aspet­tarsi gua­da­gni», fatti di con­ti­nue ripe­ti­zioni che impe­di­scono di cogliere i segni nei quali si legge il destino come pie­nezza e compimento.

Le rifles­sioni finali di Ben­ja­min nel 1940 sug­ge­ri­scono che il mate­ria­li­smo sto­rico, sospet­tato ma non rifiu­tato, non è in diritto di sosti­tuire al «pas­sag­gio» degli avve­ni­menti un «pre­sente che si man­tiene immo­bile sulla soglia del tempo», se non a con­di­zione di fare sal­tare il «con­ti­nuum della sto­ria» così da farvi pene­trare le «schegge» di quello che fino alla fine Ben­ja­min chiama, senza falsa ver­go­gna, il «mes­sia­ni­smo», essendo ben chiaro che nes­sun Mes­sia entra se non dalla più stretta delle porte.

Tra­du­zione di Fabri­zio Denunzio

il manifesto – 6 maggio 2015



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