Per
gli amanti di Fenoglio un volume da non perdere.
Lorenzo Mondo
Su L’Illuminista un Fenoglio a 360 gradi
Nell’eco
dei settant’anni dalla guerra di Liberazione, la rivista
L’Illuminista è uscita con un numero triplo dedicato interamente a
«Beppe Fenoglio». E’ un volume di 800 pagine curato da Gabriele
Pedullà, uno dei più agguerriti critici dello scrittore di Alba. E
merita il più vivo apprezzamento per una serie di ragioni. E’
introdotto intanto da un’ampia cronologia della vita di Fenoglio,
basata sulle testimonianze dirette che offrono «un ritratto a più
facce, quasi ‘cubista’, di un narratore altrimenti famoso per il
suo riserbo a la sua impenetrabilità».
Segue poi una antologia della critica che rappresenta una grande novità. Raccoglie infatti tutti gli articoli e i saggi che accompagnarono la prima uscita dei suoi libri (con qualche aggiunta ulteriore particolarmente significativa). E’ un contributo prezioso per gli studiosi e gli ammiratori di Fenoglio, documenta infatti dal vivo le impressioni e i giudizi dei primi lettori, disegnando l’accidentata parabola della sua fortuna. Condizionata, oltreché dall’intelligenza di un critico, dalla temperie culturale e politica.
Registriamo così,
facendo seguito alle incomprensioni di Vittorini, le ottuse denunce
che gli vennero mosse per lesa Resistenza e leso Neorealismo
(successivamente ritrattate, nel perdurante imbarazzo per il
paradosso rappresentato dal massimo cantore della Resistenza che si
proclamava monarchico e anticomunista).
Ma non mancò fin dai primordi un blocco di ferventi estimatori, come Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Giorgio Bàrberi Squarotti, e la battagliera Anna Banti che non darà tregua, anche sotto il profilo politico, ai detrattori. Le oscillazioni e riserve si stemperarono quando uscì nel 1959 Primavera di bellezza, fino a quando i romanzi postumi, Una questione privata e Il partigiano Johnny, decretarono la sua apoteosi.
Tra le rare eccezioni, la sordità di Pasolini che si fa curiosamente censore «purista» del linguaggio fenogliano. Ma egli gode ormai di grande consenso anche tra le nuove generazioni, e viene proclamato uno dei vertici della letteratura novecentesca. Avvertendo che l’ispirazione resistenziale e langarola, pur imprescindibile, è soltanto una delle modalità in cui si esprime il suo sentimento tragico della vita, intriso di visionarie, «metafisiche» suggestioni.
Per dirla con Giovanni Raboni, non bisogna dimenticare che le Langhe svolgono in lui «anche un ruolo violentemente immaginario, che non sono solo il suo Mississippi ma anche, in qualche modo, la sua contea di Yoknapatawpha». (Dove vengono suggeriti, con ardita metafora, i nomi di Twain e di Faulkner).
La Stampa – 16 luglio 2015
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