Marx, marxismi e decrescita
Il problema che il mondo ha di fronte, dicono il pensiero femminista e quello ecofemminista, va oltre il capitalismo. In ogni caso, per cambiare l’ordine delle cose oggi non basta mettere in discussione il valore economico in una società di mercato: si tratta di immaginare, prendendo spunto da movimenti e pensieri diversi, un’economia ecologica post-crescita. «La possibilità che un futuro sempre più artificiale, distopico e autoritario non si realizzi – scrive Paolo Cacciari – non dipenderà tanto dal fatto che il capitale potrebbe implodere sbattendo nei “limiti planetari” della biosfera, ma dalla nostra (dell’umanità) capacità di opposizione, di ideazione, di progettazione e sperimentazione di sistemi socioeconomici diversi…». Abbiamo bisogno di costruire ponti tra l’ecologia politica e l’eco-marxismo. Appunti verso un prezioso seminario su Marx, marxismi e decrescita
“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. (…) Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”
Engels (1876)
In preparazione dell’incontro di settembre a Venezia (www.venezia2022.iy), il prossimo venerdì 17, il gruppo dei Pensionati critici di Mestre ha organizzato un seminario su Marx, marxismi e decrescita (Decrescita e marxismi – Verso Venezia 2022 | 7-8-9 settembre 2022). Saranno presenti rinomate/i studiose/i tra cui: Marino Badiale, Giovanni Mazzetti, Marino Ruzzenenti, Maria Turchetto, Michele Cangiani, Maurizio Ruzzene.
1) Dimensione ecologica e dimensione sociale
Al centro del dibattito rimane la vexata questio del rapporto tra le dimensioni ecologica e sociale della crisi che investe la civiltà contemporanea. Mentre l’approccio ambientalista puro (“conservazionista”) sembra spesso sottovalutare la configurazione delle strutture sociali di potere (modi di produzione, ragioni di scambio, rapporti di potere tra le classi, lotta per la supremazia tra gli stati) che conducono a una competizione permanente che devasta lo spazio vitale naturale – compreso quello umano -, dall’altro canto l’approccio squisitamente “materialista-storico” del pensiero della sinistra politica tradizionale sottovaluta gli aspetti ecosistemici, culturali, antropologici ed etici che pervadono e plasmano i comportamenti dell’homo oeconomicus. Da qui le tesi contrapposte secondo cui, una volta risolta la “contraddizione principale” tra capitale e lavoro anche le altre numerose aporie (quelle di genere, di specie, di luogo, ecologiche) si sistemerebbero automaticamente. Secondo Latouche i marxismi non ci sono d’aiuto, anch’essi “adottano il paradigma dell’uomo padre e dominatore del mondo” (Latouche, 2005). Quindi non basta socializzare i mezzi di produzione per uscire dal dominio dell’economico. Specularmente, gli ambientalisti ritengono che una volta imboccata la strada della sostenibilità ecologica anche l’economia capitalista finirebbe per “non essere più la stessa”, perdendo le attuali odiose caratteristiche discriminatorie e di sfruttamento. Per questa sua essenza prepolitica (“scientifica”) non avrebbe senso etichettare l’ecologia come “di destra o di sinistra”.
2) La decrescita, una chiave di volta
L’ecologia politica, da un canto (uno per tutti ricordo Jared Diamond in Collapse, 2005), e l’eco-marxismo, dall’altro (Ian Angus, 2020), hanno fatto grandi passi avanti per ricomprendere in una corretta visione unitaria la coevoluzione uomo-ambiente; la storia della natura (che si misura in tempi biologici) e quella delle culture umane (che si misura in tempi storici). Ma l’incontro tra ecologia e marxismo – tra “rossi” e “verdi”, come si sarebbe detto una volta – è ancora lontano. Equivoci e diffidenze impediscono un’azione comune, facendo perdere di forza sia gli uni che gli altri.
Molti ponti rimangono da costruire e la decrescita potrebbe costituire la loro chiave di volta. Decrescita come processo sociale trasformativo finalizzato all’obiettivo della liberazione del genere umano dal mito della conquista, dal delirio prometeico di onnipotenza, dallo sviluppo indefinito delle forze produttive e, in definitiva, dall’ossessione della crescita in nome di sé stessa come teologia. L’apice di “efficienza” del sistema economico della crescita è stato raggiunto con la “grande accelerazione” prodotta dalla mega-macchina termo-tecno-industriale che ha ormai raggiunto una forza geofisica capace di distruggere la vita sul pianeta. Il biocidio, la Sesta estinzione di massa, il collasso climatico, gli inquinamenti d’ogni genere… sono i suoi retroeffetti – come un boomerang (Claudia von Werlhof, 2014).
3) Il problema va oltre il capitalismo
Le fondamenta del sistema non sono sole “economiche”, poggiano su una visione antropocentrica, patriarcale, specista non ancora sufficientemente indagata e messa in discussione nemmeno dai pensatori più radicali e rivoluzionari. Le “specialità” dell’homo sapiens, le differenze dagli altri animali che popolano il pianeta Terra, non possono essere motivo per disconosce il diritto alla vita di altre creature negando la loro individualità, personalità e capacità di pensiero (compreso il “pensiero vegetale” di cui sono capaci gli alberi di una foresta) troncando così pericolosamente le interrelazioni orizzontali che costituiscono la “ragnatela della vita”. Ci siano di insegnamento le pandemie generate da zoonosi per “spillover” (salto di specie) di virus e batteri.
L’indubbio successo evolutivo ottenuto dalla specie animale oggi dominate (l’homo sapiens) non la pone in una posizione di “superiorità” gerarchica e non autorizza alcuni suoi individui – prevalentemente maschi, di carnagione chiara e collocati nelle alte sfere sociali – a mettere in atto comportamenti innaturali oltre che “disumani” (eticamente insopportabili). Ha scritto Ian Angus: “Non più solo il capitalismo si trova a un bivio, ma l’intera civilizzazione”. In altre parole, vanno messi in discussione non solo gli ultimi 500 anni, ma gli ultimi 5 mila anni della storia dell’Occidente. “Il problema va oltre ed è al di sopra del capitalismo”, hanno scitto Timothée Partrique e Giorgios Kallis (2021). Il pensiero femminista ed ecofemminista ci sia da guida.
Sarebbe allora necessario che ecologisti e socialisti si aprissero a una discussione per tentare di sciogliere alcuni nodi ancora controversi, necessaria per impostare un’azione comune.
4) Il fondamento antropologico dell’economia
Siamo tutti d’accordo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ecologica del pianeta e per rendere sopportabili le condizioni di vita e di lavoro cui sono costrette grandi parti dell’umanità servirebbe un cambiamento dell’intera organizzazione della vita sociale. Vale a dire, l’interruzione della spirale produzione-profitto-accumulazione-investimenti-consumo. L’imperativo della competizione universale per l’accumulazione incrementale; l’assioma della forma valore D-M-D’ che non tiene conto dei limiti fisici dei “mezzi” di produzione Ma non è solo la formazione del valore economico in una società di mercato che deve essere messa in discussione, ma il fondamento antropologico della stessa concezione dell’economia (Latouche, 2018): l’idea, cioè, che ogni essere umano sia portatore di esigenze illimitate (intese come desiderio di possesso e di utilizzo di beni e servizi) a fronte di “fattori produttivi” (mezzi naturali e forze del lavoro) limitati. E, poiché – come abbiamo visto – il sistema di mercato capitalistico si è dimostrato storicamente quello più efficace nell’“allocare le risorse” (ne sa qualche cosa l’Unione Sovietica), qui sta il suo indiscutibile successo non solo economico, ma politico e sociale. Questa è la ragione per cui “uscire dal capitalismo” appare ancora per molti come un rischioso salto nel buio. È stato ripetuto infinite volte un aforisma di grande effetto: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Ha scritto Murray Bookchin: “Non si può ‘persuadere’ il capitalismo a limitare la crescita, più di quanto si possa ‘convincere’ un essere umano a smettere di respirare. I tentativi di rendere il capitalismo ‘verde’ o ‘ecologico’ sono condannati al fallimento per la natura intrinseca del sistema come sistema di crescita illimitata”. Questa è la ragione per cui gli “obiettivi dello sviluppo sostenibile”, più volte riproposti dalle agenzie dell’Onu che, a dire il vero, si ripetono stancamente da cinquant’anni a questa parte cambiando solo nome (“eco-sviluppo” al primo summit di Stoccolma, Agenda XXI a Rio de Janeiro, Dichiarazione del millennio a Parigi, Goals a New York), non si realizzano scontrandosi con il modus operandi del capitalismo: l’accumulazione per spoliazione (saccheggio permanente delle barriere naturali) da cui il suo carattere ecocida, necrofilo. Se mi è consentito, Dante scrisse: “Assolver non si può chi non si pente,/né pentere e volere [rimaner nel peccato] insieme puossi / per la contraddizion che nol consente” (Inferno, XXVII).
5) Una vita degna di essere vissuta
Secondo una logica lineare stringente, decrescere comporta una diminuzione della domanda, quindi delle produzioni, quindi degli investimenti, quindi dell’occupazione, quindi della massa salariale necessaria a ottenere sul mercato i denari che servono per soddisfare le proprie esigenze. In definitiva decrescere nel senso comune pratico attuale è sinonimo di vita miserevole. E sarebbe effettivamente proprio così, se contemporaneamente non riuscissimo a cambiare le regole del gioco stabilite, presidiate e sorvegliate dalle forze economiche del mercato. Già Badiale e Bontempelli (2011, 2012) scrissero che non è possibile dimostrare la “convenienza economica” della decrescita all’interno di forme economiche produttivistiche, monetizzate. È qui che l’ipotesi della decrescita si deve fare progetto politico, non tanto e solo economico, ma culturale, sociale, antropologico, persino etico e spirituale. Non meno di un progetto di diversa civilizzazione.
Se riuscissimo a immaginare di cambiare la scala dei valori attribuiti alle carte in tavola o sovvertissimo le regole del gioco assegnando la vittoria della partita a chi rimane con meno “punti” in mano, allora tutto cambierebbe. Fuori da metafora, se al centro della cooperazione sociale non ponessimo l’obiettivo della massimizzazione dei rendimenti monetari dei capitali investiti, la ricerca del maggior profitto e della massima produttività del lavoro, ma, ad esempio, stabilissimo che l’obiettivo è la rigenerazione dei cicli naturali, il pieno dispiegamento delle potenzialità lavorative umane (“piena occupazione”) e l’equo accesso alla ricchezza prodotta (“distribuzione dei dividendi sociali”), allora la decrescita degli impatti antropici e dello stress psicofisico delle persone (ridotte a produttori/consumatori alienati) diventerebbe desiderabile e meritevole di essere perseguita.
La partita, quindi, si sposta sul senso profondo delle attività umane e sul significato di una vita degna di essere vissuta. Latouche la chiama “cosmovisione bio-umanistica” (Latouche,2022).
6) Ridurre la sfera governata dall’economia di mercato
Il problema politico dell’azione a favore della decrescita è quello di riuscire a concretizzare delle proposte-azioni che dimostrino in quale modo sarebbe possibile realizzare – anche con gradualità necessaria e passaggi intermedi – una prosperità senza crescita (Tim Jackson, 2011).
Potremmo immaginare di poter sopportare delle “perdite” sul quadrante del Pil/redditi se venissero contestualmente “compensate” da guadagni sugli indicatori di benessere (cibo sano, salute, educazione, abitazioni, ecc.). Banalmente, potremmo “rinunciare” a cambiare telefonino ogni 18 mesi (è questa la media!), televisione ogni tre anni, lavatrice ogni cinque… se le prestazioni degli apparecchi elettrici non fossero programmate per farli “uscire dal mercato” il più presto possibile (rompendosi irreparabilmente, non supportando le nuove applicazioni, ecc.) per essere rimpiazzati da nuove mercanzie. Potremmo anche “sacrificarci” e usare meno l’automobile se i mezzi pubblici fossero più confortevoli ed economici. Potremmo aumentare il tempo da dedicare all’accudimento domestico di bambini e anziani se il tempo del “lavoro necessario” (alla produzione di reddito) venisse ridotto. Potremmo fare più attività socialmente utili se il tempo a esse dedicato potesse essere “detratto” dalle imposte (come si fa già per le spese farmaceutiche o per le donazioni benefiche) (Centro nuovo modello di sviluppo, 2022). Potremmo comodamente sostituire la moneta corrente legale (valute) con sistemi di scambio locali non monetari (“monete” complementari, fiscali, alternative). Potremmo rendere accessibili i beni non utilizzati come beni comuni (come ipotizzato dalla riforma del Codice civile sul diritto di proprietà di Stefano Rodotà). E così via percorrendo una graduale, ma energica riduzione della sfera governata dall’economia di “libero mercato” e aumentando quella pubblica; “pubblica-statale” e quella “ultra pubblica”, cioè comunitaria, autogestita, autonoma facente parte della proprietà demaniale “rafforzata dalla partecipazione popolare” (Micciarelli 2017).
In definitiva si tratta di passare da una economia soggetta alla regola del “tasso di crescita composito”, necessario a garantire i rendimenti finanziari dei capitali investiti, a qualche altra forma di organizzazione economica pianificata democraticamente, cioè “socializzata” – se proprio non vogliamo usare il termine socialista, o “Quella cosa che Marx nell’Ottocento chiamava comunismo (…) Il complesso delle cose comuni che non possono essere oggetto di appropriazione da parte di nessuno e di nessuna istituzione, né pubblica , né privata, ma devono essere a disposizione dell’intera comunità come base della liberazione dei singoli e della realizzazione della vita individuale” (Giacomo Marramao, 2011).
7) Chi paga?
Sì – ci viene obiettato -, tutto giusto, ma questi cambiamenti di sistema in chiave di sostenibilità ambientale (transizione ecologica) e di giustizia sociale (società della cura) costano. Hanno bisogno di investimenti e di costanti spese correnti. Non c’è pranzo gratuito! Chi paga? Se sono i privati, questi pretenderanno interessi. Se è lo stato, esso avrà bisogno di maggiori gettiti fiscali. Il cane torna a mordersi la coda. Nell’uno o nell’altro caso ci si dovrà affidare ancora una volta alla crescita economica, alla creazione di plusvalore, a maggiori profitti da accumulare per nuovi investimenti ecc. ecc. Siamo così costretti in eterno a lavorare per il re di Prussia nella speranza che qualche soldo rotoli giù (“sgoccioli”, trickle-down effect) anche per l’ambiente e per i poveri. È questa l’idea di un capitalismo dal volto umano e popolare, verde e compassionevole, “visionario” e filantropico, come quello modellato da Bill Gate e dagli altri multimiliardari che ormai dettano le politiche pubbliche a livello mondiale.
Il green deal, i programmi della Next Generation Ue alimentati dai bond garantiti dalle banche centrali rientrano in questo progetto. Un nuovo ciclo espansivo del capitale attivato dalla domanda di nuovi apparecchi e apparati industriali verdi e “smart” (digitali).
Come uscire da questo imbuto? Jason Hickel (titolo originario, Less is More: How Degrowth Will Save the World,2020) e altri pensano che sia possibile immaginare una economia ecologica post-crescita, una economia mai esistita prima, fondata sull’abbondanza naturale della Terra. Non c’è motivo teorico per cui il valore che la società riconosce e attribuisce alle attività umane non possa essere parametrato sulla qualità delle relazioni, sulla rigenerazione dei cicli vitali, sulla conoscenza, sulla genitorialità, sull’amore… invece che sul prelievo e la distruzione delle risorse comuni.
8) Dipende da noi
Perché non possiamo credere alla ipotesi “ecomodernista” (tecno ottimista) di un capitalismo riformato (Reset Capitalism), ben temperato in chiave verde e caritatevole? Il capitalismo non è forse resistito all’abolizione della schiavitù, al suffragio universale, a due guerre mondiali e a quant’altre rivoluzioni sociali? Non è proprio Carl Marx che ci avvertiva che: “Il capitale è una storia incessante di modificazioni”? Quante volte è stato dato per spacciato ed è risorto con altre sembianze? Perché quindi non potrebbe essere capace di fare della crisi climatica ed ecologica addirittura una opportunità (shock economy) per rilanciare nuovi cicli espansivi colonizzando e mettendo a valore gli oceani, la troposfera, lo spazio, il patrimonio genetico del vivente, la noosfera, gli stessi sentimenti delle persone “profilate” e trasformate in “dati”? Geoingegneria, biologia molecolare, nanomateriali, ecc. ecc. non aspettano altro che trovare “mercati di sbocco”, compratori solvibili.
La possibilità che un futuro sempre più artificiale, distopico e autoritario non si realizzi non dipenderà tanto dal fatto che il capitale potrebbe implodere sbattendo nei “limiti planetari” della biosfera, ma dalla nostra (dell’umanità) capacità di opposizione, di ideazione, di progettazione e sperimentazione di sistemi socioeconomici diversi. Ha scritto il collettivo Salvage: “L’unico limite definitivo al perpetuo accrescimento del capitale è, seppur proveniente dal suo interno, un limite esterno: la rivoluzione o l’estinzione della specie umana. L’avvento del comunismo, o il comune annientamento delle classi in guerra tra loro” (Slavage Collective, 20220). Fa eco Franco Birardi: “Possiamo sperare che il capitalismo non sopravvivrà, ma saremo capaci di vivere fuori dal suo cadavere?” (Bifo 2022).
Ancora una volta le ragioni ecologiche e quelle sociali, i motivi “scientifici” (conoscenza dei limiti) e quelli culturali (coscienza dei limiti), i desideri di una vita migliore e il rispetto di principi etici si dovranno sposare in un progetto politico convergente. Ecologia integrale ed ecosocialismo, salvaguardia della biosfera e giustizia sociale, rigenerazione dei cicli di vita e accesso equo alle risorse sono iscritti in un unico, complementare progetto d’azione post-crescita e post-capitalistico. Insomma, critica ecologica e critica sociale, marxisti ed ecologisti dovranno unirsi. In Italia abbiamo avuto figure che molto si sono spese in questa direzione. Pensiamo a Giorgio Nebbia, Laura Conti, Virginio Bettini, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Giuseppe Prestipino, Rita Madotto, Enzo Tiezzi. Molte altre e ancora più numerose ve ne sono in altre parti del mondo, specie in America latina. Per tutte penso a Gustavo Esteva (2013) e al suo tentativo di coniugare Ivan Illich con Carl Marx.
Certo, molte questioni teoriche rimangono aperte, ma solo nella verifica delle pratiche sociali concrete potranno trovare soluzioni.
LETTURE CONSIGLIATE:
Aa Vv, Una nuova ecologia, Atti del convegno promosso da Democrazia Proletaria. Milano, marzo 1983.
Ian Angus, Athropocene, Asterios, 2020.
Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx, abiblio 2010.
Badiale e Massimo Bontempelli, Dopo la fine della crescita, Alfabet2 n. 11-2011; Per uscire dall’incubo della crescita. Alfabeta2, n. 14-2012.
Tiziano Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Nuove edizioni internazionali, 1989.
Angelo Baracca e Enzo Tiezzi, Entropia e potere, clup-clued, 1981, Milano.
Stefania Barca (intervento di), Per una economia politica della decrescita, in plenria: “Economie, ecologie e cura”, Venice Climate Camp, 2020.
Virginio Bettini e Barry Commoner, Ecologia e lotte sociali. Ambiente, popolazione, inquinamento, Feltrinelli. 1976.
Bifo, Franco Birardi, Cantami o diva – Comune-info
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Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con Gruppo Economia del Movimento per la Decrescita Felice, Un altro lavoro per un’altra società, 2022.
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Paolo Ceri (a cura di), Ecologia politica, con testi di Anthony Giddens, Caus Offe, Alain Touraine, Feltrinelli, 1987.
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Jason Hickel, Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta, il Saggiatore, 2021.
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Giuseppe Micciarelli, Introduzione all’uso civico e collettivo urbano. La gestione diretta dei beni comuni urbani, Munus, n.1 2017.
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Giuseppe Prestipino, Sono ambientalista perché comunista e fiducioso nel futuro, Liberazione 2/8/2005.
Carla Ravaioli, Lettera aperta agli economisti. Crescita e crisi ecologica. Manifestolibri, 2001.
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Claudia von Werlhof, Nell’età del boomerang, Unicopli, 2014.
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