E’
stata finalmente raccolta in un gran libro l’intera opera poetica in lingua
italiana di Giuseppe Giovanni Battaglia ( Poesie 1979-1994, a cura di
Vincenzo Ognibene, Lithos Editrice, Roma 2015).
Ci
siamo già occupati di Pino Battaglia soffermandoci sui suoi versi dialettali, raccolti in La terra vascia e ne La
piccola valle di Alì, tanto amati da
Sciascia e Pasolini.
Dai
versi raccolti in quest’ultimo volume di 504 pagine viene fuori un autore che
non mi sembra esagerato accostare ai più grandi poeti del 900.
Nel
rimandare ad un’altra occasione l’analisi dei testi (molti dei quali inediti),
proponiamo di seguito un articolo di Ferruccio Cuniberti. (fv)
Poeti contadini.
Rocco Scotellaro e Giuseppe Giovanni Battaglia
di Ferruccio Cuniberti
Rocco è del tutto nel mondo contadino, parte di esso per nascita, per
costume, per lingua, per solidarietà di natura, e insieme ne è necessariamente
fuori per la sua qualità espressiva.
Questa definizione di Carlo Levi della figura del
poeta, scrittore, militante politico, Rocco Scotellaro, potrebbe perfettamente
adattarsi alla biografia di Giuseppe Giovanni “Pino” Battaglia.
Scotellaro, nato in Lucania a Tricarico nel 1923, è
morto appena trentenne nel 1953. In quell’anno Pino Battaglia, nato in Sicilia
ad Aliminusa nel 1951, compiva due anni. Anch’egli avrebbe avuto il destino di
una vita breve, forse perché, si usa dire per consolazione, Dio chiama a sé
quelli che ama di più, o forse perché le vite si consumano quanto più
intensamente sono vissute, oppure è semplicemente il Fato avverso che gioca
brutti tiri. La sua prematura fine arriverà a quarantaquattro anni nel 1995.
Quasi un trentennio separa le due esperienze, ma le similitudini sono evidenti
pur nei diversi moduli stilistici.
È sempre di Carlo Levi la definizione di “poeta
contadino” per Rocco Scotellaro, mentre Pino Battaglia definiva se stesso
“pueta viddanu”, anch’egli poeta contadino quindi. Entrambi hanno vissuto
l’esperienza del sindacalismo, Scotellaro nel dopoguerra ai tempi delle
occupazioni delle terre da parte dei contadini, fino a diventare, a soli 23
anni, sindaco di Tricarico per il Partito Socialista; Battaglia, per ragioni
anagrafiche, assistendo nei suoi anni alla disfatta di quella civiltà contadina
in cui piantava le sue radici, militando nella CGIL da cui uscirà dissidente
nel 1984.
Non sappiamo quanto a fondo Battaglia conoscesse
l’opera di Scotellaro (ben poco pubblicato e diffuso oggi come allora),
ma le forti analogie delle due vite non potevano non influenzare anche in
modo indipendente le loro tematiche esistenziali e letterarie. Culturalmente
Scotellaro risentiva di altre ispirazioni, dagli esordi quasi scolastici,
appena diciassettenne, con echi di una certa poesia bucolica pascoliana e
carducciana, per orientarsi poi verso forme tardive dell’ermetismo, fino alle
prove intuitive di una sperimentazione germinale. La morte, che lo ha colto nel
pieno della sua elaborazione intellettuale lasciando anche prose incompiute
(come il romanzo L’uva puttanella), non gli ha consentito altri sviluppi
e lo ha relegato per decenni nell’area ristretta del neorealismo, corrente di
breve respiro presto contestata dalle avanguardie degli anni 60 che si
opponevano a ogni forma di naturalismo nelle arti. Per Battaglia il caso è più
complesso poiché, partito dalla scelta per fini estetici ed espressivi del
dialetto siciliano, nella sua variante di Aliminusa nelle Madonie, ha avuto il
tempo di attuare una crescita interiore e cosciente della sua arte,
distaccandosi progressivamente, sebbene mai definitivamente, dalle forti
tematiche contadine e sociali dei suoi esordi (militanza programmatica
sin dai titoli delle prime raccolte degli anni 70: La terra vascia; La
piccola valle di Ali; Campa padrone che l’erba cresce) per volgersi
a una riflessione più intimista, interiore, filosofica, sui temi fondanti della
natura, del divino, dell’amore, della vita e della morte. Singolare è tuttavia
la costante valenza materica del verso di Battaglia, dove il verbo (la “vuci”)
si fa luogo, sostanza, animale, elemento tangibile e simbolico. La recente
pubblicazione di tutta l’opera delle poesie in lingua italiana, oltre a fornire
un’idea della grandezza di Battaglia come poeta nazionale (e sottolineo
nazionale, non regionale, dialettale) consente una ricognizione sul lessico che
mette a nudo le sue radici terragne o sotterranee: almeno un centinaio di volte
compaiono le parole “pietra” – con le sue varianti “pietraia”, “roccia” -, e
“terra”, e quasi altrettante le parole “serpe”, “vipera”, animali che sulla
terra strisciano e si nascondono, simboli antropologici del mondo ctonio.
Popolano i versi di Battaglia gli animali, gli uccelli, le formiche, le
chiocciole. Due versi fulminanti enunciano: “La mano che rimuove la
pietra/àltera un piccolo universo”. E immaginiamo il brulichio di vita che sta
sotto un sasso in campagna quando lo solleviamo, e il disturbo generato
dall’intervento dell’uomo in quel mondo in sé conchiuso, metafora
dell’improvvidità umana. Nello spirito Battaglia non ha mai abbandonato le
origini, come dichiara nel 1988:
“Ho smesso di scrivere in lingua siciliana nel 1978; è
stata una bella esperienza, sono cresciuto confrontandomi giorno per giorno con
il mio lavoro poetico, in una vera e propria simbiosi; sono intervenuto sulla
lingua, da diversi punti di vista, non ultimo nella sua musicalità. Peraltro,
ho tentato di far vivere anche nel mio verso, la fine della cultura contadina,
cosa tutt’altro che facile.”
Nel narrato poetico Battaglia si avvicina talora a
Scotellaro attraverso lo stile oracolare di ascendenze mitico-bibliche e
con l’uso dell’iterazione dei nomi e dei versi su imitazione delle litanie
religiose e del canto popolare. Ricorrenti e vicine figurazioni e tematiche agresti
che sottendono la tragicità dell’essere umano.
Qui
Scotellaro (Campagna):
Passeggiano
i cieli sulla terra e
le nostre curve ombre
una nube lontano ci trascina.
Allora la morte è vicina
il vento tuona giù per le vallate
il pastore sente le annate
precipitare nel tramonto
e il belato rotondo nelle frasche.
le nostre curve ombre
una nube lontano ci trascina.
Allora la morte è vicina
il vento tuona giù per le vallate
il pastore sente le annate
precipitare nel tramonto
e il belato rotondo nelle frasche.
Qui
Battaglia (Soprana):
Alto è il
monte e un vento spira
che porta odori di buone erbe;
qui né santuari né passi d’uomo,
ma di suoni armonie e d’uccelli
certezza di canto. Nella grande
valle il tempo riunito; l’uno è
l’erba, la sentenza è pronunziata;
per dimorare è la pietra,
è per radicarsi l’albero.
che porta odori di buone erbe;
qui né santuari né passi d’uomo,
ma di suoni armonie e d’uccelli
certezza di canto. Nella grande
valle il tempo riunito; l’uno è
l’erba, la sentenza è pronunziata;
per dimorare è la pietra,
è per radicarsi l’albero.
Vicinanza
troviamo anche nell’uso della denuncia o dell’invettiva.
Scotellaro (Noi
che facciamo?):
Noi che
facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pietre.
[…]Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pietre.
[…]Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Battaglia (L’ira
del pastore):
«Voi che
avete distrutto i pascoli verdi
dove le epoche avevano sedimentato
il sogno, voi che avete reso minimo
l’oro delle costruzioni dei boschi,
voi che dell’infanzia del mondo
avete saputo imbastire un groviglio,
voi i destinatari del mio disprezzo.
Io, nella rocca del mondo, m’ascolto
esistere e mi rivolgo alle pietre,
alle canne, agli incantati pagliai,
e non scricchiolano le ossa dei miei centanni».
dove le epoche avevano sedimentato
il sogno, voi che avete reso minimo
l’oro delle costruzioni dei boschi,
voi che dell’infanzia del mondo
avete saputo imbastire un groviglio,
voi i destinatari del mio disprezzo.
Io, nella rocca del mondo, m’ascolto
esistere e mi rivolgo alle pietre,
alle canne, agli incantati pagliai,
e non scricchiolano le ossa dei miei centanni».
Potrebbero e dovrebbero terminare qui questi pochi
esempi, perché l’opera di Pino Battaglia procede ben oltre le prove letterarie
di Scotellaro, per maturità, consapevolezza, irrequietezza d’animo, tormento
culturale, ricerca stilistica. Come si è detto è il dato biografico comune che
genera queste associazioni, per un insieme di referenze ipertestuali che
tuttavia non autorizzano a porre sullo stesso piano esperienze artisticamente
distanti nel tempo e nella diversa temperie storica e sociale.
Nei riguardi di Pino Battaglia resta il rammarico per
l’ombra, il pregiudizio intellettuale, sotto i quali è restato a lungo relegato
un poeta considerato troppo spesso dialettale o provinciale e che andrebbe
invece posto tra i maggiori del secondo Novecento, vanto della Sicilia e
dell’Italia. La nascita del Parco Letterario a lui intitolato, per opera del
Comune di Aliminusa e del fraterno amico il pittore-poeta Vincenzo Ognibene,
nel 2014, e la ripubblicazione nel 2015 delle sue opere in lingua, si spera
facciano finalmente giustizia.
Pino Battaglia (1951-1995)
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