«A ferro e fuoco.
Eroi, belve e martiri di Spagna» dello scrittore sivigliano Nogales esce in
Italia con La Nuova Frontiera. Ormai un classico moderno, il libro è
composto da nove racconti sulla Guerra Civile e fa conoscere un
autore sorprendente che solo l’uso improprio dei suoi scritti ha
ridotto a santino della «terza Spagna», di quella maggioranza
silenziosa trascinata nel cruento scontro fratricida.
Francesca Lazzarato
Le parole disilluse
In un’Europa senza
memoria chi si ricorda, oggi, dei campi di concentramento
in cui settantasei anni fa la Francia rinchiuse
gli spagnoli in fuga, dopo la definitiva sconfitta
della Repubblica?
«Disfatti, malridotti, furiosi, schiacciati, con la barba lunga, non lavati, sporchi, sudati, stanchi» e tuttavia «il meglio della Spagna» (così li racconta Max Aub), nel giro di tre settimane quasi cinquecentomila profughi varcarono la frontiera a piedi o con mezzi di fortuna e vennero poi stipate nei campi di Argelés-sur-mer, Barm, Gurs, Sain Cyprien e altri ancora, in condizioni definite atroci dallo scrittore catalano-messicano Jordi Soler, figlio e nipote di rifugiati, che ha evocato sul quotidiano El País la memoria di «una pagina oscura della storia di Francia cancellata dalla storia ufficiale», per poi aggiungere: «Sembra che nel modo di trattare i migranti operi una sinistra simmetria… I cadaveri sospinti dalla onde sulle spiagge di Lampedusa sono l’eco nefasta di quelli che giacevano, non troppo tempo fa, sulla spiaggia di Argelés –sur-mer».
Altri rifugiati
spagnoli, almeno diecimila, fecero in senso inverso il
viaggio via mare che oggi compiono i migranti,
approdando in Nordafrica su navi come il mercantile
Stanbrook — il suo capitano sfidò la volontà degli
armatori imbarcando quasi tremila «clandestini»
per portarli da Alicante a Orano, verso un destino
comunque incerto — mentre ventimila partirono
per il Messico grazie al governo di Lazaro Carreter,
che praticò una straordinaria politica di
aiuto ed accoglienza.
Un rifugiato
d’eccezione
Prima di quell’enorme esodo collettivo, però, nei tre anni di un conflitto durissimo e combattuto ad armi impari c’era stato un lungo stillicidio di partenze e addii. Tra gli altri, quello di uno dei migliori giornalisti spagnoli, Manuel Chaves Nogales, nato a Siviglia nel 1897 e firma illustre di quotidiani e riviste comeEl Heraldo de Madrid, Estampa e Ahora, nonché convinto sostenitore della Repubblica e del suo ultimo presidente, Manuel Azaña: non appena il governo repubblicano trasferì la sua sede da Madrid a Valencia, nel novembre del 1936, Chaves decise infatti di rifugiarsi a Parigi con la famiglia e là rimase fino al 1940, quando, ricercato dalla Gestapo, partì fortunosamente per Londra, dove sarebbe morto nel 1944 per una fulminea peritonite.
Non
era, ovviamente, un rifugiato «di lusso», ma d’eccezione
sì: da inviato speciale aveva raccontato l’evolversi
del regime sovietico come la nascita del nazismo e del
fascismo, in seguito aveva diretto uno dei principali
quotidiani spagnoli ed era abbastanza importante
e conosciuto perché, al suo arrivo, il governo
francese gli assegnasse un modesto appartamento
e diversi giornali latinoamericani
e francesi gli offrissero di collaborare
(più tardi, in Inghilterra, farà parte dell’agenzia di
stampa Atlantic-Pacific Press).
Manuel Chaves Nogales
Chaves ebbe dunque
la fortuna, pur tra le mille difficoltà dell’esilio,
di potersi guadagnare da vivere con il suo mestiere (e la
sua passione) di sempre, scrivendo incessantemente
non solo articoli, ma saggi assai acuti — per esempio
«Agonia della Francia», del 1941, dura testimonianza
sul governo di Vichy, tradotto l’anno scorso in italiano
da Hado Lyria per Neri Pozza – che andavano ad aggiungersi
ad altre sue opere di successo, come La vuelta a Europa
en avión. Un pequeño burgués en la Rusia roja, del 1929,
e ancora El maestro Juan Martínez que
estaba allí, del ’34, o Juan Belmonte matador de
toros (Neri Pozza 2014), splendida biografia di
un famosissimo torero.
Appena arrivato
a Parigi, inoltre, scrisse «a caldo» nove racconti
sulla guerra civile destinati al quotidiano argentino
La Nación , che nel ’37, col titolo diA sangre y fuego.
Héroes, Bestias y mártires de España, furono
raccolti in volume da un editore cileno per essere subito
tradotti negli Stati Uniti e in Canada: un testo ormai
giudicato fondamentale in seno alla pur
vastissima letteratura su un tema ineludibile,
e che tuttavia in Spagna rimase praticamente
ignoto fino al 1993, quando le opere complete di Chaves
vennero pubblicate a cura di María Isabel
Cintas Guillén, studiosa sivigliana che si
è dedicata alla riscoperta dell’autore, ormai del
tutto dimenticato.
Toccherà poi ad Andrés Trapiello includere il prologo di A sangre y fuego nel suo discusso saggio Las armas y las letras. Literatura y guerra civil, contribuendo così all’attuale fortuna editoriale degli scritti di Chaves Nogales, riproposti in questi anni: un successo consacrato sia dalla critica che dall’attenzione di scrittori autorevoli come Antonio Muñoz Molina, grande estimatore del giornalista sivigliano.
Divenuto rapidamente un «classico moderno» di cui vengono riconosciute la qualità estetica e il forte impatto emotivo, A sangre y fuego esce oggi in italiano grazie all’editore La Nuova Frontiera, nell’accurata traduzione di Elisa Tramontin (A ferro e fuoco. Eroi, belve e martiri di Spagna, pp. 327, euro 16): un libro sorprendente, uscito giusto in tempo per rinfrescare la memoria collettiva in vista dell’ottantesimo anniversario della Guerra Civile, che cade l’anno prossimo.
Armi affilate della
letteratura
Da «Massacro, massacro!», sui bombardamenti di Madrid, a «E in lontananza, una lucina», con la sua caccia a una rete di spia falangiste che comunicano tra loro grazie a segnali luminosi, fino a «I guerrieri marocchini» e «Le gesta dei cavalieri», dove la stupidità e la violenza senza scampo della guerra, di qualsiasi guerra, sembrano riscattate dal fugace incontro tra nemici che non riescono a rinnegare la propria umanità, le storie di Chaves Nogales testimoniano del talento di un giornalista fedele al motto di Robert Capa («Se la foto riesce male, vuol dire che non eri abbastanza vicino»), che osserva e descrive quanto lo circonda con un linguaggio pulito e incisivo, ma che allo stesso tempo frequenta, sostenuto da una indiscutibile ambizione letteraria, altri territori del narrare.
In A ferro e fuoco
Chaves è senz’altro più scrittore che
giornalista e, pur sostenendo che ogni storia
si ispira a un fatto vero, per raccontarla ricorre
a tutte le armi della letteratura, avvince il
lettore con una prosa asciutta, quasi alla Hemingway,
esibisce una notevole cura per il linguaggio,
ricorre a dialoghi che riproducono
fedelmente la parlata popolare, semina immagini
folgoranti, disegna paesaggi con pochi ed
efficacissimi tocchi e non scorda di aver
prodotto a suo tempo anche una sorta di romanzo popolare
e sentimentale, La bolchevique
enamorada (El amor en la Rusia roja), pubblicato
a puntate sulla rivistaEstampa. E, soprattutto,
ci stupisce per la sua modernità, grazie
a quell’abile intreccio tra fiction e non
fiction che sembra una caratteristica
fondamentale della narrativa
contemporanea e che fa di lui un esponente
ante litteram della crónica, genere trasversale
oggi intensamente praticato e di origini
più remote di quanto si tenda ad ammettere.
Quello che i suoi
esegeti non mancano in risalto è il punto di vista
relativamente insolito, in seno alla grande
narrazione della guerra civile, di qualcuno che si
dichiara estraneo a entrambe le parti, per lui accomunate
da una medesima barbarie, e che nel prologo
dà conto dei motivi di quella che potrebbe sembrare una fuga:
«Antifascista e antirivoluzionario
per temperamento, mi rifiutavo
sistematicamente di credere nelle virtù
salvifiche della grandi sollevazioni
e aspettavo lavorando, fiducioso nel corso fatale
delle leggi dell’evoluzione. Ogni rivoluzionario,
con il dovuto rispetto, mi è sempre sembrato
deleterio come qualsiasi reazionario
(…). Nella mia diserzione pesava tanto il sangue sparso
dagli squadroni di assassini che seminavano il
terrore rosso a Madrid quanto quello versato dagli
aerei di Franco, che hanno ammazzato donne e bambini
innocenti».
Le polemiche
mai sopite
Questa dichiarazione non di equidistanza, ma di visione della guerra civile in linea con le convinzioni di un «piccolo borghese liberale, cittadino di una repubblica democratica e parlamentare» (così si autodefinisce Chaves nel prologo) e con quelle della minoranza liberale che comunque aveva creduto nella Repubblica e le era rimasta fedele, è stata però usata da alcuni (e in particolare da Trapiello) per fornire sostegno alle tesi che propugnano l’esistenza di una «terza Spagna», cioè di una maggioranza silenziosa e impotente trascinata, lo volesse o no, in un cruento scontro fratricida da due minoranze fanatiche, due «opposti estremismi» votati a ideologie diverse ma speculari e identicamente totalitarie.
Di questa terza Spagna (della
quale, non dimentichiamolo, tentò di accreditarsi
come rappresentante e interprete il primo
Aznar, quello degli anni ’90), Chaves Nogales rischia
oggi di trasformarsi in una sorta di santino, ben al
di là delle sue intenzioni, del suo disagio di fronte agli
eccessi di entrambe le parti, e della sua speranza delusa
in «…uno Stato in cui sia possibile la convivenza
umana tra cittadini di idee diverse e la normale
relazione con gli altri stati».
Attorno ai racconti
di A ferro e fuoco, e soprattutto al
citatissimo prologo, si è così sviluppata
una polemica che, pur riconoscendo l’interesse
oggettivo e il valore dell’opera, ha criticato
vivacemente la lettura in chiave più o meno
revisionista di Trapiello e altri, e che
traspare anche nel ’corto’ El hombre que estaba
allí realizzato nel 2013 da Daniel Suberviola
e Luis Felipe Torrente e dedicato alla vita
e all’opera del giornalista.
Tra i tanti che
hanno polemizzato con quello che Antonio Muñoz Molina
ha definito chavesnogalismo, ci sono
anche il critico José Luis García Martín, che non
ha mancato di sottolineare le inesattezze
e le contraddizioni del famoso prologo, e lo
storico Francisco Espinosa Maestre, che ha
dedicato una lunga e puntuale analisi a Chaves
Nogales e all’uso che si è fatto di alcuni dei suoi
scritti, per «offrire una visione negativa e caotica
della Repubblica e farci credere che la guerra, in cui
tutti furono uguali, fu inevitabile». E,
nell’accingersi a leggere A ferro e fuoco,
queste parole non vanno dimenticate.
Il Manifesto – 23
giugno 2015
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