Anna Maria Ortese
Sotto il vulcano cercando la Chimera
Intervista a cura di Luigi Vaccari
Nel Settecento. Sul finire del Secolo. Un principe, uno scultore, un facoltoso commerciante, tutti e tre di Liegi, decidono di fare un viaggio a Napoli. La falsa ragione è di visitare un celebre guantaio che vive con le figlie «alte, impettite, belle e insopportabilmente mute ». E’ l’inizio di una storia: qualcosa di fatale, che dà vita a nuovi personaggi. Nella danza si mescolano passioni e sofferenze; magie e visioni. Alle quali offre un senso l’attrazione invincibile verso «il cuore della Natura». E sulle quali finisce per ergersi, onnipotente, il cardillo, «essere piccolo fra i piccoli, inerme e spietato», che «distrugge chi lo ama».
"Il cardillo addolorato" è il nuovo romanzo di Anna Maria Ortese. Va in libreria domani, con l’apertura a Torino, del Salone del Libro. Lo pubblica Adelphi (416 pagine, 35 mila lire). Ha avuto una o due stesure. «Non ricordo bene. Ma ho riscritto di continuo molte pagine», sottolinea l’autrice. Vi ha lavorato cinque anni, con delle grandi interruzioni. «Non sapevo che cosa avrei detto: all’inizio ci sono delle immagini e basta. Dopo ho capito che i tre stranieri erano il simbolo del Potere, dell’Entusiasmo, della Mediocrità». Il principe, lo scultore, il commerciante vanno in cerca della Chimera, che si realizza in una donna. Ma la Chimera è un inganno. Chi insegue la gioia tutta la vita, «a meno di non avere una natura di sogno donata dalle fate» è perduto. «Alla base di tutto c’è il dolore».
Il cardillo che cosa rappresenta? E’ un semplice elemento della storia: una voce che piange e ride, a seconda delle occasioni. Ma, a poco a poco, si fa ossessione e solo allora simboleggia la gioia, la libertà, e anche l’impossibilità di raggiungerle. Alla fine si capisce, sempre dietro lo stato d’animo di un personaggio, che è qualcosa di più». Ognuno di noi, in fondo, crede di essere il suo cardillo: la voce del desiderio, anche ingiusto.
Anna Maria Ortese è nata a Roma, è stata molti anni a Napoli, dal 1975 vive in Liguria con un vitalizio della Legge Bacchelli. Studi, dopo le Elementari, nessuno. Ha scritto vari libri, fra questi: Angelici dolori, nel 1937; Il mare non bagna Napoli, nel 1953 (Premio Viareggio); L’Iguana, nel 1965; Poveri e semplici, nel 1967 (Premio Strega); Il porto di Toledo, nel 1975; In sonno e in veglia, nel 1987. Ha anche vinto due volte il Saint-Vincent di giornalismo. Ma resta una scrittrice poco conosciuta: non si ama molto e si occupa poco di sé. Di ciò che ha pubblicato è soddisfatta solo in parte, confessa, nel Residence, molto tranquillo, dove è venuta per correggere le bozze: «Mi piace molto qualcosa di Angelici dolori, per alcune immagini della vita; la prima parte dell’Iguana, e anche il finale. Toledo, sì e no: doveva essere alleggerito. IL mare non bagna Napoli mi sembra troppo pesante e arbitrario: seguivo l’onda di una moda, che era contestare tutto; ma non era quella la maniera. E’ più contestatario quest’ultimo romanzo».
Dice un suo personaggio: «Sì, quello della Natura è un ben profondo cuore, signore. Ma quanto lontano da noi!». Quando ha avvertito la separazione dalla Natura?
«Sono cose che accadono, almeno una volta nella vita, a tutti. Alcuni le ricordano, e le rivivono, per sempre. Quando ci si accorge che i "figli diretti" della Natura sono, a paragone dell’uomo, "incolumi". Nessuna corruzione li ha scalfiti. Non hanno avuto bisogno per crescere, nel tempo, di progresso, di libri e nemmeno di religione. Come apparvero, così sono. Non pensano, sanno, ignorano la corruzione. Nelle loro "facce", quando non devono difendersi, c’è la pace. Da questo conosci che sono lontani, eternamente, da noi. Dal loro mistero: la pace».
Quale sentimento l’ha assalita?
«Adorazione. Io amo la pace».
Che cosa, invece, la sgomenta?
«La crudeltà. E’ un altro mistero della specie umana».
Siamo ancora in tempo a rendere giustizia alla Creazione e alla Natura offese?
«E’ solo la cultura che può farlo. Una cultura che dunque dovrebbe cambiare».
La scoperta della crudeltà è stato il primo sbalordimento della vita?
«No. Quando ho perduto mio fratello Emanuele: 20 anni. Era in America; ci mandarono un telegramma, dicendo che era scomparso. E basta. Un’emozione terribile: l’incontro con il destino, a 20 anni. Ho detto: "Ma come? All’improvviso può sparire e ce lo dicono così?"».
Che cosa dobbiamo fare perché la calma e il giorno ritornino? Su quale memoria dovremo riorganizzare il presente, per predisporre il futuro?
«Essere migliori, ciascuno di noi, ogni giorno: più modesti, meno presuntuosi nel giudicare. Ognuno deve scendere uno scalino: uno, non di più; 10 centimetri non sono una gran cosa». Un’altra pausa. «In realtà, una calma e un vero giorno non sono mai esistiti. In tutti i tempi, la tempesta e il buio sono stati sulle nostre teste, o affacciati all’orizzonte. E’ proprio della vita, la minaccia; e l’incertezza eterna è la nostra condizione. Ma, anche qui, una cultura coraggiosa avrebbe grande importanza. Nelle scuole, per cominciare, io darei il più grande rilievo alla Storia, ma tutta, senza velature o omissioni su questo o quel tempo: per accertare davvero le cause, e giudicare meglio, ed evitare almeno i medesimi errori. E dopo la Storia, o insieme, la conoscenza del Pianeta, dello spazio e delle infinite grandezze esterne del Pianeta. Queste fanno terrore, e questo terrore può essere vero maestro della conoscenza dei limiti o del limite; quindi della misura umana. Non vi è umanità possibile, senza la conoscenza dei limiti».
Aggiungerebbe altro?
«Nelle scuole? Direi l’Educazione obbligatoria; come si usa catalogare le altre materie: Chimica, Matematica, eccetera. L’educazione, degli uomini e delle donne, da un estremo all’altro del nostro Paese, sarebbe immensamente utile. Non picchiare nessuno, non offendere nessuno, essere corretti e gentili sempre, anche con chi minaccia e insulta (perché, poi, chi minaccia e insulta ha segretamente paura). L’educazione insegna a lavarsi le mani prima di mangiare, e anche a riflettere prima di andare in collera. Non si fa. Ma si dovrebbe. Di qui, comincia tutto; il presente si rende possibile, e quindi anche il futuro».
L’Educazione prima della Verità, o responsabilità del vero e del non vero?
«Certo. Ho sempre sentito dire un gran bene della verità, e suppongo che nell’insegnamento dei fatti sia indispensabile. Ma poi, nell’uso quotidiano, quella che l’essere umano racconta è raramente vera. Ciò perché l’uomo, della sua parte più riposta e intima, dove risiede la sola verità dolorosa del suo essere, non sa niente e risponde come dal fondo di un sogno. La verità nostra è nella luce, o le luci dell’Universo, da cui nascemmo tutti. E’ incalcolabile».
Allora, non è molto severa verso la Storia?
«Come potrei esserlo? Faccio eccezione per la crudeltà: è sempre volontaria, un’aggiunta alla sopraffazione; e la esercitano anche i bambini e i buoni. E’ una macchia terribile: il vero cancro della natura umana. Andrebbe sempre perseguita, e punita. Perché si capisse, anche dai più vili, come sia orribile portare il dolore dove non c’era, o c’era la fiducia».
Il dolore è la sola realtà?
«No. La realtà più grande è il segreto che pone il suo sigillo su tutte le cose conosciute. Ma il dolore è il vero Governatore, insieme al Tempo, di tutte le nostre vite e conquiste. In fondo a ognuna di esse si alza la torre del Dolore. Se non c’è il Dolore, c’è il Tempo, che anch’esso è dolore. Bisogna sempre intervenire contro il Dolore, riguardi un passero o l’Imperatore. Non è giusto veder soffrire chiunque, senza soccorrerlo. Solo alla fine capiremo che l’essere che abbiamo ferito, o ucciso, o ignorato, siamo noi stessi. Il primo dei Comandamenti della coscienza umana resta di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi. Anzi: di fare il bene degli altri, come se gli altri fossimo noi stessi».
Se ne è ricordata, vivendo?
«Quasi mai. Questo è un rimorso. Scrivere, per me era tutto. E questa questione, del male e del bene, l’affidavo quasi sempre alla pagina. Così, in un certo senso, ora diffido della scrittura; la mia, intendo. Sentita come giustificazione».
Un tuono, improvviso, rompe la quiete. «Bello. Bellissimo» esclama Anna Maria Ortese.
Le piace?
«Mi incanta il tuono. Ma quando sono a Rapallo ne h una paura folle. Rapallo non ha difese. Abito una casetta da due soldi e non so dove nascondermi quando c’è il temporale: è terribile. Tuona, la pioggia scroscia, batte sul tetto: è l’inferno. Dove si va? Non esiste neppure la portineria. Nel piano sotto al mio c’è un vecchio sardo che vive solo: un uomo buonissimo. Potrei andare soltanto lì».
Non ci va?
«Non ci sono mai andata. Non chiedo mai niente a nessuno».
Per non essere delusa? Per orgoglio? Per superbia?
«Per non dare fastidio».
Anna Maria Ortese mi accompagna alla porta; dice, con un sorriso dolce: «Non ha voluto prendere un vermut, un caffè». Poi, a voce molto bassa: «Ma è un bene chiedere qualcosa: perché, se chiediamo, la gente si muove, dà e diventa migliore».
(Intervista pubblicata da "Il Messaggero", 19 maggio 1993, pag. 23)
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