03 giugno 2022

IL CANTO DEL FUOCO di LEONARD COHEN

 


IL CANTO DEL FUOCO. LEONARD COHEN E IL TOUR NEL SINAI

All’inizio degli anni Settanta Leonard Cohen era alle corde. Gli capitava spesso di esserlo, e ancora gli capiterà in seguito, ma a quei tempi l’aria che tirava era letteralmente quella di mollare tutto. Fuggito da Montreal e New York, aveva le tasche piene persino del paradiso greco dell’isola di Hydra, il buen ritiro nel Mediterraneo dove aveva scritto romanzi (Beautiful Losers), poesie (The Flowers of Hitler), conosciuto la persona che gli avrebbe ispirato l’immortale So Long, Marianne.

E adesso, il capolinea. Era tornato in Canada, a Toronto. In un’intervista a Paul Saltzman, estate 1972 (pubblicata in Italia nel libro Il modo di dire addio, uscito per Il Saggiatore), arrivò a dire: «Non ne posso più, amico. Non ne posso proprio più. A volte, mentre sto nel bel mezzo di un pezzo o di un concerto, mi chiedo come riesca ad andare avanti. È come se stessi tenendo insieme la mia vita solo per tenere in piedi il tour. Per la maggior parte del tempo mi ritrovo a vacillare sotto i colpi. Senza dubbio, mi invento questi colpi, questi ostacoli da solo. Credo che ognuno di noi sia responsabile della propria condizione. Ma non ho intenzione di restare qui: ho seguito varie strade per andarmene da questo posto e questa è una di quelle che voglio interrompere una volta per tutte, visto che non mi ha portato da nessuna parte. Non è questione di abbattermi, ma solo di essere più obiettivo possibile».

Tanto per essere chiaro, il giornalista intitolò questa drammatica intervista Le ultime parole famose di Leonard Cohen (L’ultima intervista al poeta – o perlomeno così lui si augura). E d’altro canto Leonard Cohen, per ribadire il concetto, disse qualche mese dopo, in un colloquio con il Melody maker: «Auguro buon lavoro a tutti nel mondo del rock. Che ci sia della bella musica e dei bravi compositori, e ci saranno sicuramente. Ma io non voglio essere parte di tutto questo. Ho delle canzoni nella mente ma non so come dar loro voce. Ad ogni modo, me ne vado». Andò di nuovo a Hydra. Marianne non era più lì; viveva con Suzanne – non la Suzanne di quella canzone – e con loro figlio. Nel frattempo, il 6 ottobre 1973 l’esercito egiziano era penetrato nella penisola del Sinai, iniziando la guerra del Kippur; lo stato israeliano, colto di sorpresa dall’attacco congiunto delle forze egiziane e siriane, andò in enorme difficoltà, sotto la pressione delle truppe arabe supportate dall’Unione sovietica. E qui arriva l’innesco. Con una decisione sorprendente, Cohen decise di partire per Tel Aviv. Per fare cosa, ancora non lo sa. Il libro di Matti Friedman Il canto del fuoco – Leonard Cohen e l’incredibile tour del 1973 nel Sinai (tradotto da Rosanella Volponi per La Giuntina) racconta cosa accadde in quei giorni. Giornalista del New York Times, e decisamente appassionato della materia, Friedman fa luce su un periodo poco raccontato nella biografia di Cohen, decisivo alla luce del baratro creativo che aveva avvolto uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi.

Tel Aviv, dunque. Cohen era cresciuto in una famiglia estremamente religiosa. Il nonno materno era stato rabbino talmudista; il nonno paterno fu tra i fondatori del Congresso ebraico canadese. Leonard, a cui era stato dato il nome ebraico di Eliezer, ha mantenuto per tutta la vita un rapporto controverso ma di sicuro solido con la propria religione d’origine. Poeta e intellettuale irrequieto, nel 1964 aveva criticato la struttura delle comunità ebraiche, facendo infuriare i suoi ascoltatori. «Non siamo più in grado di guardare il cielo», aveva chiosato, come riporta Friedman. È lo stesso Friedman, tuttavia, a ricordare come il legame con l’ebraismo non fu mai reciso da Cohen; anzi. Persino nelle sbandate verso la spiritualità orientale – di tanto in tanto Cohen praticava la meditazione con un gruppo di monaci buddhisti sulle montagne di Mount Baldy, in California – non rinnegò mai la religione a cui sentiva di appartenere. Nel novembre 2016, i funerali sono stati celebrati nella sinagoga di Montreal.

Probabilmente, la sintesi migliore della relazione tra Leonard Cohen e l’ebraismo è contenuta in questa risposta, per un’intervista del 1993 (ancora da Il modo di dire addio): «I miei amici ebrei raccontano storie orribili su quello che era l’ebraismo. Per me non è mai stato così. Non mi sono mai ribellato ai miei genitori, neppure quando mi facevo di acidi e vivevo al Chelsea Hotel. Non mi è mai passato per la testa di biasimare la mia famiglia, la mia città, la mia religione, la mia tribù, il mio destino, la mia posizione per quello che erano. Ho sempre pensato che fossero meravigliosi. Ho sempre pensato che il credo della mia famiglia fosse meraviglioso e ho cercato di tenerlo vivo, anche se a modo mio, un po’ superficialmente». Non così tanto superficialmente, a ben vedere, se nell’autunno del 1973, con una guerra in corso, Cohen decide di lasciare la serenità di Hydra per andare ad Atene e imbarcarsi da lì in aereo verso Tel Aviv, in quella che all’epoca era una città del tutto priva di fascino, come ricorda Friedman. Peraltro, Cohen era stato in Israele poco meno di un anno prima, per due date del tour europeo che toccarono Gerusalemme; esperienza ai limiti del disastro, figlia della crisi creativa già dilagante.

A Tel Aviv, indeciso sul da farsi – non ha portato con sé neanche una chitarra –  Cohen fa due tra le cose che gli riescono meglio: mettersi sulle tracce di una ragazza e frequentare i caffè e i bar. Con la prima non gli va benissimo; invece, durante un pomeriggio trascorso al Caffè Pinoti incontra un gruppo di musicisti locali; o meglio, viene riconosciuto da questi musicisti come la star che era. È lui stesso a raccontare cosa succede a questo punto, perché di tutta l’esperienza israeliana lasciò una cronaca, degli appunti, una sorta di diario narrativo riportato da Friedman nel libro. «Ho incontrato una cantante israeliana, appena tornata dal Sinai. Quella stessa sera avrebbe cantato presso una base aerea e il giorno successivo lei e altri tre personaggi del mondo dello spettacolo sarebbero ritornati nel Sinai. Mi sarebbe piaciuto unirmi a loro?» E sì, Cohen si unisce, iniziando a esibirsi per le truppe israeliane impegnate nella guerra del Kippur. Suona le sue canzoni migliori, ne scrive di nuove, entra nella vita militare dei soldati, scopre alcune delle loro storie. Alcuni lo conoscono già, altri lo riconoscono non appena comincia a suonare Suzanne, altri ancora si lasciano sedurre lentamente dalla sua musica, dalla chitarra di questo ebreo venuto dal Canada.

Costruito come un’indagine insolita su un cantautore su cui molto si è scritto, Il canto del fuoco racconta quello che è stato un tour storico e a modo suo unico, inserito nella cornice di una storia ancor più grande, quella della guerra, senza che il contesto significhi restituire un’immagine bellicista di Cohen, un artista – un uomo – dalla personalità estremamente complessa. Non si trattò per lui di andare in guerra; né di andare verso la guerra per fugare una crisi di mezza età, o una semplice crisi creativa. Fu un viaggio di riconciliazione, assieme spirituale e molto “concreto”, umano, fatto di corpo, di esplorazioni, un’esperienza necessaria, anche contraddittoria e non priva di turbamenti. Con il suo libro, Matti Friedman aggiunge una tessera primaria nel mosaico-Cohen. C’è una guerra in corso / ma cercherò di renderti la vita facile, recita l’esergo a Il canto del fuoco: è tratto dalla poesia di Leonard Cohen Benvenuta a questi versi e racchiude il senso intero del viaggio di Cohen in Israele, e forse non solo quello.

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