Pubblicate le lettere
dal fronte di Ungaretti agli amici poeti. Un documento straordinario
di come per il poeta vita e poesia fossero un'unica cosa.
Cecilia Bello
Minciacchi
Ungaretti fra vita e
poesia
«È straordinario come
fanno la guerra alcuni nostri amici: Giuseppe Ungaretti soldato del
19° fanteria mi manda con naturale semplicità una sua stupenda
lirica e mi vuole bene». Così scriveva Gherardo Marone (Buenos
Aires 1891- Napoli 1962) in Idee, nella rubrica Bancarella della
rivista napoletana «La Diana». Era il giugno del 1916: la Grande
Guerra e «La Diana» affrontavano, in Italia, il loro secondo anno
di vita. Marone, che della rivista era instancabile e intraprendente
animatore, raccoglieva in quell’articolo brani di lettere ricevuti
dagli scrittori al fronte, amici e collaboratori già attivi o
potenziali.
Ungaretti era ancora
poeta poco noto – l’esordio su «Lacerba» nel 1915, poi un’altra
poesia su «La Voce» l’anno dopo –; alle prime ottanta copie
numerate del Porto Sepolto mancavano, nel giugno del 1916, ancora sei
mesi. Tra Ungaretti e Marone, lettore sensibile e avvertito, nasceva
un dialogo intellettuale, di poesia e di estetica, destinato in breve
a diventare amicizia: «amico Marone, fratello Marone».
Testimonianza dello scambio intenso, vivace e proficuo, sono le
lettere e le cartoline che Ungaretti gli scrisse dalla Zona di guerra
tra il 1916 e il 1918.
Di questi documenti, in
parte pubblicati da Armando Marone nel 1978 in Lettere dal fronte a
Gherardo Marone, introduzione di Leone Piccioni, appare un’edizione
nuova, significativamente accresciuta e filologicamente accertata ed
emendata, Da una lastra di deserto Lettere dal fronte a Gherardo
Marone (a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Mondadori, «I
Meridiani» paperback, pp. 268, e 15,00).
Il corpus delle missive è
ora arricchito dall’incrocio di tre fonti diverse. L’edizione del
1978 era stata condotta solo sui materiali conservati presso la
Biblioteca Nazionale di Napoli, quella attuale, invece, aggiunge
ventidue, tra lettere e cartoline, custodite dall’Archivio del
Novecento della Sapienza, e due documenti oggi perduti ma riprodotti
dal poeta argentino Nicolás Cócaro in Ungaretti soldado (Buenos
Aires, 1975). L’edizione nuova, inoltre, si è valsa anche delle
lettere di Ungaretti a Papini, a Pea, a Carrà, a Soffici, a
Prezzolini, inedite nel 1978 e ora efficacemente messe a frutto dalla
curatrice nelle note e nella bella introduzione.
Il primo documento della
corrispondenza con Marone data 18 aprile 1916, e per Ungaretti è
tutta una festa: ricevuto sotto le armi un numero della «Diana»,
risponde con entusiasmo vitale. Benché sminuisse i testi già
pubblicati – «qualche poesiola», scriveva, «roba minuscola,
nulla» –, e benché si mostrasse gentilmente riservato, Ungaretti
fu subito invitato a pubblicare sulla rivista napoletana
d’avanguardia aperta a influenze plurali e temperamenti diversi.
«Troppi personaggi»,
confessava a Papini, pur segnalandogli Marone per il suo «molto
cuore», per il suo non essere «volgare». E se nel 1917 quella
rivista gli sembrava «ancora una cosa un po’ fatua, un po’
disordinata», Marone gli appariva «un giovine che s’appassiona»,
«di vocazione». Ungaretti non gli fu avaro: già nel maggio 1916 su
«La Diana» stampò Fase, pur sentendo il tempo di guerra non
consono alla pubblicazione, non a quella commerciale o diffusa. Lo
tratteneva il «pudore», a più riprese affiorante, nelle condizioni
estreme della trincea: «Ho deciso oggi – dopo aver molto pianto –
quel terribile pianto che non si scioglie – che sempre più si
pietrifica dentro – di rimanere in silenzio», aveva scritto
nell’aprile del 1916.
L’immagine, annota
Francesca Bernardini, tornerà nel Porto Sepolto, in Sono una
creatura, «dove la percezione tutta interiore del pianto che «si
pietrifica dentro» viene rivolta all’esterno, attribuita al
destinatario («Come questa pietra / è il mio pianto / che non si
vede»)».
Solo qualche mese più
tardi, a Papini, interlocutore importante, intellettuale ammirato,
venerato, scriverà: «no, niente esibizioni più; a che prò?; non
ho nessuno da convertire; ho da vivere; (…) dieci copie manoscritte
delle mie cose a dieci amici miei; con l’obbligo per loro e per me
del segreto». È lo stato d’animo in cui nasce l’edizione in
tiratura limitata del Porto Sepolto: un dono di poesia – «di arte»
avrebbe detto –, una comunicazione-comunione con pochi affezionati,
con pochi lettori all’altezza.
Ungaretti, infatti, di là
dagli schermi, è ben consapevole del valore dei propri versi: mentre
il Porto Sepolto è ancora in tipografia, annuncia a Marone che «sarà
il miglior libro dell’anno anche se pochi ci si fermeranno». Prova
amara sorpresa quando Jahier e Carrà tardano a scrivergli del libro,
apprezza con gratitudine i commenti che gli giungono diretti o
riferiti, e vive commosso «l’ora più bella» che s’aspettava
dal Porto quando Papini per primo, con acume e lungimiranza,
recensisce la raccolta sul «Resto del Carlino» il 4 febbraio 1917.
Le lettere testimoniano il labor limae che fin dall’inizio ha
contraddistinto la poesia ungarettiana, e il proliferare delle
varianti che si succedono immediate, anche non appena il plico con i
testi in bella copia sia stato inviato dalla Zona di guerra.
Così accade per Il ciclo
delle 24 ore, dedicato a Papini e destinato all’Antologia della
Diana: spedito da pochissimo, è subito seguito da correzioni, che
generano più di un’edizione «definitiva», tutte inviate lo
stesso giorno con apprensive richieste di riscontro.
Emblema delle diverse
strade imboccate dai documenti e della necessità di ricomporre da
queste l’itinerario biografico e letterario, come fa Da una lastra
di deserto, è l’incrocio tra versioni conservate in Fondi separati
attestato dal Ciclo delle 24 ore.
Altre varianti di rilievo
interpretativo compaiono nella tranche di corrispondenza ritrovata
più di recente e più fortunosamente – una busta con
centoquarantasei lettere di mittenti diversi finita su una bancarella
di Porta Portese –; tra gli esempi, titoli di componimenti poi
mutati, attestati qui da unico testimone manoscritto: Vivere poi
divenuto Distacco e Torbido poi Attrito. Oltre alle preziose
citazioni di inedite lettere di altri corrispondenti della «Diana»,
conservate presso l’Archivio del Novecento e offerte in nota, uno
dei contributi filologici più notevoli dell’edizione scientifica e
al tempo stesso affabile approntata da Francesca Bernardini
Napoletano, è la scoperta di un’attribuzione erronea. All’esame
materiale delle carte, la poesia Notte, attribuita a Ungaretti nelle
lettere pubblicate più di trentacinque anni fa, e nella recente
edizione commentata di Vita d’un uomo (Mondadori, 2009), si rivela
autografo ungarettiano, sì, ma di quattro versi di Gino Chierini.
Da una lastra di deserto
– titolo nato dalla suggestione di uno splendido sintagma d’autore
– è racconto vibrante di umanità e ininterrotta riflessione di
poetica, elaborazione comune di prosa e poesia. Nell’Allegria, ha
osservato Guido Guglielmi, Ungaretti «ha vissuto la propria
autobiografia come autobiografia della poesia».
In queste lettere vita e
poesia s’intrecciano, si specchiano con evidenza anche più nitida,
e non in risposta a narcisismi estetizzanti ma a urgenze emotive e
intellettuali aperte alla condivisione. Si guardi alla coincidenza,
nell’animo del «dolorante poeta», di affetto e stima – per
Papini, Pea, Cestaro, Apollinaire… –, si congiunga come anello
perfetto il desiderio di ricostruzione psicologica e letteraria, la
lucidità di analisi e di programmazione culturale delle ultime
missive dal fronte con la prima lettera a Marone: «Amiamo la vita;
lasciamoci prendere dalla vita; non resistiamo alla vita. E verrà su
la più vera poesia».
Il manifesto Alias – 5 luglio 2015
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