Fabrizio Denunzio
Benjamin sul confine incerto tra
lavoro e amore
La ricezione
francese dell’opera di Walter Benjamin si lega
alla prima traduzione che ne fece Maurice de
Gondillac nel 1959 per conto dell’editore Juillard.
Come quella italiana – l’epocale Angelus Novus del
1962 curata da Renato Solmi – anche l’edizione di de Gandillac
si basava su una scelta dei saggi benjaminiani più
importanti che Theodor W. Adorno aveva raccolto
e pubblicato con Suhrkamp di Francoforte
nei due volumi che portavano come titolo
lapidarioSchriften.
Molto più dell’Italia,
la Francia era quasi naturalmente predisposta
ad accogliere un’operazione editoriale di questo
tipo, non solo perché Parigi era stata luogo di asilo, sebbene
non troppo ospitale, di Benjamin, non solo perché
questi ne aveva amato e promosso la letteratura,
ma anche perché, pensando soprattutto alle
tormentate vicende editoriali dell’Opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
ne aveva frequentato alcuni dei protagonisti:
Raymond Aron, il grande sociologo direttore della sede
parigina dell’Istituto per la ricerca sociale di
Francoforte, sulla cui rivista vide la luce la prima
versione del saggio; Pierre Klossowski, non
solo traduttore di quest’ultimo, ma anche membro di
quel Collegio di Sociologia di cui facevano
parte Georges Bataille e Roger Caillois, ad alcune
delle cui riunioni Benjamin era stato ammesso.
Il breve saggio che
presentiamo alle lettrici e ai lettori de
«il manifesto» [anche questo ripreso su Vento largo], qui tradotto per la prima volta in
italiano, è il testo dell’intervento che de Gandillac
tenne nel corso dell’importante convegno
internazionale svoltosi a Parigi dal 27 al
29 giugno del 1983 e dedicato, non a caso, a
«Walter Benjamin et Paris», i cui atti nel 1987
furono pubblicati dai tipi di Cerf.
Sono due i motivi
d’interesse che spingono a pubblicare questo
intervento: l’autore e l’interpretazione che dà della
vita e dell’opera di Benjamin. Sebbene in
Italia di de Gandillac non sia stato pubblicato
nulla, il suo nome si lega a quello – questo sì molto
più noto nei nostri ambienti culturali – di Gilles
Deleuze. Esperto di filosofia antica e medioevale,
de Gandillac fu direttore di tesi di Deleuze, di
quella grande ricerca che conosciamo come Differenza
e ripetizione.
All’attività di
ricerca univa quella infaticabile di traduttore
dal tedesco: non solo Benjamin, ma, almeno per
menzionare un altro, Nietzsche col suo Così
parlò di Zarathoustra. Di tutti questi aspetti si
ricorderà Deleuze quando, nel 1985, col saggio Les
plages d’immanence, dedicherà un «sincero» e
«rispettoso» omaggio ad uno dei suoi maestri più
discreti e meno combattuti (si pensi alle rotture
con Ferdinand Alquié e Jean Hyppolite).
Quindi, un de Gandillac che si può arrivare
a scoprire attraverso la mediazione d’eccezione
di Deleuze.
Il secondo motivo
d’interesse è rappresentato
dall’interpretazione di Benjamin. Breve, ma folgorante.
Come chiave di accesso de Gandillac usa una categoria
che oggi più che mai serve a spiegare, non tanto,
o almeno, non solo, l’opera benjaminiana, ma
alcuni aspetti dell’esperienza sociale contemporanea:
il passaggio.
Se con il sociologo
tedesco Ulrich Beck prima, e con Richard Sennet poi,
riconosciamo che tanto l’assunzione dei rischi in ogni
progetto decisivo della nostra vita quotidiana,
quanto la dislocazione lavorativa sono fenomeni
distintivi del nostro mondo sociale, allora, dobbiamo
pensare che ognuno di essi è un passaggio: da
una relazione affettiva ad un’altra (il rischio
fallimentare immanente ad ogni convivenza
o ad ogni matrimonio), da una città ad un’altra (il
pendolarismo).
Sebbene de Gandillac
con grande finezza e acume pensi il passaggio
benjaminiano nelle sue svariate e complesse
forme, da quelle geografiche (dall’Europa
all’America) a quelle mitiche (dal mondo umano a quello
divino), da quelle linguistiche (traduzione
come transito da una lingua ad un’altra) a quelle
epistemologiche (dal tempo continuo
al discontinuo), esse diventano per noi, oggi,
metafore di quei passaggi continui a cui
sono sottoposte alcune delle nostre principali
esperienze sociali, quelle che determinano il nostro
essere nel mondo: l’amore e il lavoro.
Traduzione di Fabrizio Denunzio
***
Maurice de Gandillac
Le affinità elettive di Walter
Benjamin
Walter Benjamin
si è tolto la vita perché gli fu negato un passaggio
verso il mondo libero. Già poco integrato durante l’esilio
parigino, avrebbe trovato un accesso autentico
all’America? Durante tutta la sua vita cercò di accogliere
istanze impossibili, com’è noto, quelle del marxismo
e dell’ebraismo. Vorremmo, in modo molto schematico,
rinviare a qualcuno dei testi in cui si trovano
significativamente riuniti passaggio
e destino.
Nelle due versioni
del poema di Hölderlin che Benjamin commenta
all’inizio della Prima Guerra mondiale («Il coraggio dei
poeti» e «Timidezza»), si ha a che fare col poeta
disarmato a cui nulla di male può accadere lungo la
strada che lo conduce lì dove deve arrivare e, in seguito,
con la catena di bronzo che, in questo passaggio, si
forgia tra gli dei e gli uomini.
L’uso del
termine geschickt(inviato, idoneo) rinvia al
destino che costituisce come inseparabili il
canto del poeta e il popolo che si nutre di questo canto.
Ma è soprattutto nel 1921, nel testo «Destino
e carattere», che appare la relazione che vogliamo
evidenziare. Il destino si manifesta attraverso
dei segni che suppongono una rottura; un carattere
inalterabile non è un destino, e gli dei
sfuggono proprio alla categoria delloSchicksal.
Agli uomini il destino si manifesta quando la loro vita si
rivela condannata, dunque, colpevole, e una
delle sue forme principali è la violenza divina
ed espiatrice (vi veda l’episodio della tribù di Korah in
«Per una critica della violenza»).
Questa Gewalt si
esprime nel più eclatante dei modi come sparizione
improvvisa (si pensi non tanto alla lenta discesa nella tomba
sacra di Edipo a Colono, quanto al destino della «Regina della
Notte» nel «Flauto magico» di Mozart). Lo stesso testo del 1921
evoca, a proposito della morte di Niobe, la nozione di
«frontiera» (tra l’umano e il divino), già l’anno
precedente, però, parlando di Dostoevskij,
Benjamin descriveva l’improvvisa comparsa
dell’immortalità in un istante «indimenticabile»,
e purtroppo dimenticato, poiché la
catastrofe finale sottrae all’Idiota ogni ricordo.
Il destino, con i suoi
segni e i suoi presagi, domina l’intera analisi
benjaminiana delle «Affinità elettive».
L’acqua è centrale, e il passaggio in
barca da una riva all’altra segna il destino del figlio di
Carlotta che cade dalle braccia di Ottilia. Qui
Benjamin presenta la «violenza naturale»
sotto la sua forma più bruta. L’enigmatico episodio del
bicchiere di cristallo che (durante l’inaugurazione
dell’edificio che diventerà la camera mortuaria di
Ottilia) viene preso al volo invece di cadere e rompersi,
significa il rifiuto di un’offerta sacrificale, la
colpevolezza di quelli che si attengono
al Diesseits e ignorano i segni del
passaggio alJenseits . Ridotta al magico e al
mitico, la «panarchia» della pura naturalità resta
gestaltlos, senza vero destino. Il racconto incluso nel
romanzo mostra un destino che si forma tra un naufragio
e l’occasione colta di una vera Versöhnung
(riconciliazione), mentre sulle teste degli eroi
delle «Affinità elettive» la speranza redentrice
che wegfährt, passa inutilmente, come una stella
caduta dal cielo.
Dalle riflessioni di
Benjamin sul compito del traduttore
(Prefazione ai Tableaux parisiens di
Baudelaire, 1923), si nota che la traduzione,
«passaggio» da una lingua all’altra, è al
contempo, per l’opera stessa, mutazione
e rinnovamento, destino che lentamente
svanisce quanto più le lingue «si sviluppano
così fino alla fine messianica della loro storia».
L’opera del buon traduttore è quella di rivelare
il destino dell’opera, ma l’esempio di Hölderlin
dimostra che ciò è possibile a prezzo di
un crollo.
Nel 1931, nella sua
«Piccola storia della fotografia», Benjamin
ricorda quanto, agli inizi, fosse giudicata blasfema
la fissazione chimica su di una placca di ciò che in
sé è fuggevole; ma precisamente,
soprattutto con l’uso del rallentatore
e dell’accelerazione, la tecnica permette di
conoscere la «frazione di secondo in cui si modifica
un movimento», di separare quindi l’oggetto dalla sua
«aura», questo singolare intreccio di spazio
e di tempo che, in una sola volta, sopprime ogni distanza
e permette al fotografo, erede di auguri e indovini,
di «scoprire la colpa» e di «rivelare il
colpevole».
Di un tono più sereno,
meno segnati dalla coscienza della colpevolezza,
motivi analoghi affiorano spesso nelle pagine
dedicate ai «Passages» di Parigi, per esempio,
a proposito della transizione tra i modi
di produzione, tra i materiali di costruzione,
del falanstero che diventa città. Ma bisognerebbe
citare anche la «donna che passa» di Baudelaire
o quell’apparizione cataclismica di Albertine
in Proust. E sottolineare il ruolo di pura
discontinuità nei giochi di azzardo, il «tempo
maledetto» promesso a chi «investe senza
aspettarsi guadagni», fatti di continue
ripetizioni che impediscono di cogliere i segni
nei quali si legge il destino come pienezza e compimento.
Le riflessioni
finali di Benjamin nel 1940 suggeriscono che
il materialismo storico, sospettato ma non
rifiutato, non è in diritto di sostituire al
«passaggio» degli avvenimenti un «presente
che si mantiene immobile sulla soglia del tempo», se non
a condizione di fare saltare il «continuum
della storia» così da farvi penetrare le «schegge» di
quello che fino alla fine Benjamin chiama, senza falsa
vergogna, il «messianismo», essendo ben
chiaro che nessun Messia entra se non dalla più stretta
delle porte.
Traduzione di Fabrizio Denunzio
il manifesto – 6 maggio
2015
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