Un paese restio
all’intervento militare catapultato a combattere nelle trincee ai
confini del paese e in quelle contro il nemico interno. Un
imperialismo straccione che vide in pochi mesi gran parte dei
sostenitori della neutralità convertirsi alla guerra. Un libro molto
interessante che svela le ricadute sociali della campagna di stampa che
portò l'Italia all'intervento.
Gianpasquale
Santomassimo
Un imperialismo
provinciale
Tra lo scoppio della
prima guerra mondiale e l’intervento italiano
intercorrono dieci mesi. Lo stesso intervallo, giorno
più, giorno meno, si riproduce in occasione della seconda
guerra mondiale.
Coincidenza
troppo ingombrante per essere considerata
casuale, e che rinvia invece a profili di lungo
periodo dello Stato italiano. Quel complesso dell’«ultima
grande potenza», arrivata tardi all’unificazione, esclusa dal
«grande gioco» dell’equilibrio mondiale e dalle
spartizioni coloniali, e che aspira a giocare
un suo ruolo.
Negli anni Trenta del
secolo scorso sarà il più lucido ministro degli Esteri del
fascismo, Dino Grandi, a formulare la teoria
del «peso determinante», razionalizzando
una disposizione già presente e che aveva
operato nella decisione dell’intervento del maggio
1915: le dimensioni dell’Italia non le permettevano
di agire da protagonista ma le consentivano
pur sempre di decidere quale piatto della bilancia far
prevalere col suo schieramento.
Potranno essere in
discussione alleanze, da dismettere o da allacciare,
motivazioni e rivendicazioni della
guerra da intraprendere, ma in ogni caso non sarà mai in
discussione l’intervento in sé, fattore considerato
strettamente connesso al «prestigio»
del paese.
A ben vedere, è una
disposizione di fondo che sopravvive alla fine
dell’imperialismo italiano, sebbene disciplinata
da una Costituzione che ripudia la guerra e da
una politica estera prudentissima nel tempo della
guerra fredda. Ma non appena salteranno gli equilibri
del «secolo breve» riaffioreranno gli impulsi che
inducono gli italiani a infilarsi in tutte le
guerre che scoppiano, la costrizione di un malinteso
«prestigio nazionale» che impone la
partecipazione a tutte le missioni
militari operanti sullo scenario internazionale.
E non a caso quando
si ha ormai la certezza che la guerra è inevitabile,
nel luglio 1914, il nuovo Capo di stato maggiore dell’esercito
italiano, Luigi Cadorna, formula un piano bellico che
prevede l’invio sul Reno di 5 corpi d’armata e due
divisioni di cavalleria, rispettando la
convenzione militare con la Germania.
Comincia rievocando questo episodio il
nuovo libro di Mario Isnenghi, Convertirsi alla
guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure
nell’Italia tra il 1914 e il 1918 (Donzelli, pp.
282, euro 20).
I nuovi equilibri
liberali
Nell’arco di dieci mesi
si produrranno la conversione dell’immagine
della Germania da modello ad antimodello, la
crisi dell’internazionalismo socialista e il
passaggio al nazionalismo di settori
importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana,
mazziniana, la trasformazione dei
cattolici da intransigenti nemici dello Stato
unitario a clerico-patrioti (in continuità
col precedente già intervenuto durante la guerra
di Libia) e, infine, il completo riassetto degli
equilibri interni alla classe dirigente liberale.
L’irredentismo agitato
per le masse si traduce nella «quarta guerra d’indipendenza»
(che era ancora la formula dei nostri libri scolastici,
e anche di qualche recente orazione presidenziale):
Trento, Trieste, Istria, qualcosa della Dalmazia.
Invece Nizza, la Corsica, Savoia, Gibuti, Malta, obiettivi
agitati all’avvio delle ostilità, scompaiono
rapidamente dall’orizzonte: torneranno buoni
nella prossima occasione.
Le classi popolari,
fino a tre anni prima ritenute indegne di esercitare
il diritto di voto, sono ora chiamate a dare la vita per la
patria. Ma la cosa che all’autore preme sottolineare
è che il «passaggio dalla società dei notabili
alla società di massa», che sarà uno dei risultati
irreversibili della guerra, viene però gestito con
ferrea capacità di controllo da gruppi di notabili.
L’agile libretto vuol essere anche una riflessione sulla
«solitudine delle élites» che gestiscono
intervento e guerra senza accettare intromissioni.
Sono chiamati in
causa generali, preti, giornalisti del Corriere
della sera (vero giornale-partito che diviene house-organ del
bellicismo, soppiantando nella vicinanza
al potere la Stampa giolittiana di Frassati,
favorevole alla neutralità). Nelle pagine di
Isnenghi troveremo potenti giornalisti
coinvolti nella gestione della guerra non meno dei generali
(Albertini, Ojetti, Barzini, Fraccaroli),
diaristi perplessi a futura memoria (Gatti)
e anche donne emancipate o in via di
emancipazione, come l’anarco-rivoluzionaria
paladina dell’interventismo Maria Rygier, o la
cattolica-democratica Antonietta Giacomelli.
La religione
è coinvolta da subito nell’intervento. Cadorna,
cattolicissimo malgrado l’accostamento
inevitabile del suo cognome a Porta Pia,
reintroduce i cappellani militari, non
solo cattolici, ma anche pastori e rabbini, se
pure in misura molto esigua. Tra i tanti ecclesiastici
coinvolti spiccano Giovanni Semeria e Agostino
Gemelli, entrambi «religiosi che vengono bene accolti al
Comando supremo», «uomini d’azione e di potere –
interpreti di un volontariato cattolico dai
larghi orizzonti e imprenditori di lungo
corso del sacro», con direzioni di marcia non
sovrapponibili, tuttavia, visto che
«Semeria aspira a coniugare i cristiani con
la modernità, mentre Gemelli – altrettanto moderno
nei metodi – guarda culturalmente all’indietro
e aspira a indirizzare la “riconquista
cristiana” del mondo verso ciò che non teme di chiamare
Medioevo».
Sono molto pochi gli
intellettuali che tentano di sottrarsi alla
regressione propagandistica del
nazionalismo, e tra questi l’esponente più
illustre – ma ormai isolato – della cultura
italiana, Benedetto Croce: «Considero tutto ciò
– scrive nelle pagine dedicate alla guerra — come
manifestazioni dello stato di guerra. Non si tratta
già di quesiti razionali, ma di urti tra passioni;
non di soluzioni logiche, ma di asserzioni d’interessi
che, sebbene altissimi, sono nazionali, ossia
particolari; non di ragionamenti, ma di
finti ragionamenti, costruiti dall’immaginazione».
Una piccola logica
di potenza
Ma di fronte al dilagare
del «trentotrientinismo», a quel
«Trento-e-Trieste», formula patriottica talmente
indissolubile da far pensare a molti
italiani lontani dal fronte che si trattasse di
un’unica città (alcuni dicevano due città divise da un
ponte, come Buda e Pest), gioverà ricordare che
è solo propaganda per le masse, «favola bella» che
gli «uomini d’ordine» (gli «atei devoti» dell’epoca, aggiunge
Isnenghi) lasciavano usare nelle piazze, senza scaldarsi
troppo in proprio.
Forse sono proprio
queste le considerazioni che il lettore
troverà più nuove, certamente inusuali. Si
scopre che in realtà Trento interessa molto poco, anche se
è importante portare il confine «naturale»
sul Brennero. Molto di più interessa Trieste, ma solo
in quanto porto che può assicurare il controllo
sull’Adriatico «lago italiano».
Le motivazioni
della guerra sono tutte inscritte nella logica di potenza, nella
volontà di affermazione di un imperialismo
italiano che per tre decenni crederà di poter giocare
un ruolo autonomo e importante, in un mondo che la
guerra avrebbe però messo in crisi, distruggendo gli
equilibri che avevano reso possibile
l’egemonia della vecchia Europa.
L’ondata emozionale
di patriottismo viene in prevalenza da sinistra.
Nella quasi totale revisione delle appartenenze che la
guerra provoca c’è ovviamente un «pullulìo
di ex» (e Isnenghi qui riprende temi già ampiamente
trattati nel suo Ritorni di fiamma dello scorso anno). Si forma
la «strana coppia» Bissolati-Mussolini: il riformista
sconfitto al congresso di Reggio Emilia del 1912
e il giovane rivoluzionario che l’aveva
defenestrato dal partito.
«Energumeno»
non molto ben visto dai comandi, il futuro Duce, e dopo una
lieve ferita rispedito a fare ciò che meglio sa fare, cioè
il giornalista-agitatore, col sussidio datogli dal
governo francese e col compito – come si esprime il
faccendiere Filippo Naldi con l’ambasciatore di Francia
– di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un
intento patriottico tutta la teppa dell’Italia
settentrionale». Ma bisogna aggiungere che
le sfumature tra interventismo
«democratico», «rivoluzionario»
o puramente nazionalistico sono destinate
ad attenuarsi nel corso del conflitto.
Al di là di Cesare
Battisti, imbalsamato nella dimensione di
«martire» antiaustriaco, dello stesso Salvemini,
influente in ristretti circoli intellettuali ma troppo
professorale per parlare con successo alle
truppe, di un Mussolini dall’audience molto limitata,
l’unica figura che appare popolare è quella di
Bissolati, ministro guerriero ascoltato al
fronte, dai fanti come dai generali.
Resta ben poco di
socialismo riformista nella sua azione: avremo da
parte sua l’approvazione dei metodi di Cadorna, decimazioni
comprese, col triste primato conseguito
dall’esercito italiano in questa forma di governo
terroristico della truppa («pura rappresaglia
nel mucchio, vendetta sociale allo stato puro», scrive
Isnenghi), sia pur raccomandando «moderazione»,
ma pure addivenendo a minacce di fucilazioni
«politiche» dei suoi ex-compagni dopo Caporetto.
Si crea una «grande area
trasversale dell’adattamento – progressivo
o di schianto – ai fatti compiuti» nella quale
confluirebbero tutti i tre grandi «partiti
di raccolta» del neutralismo, cioè
liberal-giolittiani, cattolici e socialisti.
Anche se è indubbio, il grande adattamento ai
fatti compiuti che la successione degli eventi impone,
si possono sollevare dubbi su alcuni giudizi di
insieme che Isnenghi suggerisce, assai più che
teorizzare.
«Perché e come
una nazione intera cambiò alleanze e diventò
interventista», recita la fascetta editoriale
che accompagna il libro. Ma davvero l’Italia intera
diventò interventista?
Ci sarà la fortissima
pressione delle piazze del «radioso maggio» per
intimidire un Parlamento in maggioranza
giolittiano e neutralista, e che
sarà chiamato a esprimersi solo a guerra già
deliberata dal sovrano. Però in Italia non abbiamo le
grandi manifestazioni popolari e proletarie
che invadono le piazze inglesi e tedesche,
e l’agitazione coinvolge esclusivamente
una borghesia irriflessiva e manesca,
che presidierà assai più le trincee del «fronte
interno» che quelle scavate al fronte. Ma le piazze non erano
solo interventiste, come testimoniano
i numerosi studi raccolti nel volume curato da Fulvio
Cammarano (Abbasso la guerra! Neutralisti in
piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia,
Le Monnier, pp. 606, euro 29).
Il neutralismo
silente
Cattolici,
socialisti e liberali giolittiani erano
la stragrande maggioranza del paese, e al di là
di transfughi chiassosi e attivissimi
il corpo fondamentale di questa maggioranza
d’Italia non sarà mai intimamente conquistata
alle ragioni della guerra. La costruzione di una memoria
pubblica fondata essenzialmente sul mito
unificante della Grande Guerra sarà impresa non semplice
e laboriosa, inaugurata dalla classe dirigente
del primo dopoguerra e portata a compimento
dal fascismo.
In più, avremo in
Italia l’unico partito socialista, accanto
a quello socialdemocratico russo, che
rifiuta la guerra e manterrà questo atteggiamento
fino alla fine del conflitto (e nei suoi risvolti culturali
e psicologici anche oltre), pur nelle
difficoltà, le attenuazioni, gli equilibrismi
dialettici che accompagnano il tormentato
«non aderire né sabotare» (con un avvicinamento
alle ragioni del «patriottismo» che avverrà solo dopo lo
sfondamento delle linee a Caporetto, in un
compromesso rifiutato da pochissimi, e tra
questi in primo luogo Giacomo Matteotti).
Da qualche tempo
Isnenghi sembra proporre in termini esemplari
la personalità di Cesare Battisti,
«tragica figura di irredento territoriale
e redento politico», esempio di socialismo
sensibile alle ragioni della patria che i suoi
compagni ebbero il torto di non seguire, condannandosi
a una sterile emarginazione dallo spirito
nazionale.
Ma le stesse pagine di
Isnenghi mostrano la fortuna quasi inesistente
del lascito politico di Battisti, a scapito
della figura di martire patriottico che assorbirà
interamente il suo ricordo. E la coerenza
socialista nel rifiuto della guerra sarà alla base del
prestigio presso le masse lavoratrici di quel
partito, che si affermerà nelle prime elezioni
democratiche del 1919 come il più grande partito
italiano.
Quella che interviene
dopo, come sappiamo, sarà un’altra storia, dove gli
errori commessi si sommeranno anche e soprattutto
a un enorme carico di violenza subita.
Il Manifesto -8 luglio 2015
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