DEL BUONO E DEL CATTIVO SESSO DOPO IL # METOO
di Federica Gregoratto
L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto
#MeToo è stato il tempo della Minerva, delle guerriere convinte di quello che volevano, animate da una gloriosa rabbia. Time is up. Il senso di colpa e di vergogna si dileguava, apriva spazi da occupare: con sacrosante rivendicazioni, la furia del dileguare nelle giuste vendette, voci fresche e voci da riscoprire (è stato riportato in auge per esempio King Kong Théorie di Virginie Despentes, pubblicato nel 2006, undici anni dopo ancora di un’eccedenza sconcertante – e quasi fin da subito è stato riconosciuto il talento visionario di Tarana Burke, già nel 2006 la vera ispiratrice del movimento).
Sono passati cinque anni. È ora il tempo del blacklash, come si è visto per esempio nello spettacolo di Johnny Depp in tribunale contro l’ex moglie, Amber Heard. È la messa in scena di una delle dinamiche più sottili e potenti della violenza di genere, quella che si potrebbe chiamare la strategia della meta-manipolazione: far passare la manipolata per manipolatrice. Si è detto che questo teatro dell’orrore potrebbe segnare la fine del #MeToo – ma potrebbe essere anche l’inizio di una nuova fase, ed è con questa speranza che vorrei ora muovermi e parlare.
È ora forse il tempo delle nottole di Minerva, delle filosofe dubbiose, delle confessioni tardive. La speranza è che #MeToo possa continuare all’insegna di un andamento più riflessivo e meditativo, ma non meno combattivo – anche per coloro che non riescono ancora a provare rabbia, che la sublimano, che preferiscono accettare di aver avuto un ruolo da co-protagoniste (“un po’ me la sono cercata”, “avrei dovuto capirlo prima”, “potevo andarmene e non l’ho fatto”) invece che riconoscere di essere state[1] completamente in balia di altro. L’oppressione struttural-psicologica striscia più a fondo dei discorsi progressisti, le emozioni del progresso hanno bisogno di tempo per maturare e farsi nuove, migliori abitudini, e il senso di colpa e di responsabilità riescono a mantenere intatta un’agency che, seppure ai minimi termini e problematica, ha una funzione importante nell’arginare la voragine della perdita di sé, del dispossesso.
Nei primi tempi del #MeToo ero stata invitata a qualche dibattito pubblico, in un bar per esempio, e a scrivere qualcosa in qualche blog. Erano le prime volte che mi si chiedeva di parlare fuori dalle aule universitarie, e non sapevo bene come fare (non ho ancora imparato, forse perché il distacco ironico non è il mio forte). Mi sono nascosta dietro a elucubrazioni dotte quanto raffazzonate, non ero ancora in grado di guardare in faccia le mie storie di abusi e violenze. Volevo, soprattutto, fare la filosofa e la superiore. Non ho raccontato le mie personali metooate, né sui social media, né in incontri (semi) pubblici, e le persone a me più vicine sapevano già (mi dicevo, ma non era proprio così). In Tomorrow Sex Will Be Good Again: Women and Desire in the Age of Consent (2021), Katherine Angel, sulla scia di Foucault, fa notare come ogni ingiunzione collettiva, e dall’alto, a esporsi e a dire la verità, sarebbe da guardare con sospetto – anche se, e forse soprattutto quando, la pressione a parlare è esercitata dai ‘buoni’. Sarebbe tuttavia una vanteria se dicessi che la mia ritrosia a confessare aveva solo questa spinta anticonformista.
A margine, è interessante notare come la cosiddetta teoria critica, diventata area of specialization sul curriculum, corra il rischio di immunizzare dalla vera critica, gettando un ombra imbarazzante di sospetto sulla la verità della critica. In quel tempo, avevo provato anche a scrivere un paper accademico (dal titolo pop: “Bad Romance. On the Grey Zones of Sexual Intercourse”, o qualcosa del genere), ma sono stata la peggior reviewer 2 di me stessa, ed è rimasto nel cassetto.
Fin da subito il mio interesse filosofico era incentrato su quelle fasi liminali dell’incontro sessuale che stanno tra violenza e desiderio, dissenso e consenso, estasi e disastro. Seguendo un mio consueto pallino teorico, non ero tanto interessata a determinare i criteri dello stupro, magari allargando le maglie di quelli esistenti, quanto a capire dove e perché i criteri non possono essere dati, si sfaldano non appena si provi a metterli nero su bianco, e perché un tipo di discorso incentrato sul bisogno neurotico di distinguere accettabile da non-accettabile, anche se utile e anzi fondamentale, non è l’unica cosa utile e fondamentale.
Come spesso succede, ed è comprensibile, in una fase iniziale di un movimento di questo tipo c’è una polarizzazione dei campi: o sei a favore, e devi dimostrare di esserlo in modo esponenzialmente assertivo, o sei contro. Lo slippery slope del fanatismo è inarrestabile, le incertezze vengono strumentalizzate dal fronte conservatore (mi è successo almeno una volta), e poi alcune voci dichiaratamente femministe hanno criticato il #MeToo, con argomenti più o meno deboli, spesso non riuscendo a separare antimoralismo sex-positive, senso comune, e auto-accecamento.
Ci sono momenti storici in cui il posizionarsi è d’obbligo, anche se mutilante, e io ho cincischiato: non volevo tradire il dovere intellettuale alla raffinatezza teorica, che si coniugava alla credenza (ancora viva, come si vedrà qui di seguito) nel valore epistemologico dell’ambivalenza, e scontavo un certo imbarazzo al litigio (caratteristica della mia identità di genere e di classe). Inoltre, momenti di forte emozionalità pubblica possono ostacolare, invece di favorire, l’introspezione trasformativa.
Spesso sono invidiosa di testi che avrei voluto scrivere io, fallendo. Quando ho letto il saggio “The Ballad of Sexual Optimism” di Maggie Nelson, nella sua raccolta On Freedom (2021), ho tirato però un sospiro di sollievo. La tesi principale del pezzo è che la libertà nelle cose dell’amore è un chiaroscuro, un processo di metamorfosi, una “constant struggle” (per citare il titolo dell’autobiografia di Angela Davis). Fasi di liberazione danno il via a nuove forme di oppressione, le libertà sono conquistate e perse, quello che appare come emancipazione, in un certo momento, e dalla prospettiva di un certo gruppo sociale, spesso adombra l’illibertà di altre. Questo è vero soprattutto nella sfera erotica, in cui l’incasinamento è quello che la rende preziosa, nefasta, irrinunciabile. Soffermarsi sulle “zone grigie” (anche Nelson le chiama così), cercare di capirle, non significa rinunciare al lavoro critico o giustificare lo status quo, al contrario: la resistenza e il cambiamento accadono quando il dualismo libertà vs. illibertà viene abbandonato, quando riusciamo a liberarci dell’ossessione di una condizione libera pura e perfetta, e troviamo il coraggio di sillabare, in positivo, alcune delle cose che potrebbero in effetti renderci più libere.
Il pezzo della Nelson è notevole perché nasce da una sua capacità, di cui ha dato prova in molti altri suoi lavori (soprattutto, credo, in Bluets, 2009), di sguazzare nel grigio. Una capacità simile a quella chiamata da Keats, in una sua famosa lettera, “negative capability”, il potere di tollerare il negativo “dell’incertezza, il mistero, il dubbio”. Parafrasando quel romanticone pentito ma anche ottimista di Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, è solo guardando in faccia l’ambivalenza, assumendola coscientemente, che si può traghettare dall’altra parte, imparare qualcosa. Nan Goldin, nella sua raccolta The Ballad of Sexual Dependency (1986) l’ha addirittura fotografata, con meno ottimismo, decidendo di mostrare in immagini tanto intime quanto universali, un suo diario pubblico, l’intreccio tra dipendenza (inebriante, se si riesce nell’impresa di sprofondarvici senza attizzare desideri di dominio, ma che può diventare tossica, e non solo metaforicamente) e il bisogno insopprimibile di indipendenza.
Nan Goldin, Self-portrait in kimono with Brian, New York City, 1983
Non si può fare teoria o arte a proposito di desiderio, sesso e amore senza una riflessione destabilizzante, e mai completamente razionalizzabile, su se stesse. Il personale non è solo politico, è anche una fonte potente del filosofico – se si riesce ad arginare l’imperialismo del concetto, che è potente perché promette un safe space, ma a quale prezzo? Il prezzo che per esempio ha pagato Amia Srinivasan in The Right to Sex (2021), celebrato come nuovo testo femminista di riferimento, è di rimanere dalla parte della ragione, di una ragione però che conoscevamo già, che si riduce a poche tesi sacrosante quanto stantie. Del resto, immergersi con gioiosa impertinenza dalla parte del torto, mostrando gli anfratti dell’ambivalenza, snobbando l’ambizione di presentare una posizione femminista chiara e distinta, richiede un’arte (e un’ingenua spensieratezza) cui la teoria e la filosofia non potranno mai aspirare. Mi pare che Chelsea Hodson, in una raccolta di saggi che affascinano e sconcertano, tradotta da poco anche in italiano (Stanotte sono un’altra, 2022) sia tra quelle che è riuscita ad avvicinarsi di più e più pericolosamente a questo ideale non ideale.
Spesso sono le rappresentazioni imperfette, pasticciate, problematiche, ad avere più potenziale educativo e trasformativo, perché non ci danno le risposte cui anelavamo, ma ci costringono a continuare a cercarle da noi, dentro e fuori di noi.
Ho finito da poco di vedere la serie TV “Anatomy of a Scandal” (Netflix 2022), che gira intorno a questioni note ma ancora irrisolte. Più di tutti i testi teorici, letterari e giornalistici che ho letto negli ultimi anni, questa serie non solo mi ha fatto rivivere esperienze passate con altri occhiali, ma anche riportato alla memoria un episodio che avevo rimosso (non quello più brutto, ma come non l’avevo ricordato prima?) Mi sono stupita dell’effetto che mi ha fatto, e chissà perché proprio questo mediocre prodotto televisivo? Una delle ragioni è che anche quando time is up, il tempo della presa di coscienza è un processo lungo e a balzelli, ed è influenzato da una serie imperscrutabile di diversi fattori. La razionalità critica e auto-riflessiva non è interamente nelle nostre mani, così come non lo è la dinamica fattuale della violenza e delle sue conseguenze. La protagonista femminile della serie è una magistrata (Michelle Dockery) incaricata di perseguire un giovane e promettente politico (Rupert Friend), accusato di stupro: dopo qualche puntata, scopriamo senza sorpresa che, da studentessa, anche lei era finita nelle mani dello stesso. Una nemesi molto tardiva, in fondo casuale. (Diversamente de lei, io ero riuscita a sgattaiolare via abbastanza in tempo. Non lo ricordo come un momento di agency, più come un colpo di fortuna.)
“Anatomy of a Scandal” ci azzecca in alcuni punti. Primo, mostra che “scandali” di questo tipo hanno la tendenza a reiterarsi, hanno la forma del trauma, e dell’abitudine, con una dimensione temporale inversa e complementare a quella della sua rielaborazione, della presa di coscienza. Ma i traumi non sono solo soggettivi e individuali, ma anche collettivi, si propagano come un contagio. In secondo luogo, “Anatomy of a Scandal” dice una verità importante, sfortunatamente (o no) difficile da fissare su un piano normativo e giuridico: si può desiderare sessualmente qualcuno, iniziare consensualmente o addirittura con fervore uno scambio sessuale, ma ad un certo punto succede qualcosa, e non ci si sta più. Ti senti violata, lo sei, ma non sai cosa fare, non è facile decidere, non sai come arrestare o cambiare il corso degli eventi, perché l’altra persona non è più in risonanza con il tuo desiderio, non ti vede e sente più, non quello che tu sei davvero in quel momento (ma chi o cosa sei, esattamente?), perché nessuno dei due riesce a capacitarsi del fatto che quello che appariva accettabile, desiderabile e piacevole prima, e lo era stato tante volte, in quel momento nuovo non lo è più.
Si può spiegare questo slittamento doloroso e drammatico in molti modi, un mix di elementi psicologici, esistenziali, strutturali. Eccone alcuni: in un rapporto sessuale, l’agency, l’essere in controllo di se stesse e dell’altro, diviene sottile e ineffabile; la persona che subisce un torto e diviene oggetto di violenza non ha mai imparato a essere pienamente agent (per motivi non solo biografici ma anche e soprattutto legati a una socializzazione di genere, o a altri fattori sociali); la persona violenta arriva a imporre la sua agency perché se ne sente in pieno diritto, perché lo ha imparato come privilegio (anche qui, per motivi non solo biografici ma anche e soprattutto di genere, classe, etc.); la comunicazione nelle cose del cuore e del corpo è fragile e frammentata; la maggior parte delle persone privilegiate, uomini bianchi di un certo ceto sociale, ma non solo, non hanno evidentemente ancora imparato a essere dei bravi amanti. Molti studi empirici, per esempio quelli sul cosiddetto orgasm gap, hanno dimostrato che sono le donne (eterosessuali) a soffrire maggiormente del pessimo sesso, non solo perché sono più vulnerabili alla mancanza di rispetto, abusi, e violenze (mortali) di ogni tipo, ma anche perché fanno più fatica a essere soddisfatte e a provare piacere. Apparentemente, negli ultimi anni, negli Stati Uniti e forse in generale nei paesi occidentali, si farebbe meno sesso, e la GenZ sarebbe meno interessata al sesso, non solo ma anche perché le donne eterosessuali preferirebbero l’astinenza alle delusioni.
Osservando, con crescente disgusto, il protagonista maschile di “Anatomy of a Scandal”, ma anche Johnny Depp da qualche anno, la flebile speranza è che l’aggressività, l’incompetenza, l’ignoranza emotiva e sessuale degli uomini eterosessuali si stiano rivoltando contro di loro, e non solo e non tanto perché sono ora più vulnerabili di fronte alla legge. Questa serie Netflix, però, s’incaponisce sulla difficoltà e l’impossibilità di distinguere il buon sesso da quello cattivo in una cornice legale e istituzionale. Il giovane politico è accusato di stupro da una sua ex amante e assistente, ma viene scagionato dalla giuria. Non volendo tradire lo spirito del #MeToo, ma non riuscendo nemmeno a uscire dal paradigma giuridico e punitivo, la serie ricorre a una spiegazione di tipo aristotelico, ovvero incentrata sulla questione del carattere vizioso. Noi spettatori, e forse di più le spettatrici, ammettiamo che questo stupro sta in zona grigia, che riusciamo a rischiarare solo all’evidenza che costui è comunque colpevole, perché è, di fatto, una persona manchevole: ha compiuto delle nefandezze in passato, quando era studente a Oxford. Incluso l’altro stupro di cui prima (meno grigio). Il finale suggerisce che non se la caverà così facilmente, ma non per via dei suoi atti sessuali, ma perché coinvolto in una storiaccia di droga.
La commistione tra motivo femminista e motivo conservatore-proibizionista lascia perplesse, ma la serie ha un altro punto debole: quello che è stato vissuto come stupro dall’ex amante (Naomi Scott) ci sembra meno convincente di quello esperito dalla studentessa che il ragazzo conosceva a malapena (Nancy Farino). Nel primo caso, c’era stato un rapporto di complicità e intimità, il secondo avviene in un incontro fugace, imprevisto, in cui nessuno dei due è pienamente in sé. Se da una parte ci sta la denuncia alla rape culture nei campus universitari, dall’altra la distinzione rischia di reiterare la vecchia logica secondo cui la violenza in un contesto relazionale abbastanza stabile e duraturo è difficilmente concepibile (fino a poco tempo fa, lo stupro in un matrimonio non poteva darsi). Più in generale, “Anatomy of a Scandal” non fa tutto quello che potrebbe fare per contribuire a un discorso utile, non dogmatico, propositivo, sulle nostre cattive abitudini sessuali.
Il sesso cattivo (violento, cieco, presuntuoso, insoddisfacente, almeno per una delle parti coinvolte), e quello buono (rispettoso, aperto, gioioso, educativo, trasformativo, per tutte le parti coinvolte) non dipendono dalla morale e dal carattere individuali. L’arte del sesso richiede alcune capacità (per esempio di ascolto, empatia, sincronia e allo stesso tempo distanza, visualizzazione e anticipazione del punto di vista altrui, trascendenza di sé) e alcune virtù (per esempio la pazienza, il coraggio di accettare senza paura la vulnerabilità propria e altrui, di fare auto-critica, di controllarsi e lasciarsi andare secondo ritmi che oscillano tra risonanza e dissonanza). ‘No’ significa e deve significare ‘no’, questo è il minimo – ma come imparare a dire di no, e a farlo in modo libero? E cosa significa dire ‘sì’ quando ci accostiamo, con gioia e paura, ai corpi degli altri? Come imparare ad avere paura in un modo che conduca a, ed esprima gioia, e la gioia o la grazia che fiorisce nella e dalla paura, o ambivalenza? A che cosa possiamo dire di sì, e come dirlo?
In Tomorrow Sex Will Be Good Again, Angel ammonisce giustamente che domande di questo tipo non devono ricadere sulle donne, come responsabilità, dovere e lavoro emotivo. Il punto centrale del libro è la critica al double bind in cui attualmente le donne (ma anche, aggiungerei, tutte le persone che, strutturalmente, sono più soggette al sesso cattivo) si dimenano: da una parte, siamo sbeffeggiate e criticate quando non ci riesce di capire, singolarmente, quello che vogliamo, e non sappiamo imporlo con sicurezza e padronanza di sé. Quando, appunto, ci barcameniamo nell’incertezza, nell’opacità (e che cos’è questo mio articolo se non un tentativo di scusarmi di questo?). Dall’altra, siamo sistematicamente punite quando ci mostriamo intraprendenti, desiderose di godere ma alle nostre condizioni e secondi i nostri termini.
Ma da questa critica, come muoverci e dove andare? Angel non lo dice, e non che io lo sappia esattamente. Ma mi pare che lo scioglimento del doppio vincolo – una contraddizione nefasta, non un’ambivalenza feconda – non può che essere impresa collettiva, ancorché non unitaria, che si nutre del conflitto tra gruppi sociali e punti di vista (almeno quelli genuinamente interessati alla questione), che interviene su più fronti contemporaneamente, immaginando e creando spazi comuni, materiali e digitali, di sperimentazione artistica (compresa quella pornografica), dialogica, di festa e di riflessione, in cui riabituarsi, disimparare affetti e schemi dati e imparare capacità e virtù nuove. Come la libertà, se il sesso non può essere buono per tutti, non lo è per nessuno. L’arte sessuale è profondamente intima, personale, e proprio per questo sociale e politica. Time is yet to come.
[Immagine: Nan Goldin, “Trixie on the cot”, New York City 1979, da The Ballad of Sexual Dependency].
Da https://www.leparoleelecose.it/?p=44408
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