Un viaggio attraverso la
storia dei cibi essenziali che hanno anche un alto valore simbolico
per la nostra tradizione Si inizia con l'alimento per eccellenza: il
pane.
Marino Niola
La parabola del pane
da dio a demonio
Durante la grande
depressione del Ventinove, a Central Park i piccioni portavano
briciole di pane ai passanti. Questa folgorante battuta di Groucho
Marx mostra, più di mille ragionamenti, che il pane è il cibo per
antonomasia, il minimo vitale della sussistenza umana. Alimento
ordinario dell'uomo civilizzato. Così lo definiscono gli antichi
dizionari. E in effetti la panificazione costituisce da sempre una
frontiera dell'umanità. I mortali, come dice Omero, sono per
antonomasia i mangiatori di pane. A differenza dei bruti e degli
animali la cui alimentazione non ha nulla di civile.
È il caso di bestioni
come Polifemo. Che, isolato nella sua cavernicola autarchia, non vive
in comunità, non pianta alberi, non coltiva la terra, non coproduce
il cibo con i suoi simili. Beve solo latte crudo e mangia allo stato
naturale, tant'è che divora i compagni di Ulisse ancora vivi. Del
resto i Greci, la cui autostima era proverbiale, per distinguersi dai
Barbari consumatori di carne e latte, amavano definirsi mangiatori di
farine bianche come la neve. Tutto il contrario dell'immaginetta
salutista contemporanea che si alimenta di fantasie sul pane
integrale degli antichi.
I gourmet ellenici
andavano fieri delle loro boulangerie , che sfornavano ben
settantadue tipi di pane. Dall'amatissimo semidelites , fatto con
fior di farina di frumento, al daraton tessalico, che era senza
lievito. Dalla bromite , fatta di sola avena selvatica al chondrites
, ricercatissimo per il suo sapore di cruschella, dal candido zymites
, lievitato e fragrante, fino alla comunissima matza , la focaccia
d'orzo che è arrivata fino ai nostri giorni. Insomma un'offerta
sterminata da fare invidia alla più fighetta delle nostre bakery .
Nell'Atene di Pericle i grandi fornai erano delle autentiche star,
proprio come gli chef di oggi. Primo fra tutti Tearione, che Platone
definiva "mirabile terapeuta dei corpi" grazie alle virtù
miracolose dei suoi prodotti da forno.
E anche nella Roma caput
mundi, il pane continua a parlare la lingua di Atene. Al tempo di
Augusto nell'Urbe si contavano la bellezza di trecentoventinove
panetterie, tutte rigorosamente greche. Insomma in Grecia il pane era
un cibo di culto, ma nel vero senso della parola. Grano e cereali
erano infatti un dono di Demetra, la dea madre, e avevano il loro
simbolo nel dio Adone, figlio di una vergine, che moriva e risorgeva
in primavera, proprio come le spighe.
I misteri adoniaci, una
sorta di Passione del grano, una Pasqua prima della Pasqua, venivano
celebrati in tutto il Mediterraneo. Ed erano particolarmente sentiti
a Betlemme, che significa letteralmente la "casa del pane".
Non è un caso che proprio lì sarebbe nato colui che nei Vangeli si
definisce il pane della vita. Perché Gesù offre all'umanità il
dono-perdono del suo corpo transustanziato in pane eucaristico. Come
recitano le parole dell'ultima Enciclica di Papa Francesco, il
Signore "arriva a farsi mangiare dalla sua creatura".
Pietro Crisologo, vescovo
di Ravenna nel Quattrocento, definisce Cristo con una bellissima
metafora alimentare: "seminato nella Vergine, fermentato nella
carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, donato
ai fedeli come cibo celeste". È la messe che diventa messia. E
che il nostro immaginario, di credenti e non credenti, sia fatto
della stessa materia di cui è fatto il pane lo dimostra il fatto
che, nell'Europa del Medioevo, coloro che si macchiavano di delitti
contro la comunità e contro l'umanità venivano esclusi dal consumo
di pane.
Era il caso dei
profanatori di tombe che la Legge Salica, emanata da Clodoveo re dei
Franchi, considerava alla stregua di bestie feroci che non avevano
più nulla di umano. Per una ragione analoga i fornai impedivano ai
boia l'ingresso nella loro bottega. E quando in Francia Carlo VIII li
obbligò ad accettare quei clienti così sgraditi, i panettieri gli
rovesciavano la pagnotta sul banco in segno di disprezzo. Da questo
antico uso deriva il nostro tabù del pane rovesciato, considerato un
segno di cattivo augurio. Inoltre, secondo una diffusissima credenza
popolare, capovolgendo il pane sulla tavola si commettono tre
peccati: si volta la faccia a Gesù, si fa cadere la Madonna dalla
sedia e si fa soffrire l'anima di un parente defunto in Purgatorio.
L'importanza simbolica
del cibo umano per antonomasia è scritta a chiare lettere nelle
lingue indoeuropee. Come mostra l'antico inglese, dove parole
fondamentali come lord e lady hanno entrambe a che fare con le
tecniche della panificazione. Il primo deriva da hláford , da
hláf-weard , cioè "guardiano del pane". Mentre lady viene
da hlaef-dige , "colei che impasta". Nostra signora della
lievitazione. Come dire che le figure di potere sono tali proprio in
quanto sono responsabili e garanti della materia prima della
sussistenza.
Il fatto che il pane sia
il risultato di una cooperazione, dunque un prodotto sociale per
eccellenza, ne fa l'emblema ideale della comunità umana che ha
bisogno dello scambio e della solidarietà per vivere. Dal pane
derivano, infatti, parole come compagno, dal latino cum panis, per
indicare la reciprocità che lega coloro che condividono il
nutrimento. Ecco perché in tutta Europa, durante le feste comandate,
i poveri ricevevano pagnotte in dono. E ancora pani venivano
scambiati come dono di fidanzamento o di nozze, riprendendo così
l'antichissimo rituale romano della confarreatio , durante il quale
gli sposi spezzavano una focaccia di farro in onore di Giove, il
padre-padrone dell'Olimpo. E non è un caso che la preghiera dei
cristiani metta insieme il padre nostro e il pane quotidiano. Del
resto la parola pane ha a che fare sia con la paternità sia con il
nutrimento.
E forse la demonizzazione
del pane che attraversa l'Occidente contemporaneo annuncia proprio
l'eclissi della comunità. La separazione tra l'io e il noi. Fra chi
non mangia perché non ha cibo e chi lo spreca perché ne ha troppo.
Oggi è più che mai vero quel che dice un vecchio proverbio tzigano.
Mentre i ricchi sognano i sogni, i poveri sognano il pane.
La repubblica – 8
luglio 2015
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