di Mimmo Cangiano
Fredric Jameson, Dossier Benjamin (Treccani, 2022), a cura di Massimo Palma (trad. di Flavia Gasperetti)
Rivedendo il suo ormai canonico giudizio del 1971 (Walter Benjamin o della nostalgia), Fredric Jameson (idealmente l’ultimo esponente di quella stessa tradizione politico-culturale che ha in Benjamin uno dei nomi più importanti) si impegna qui in un serrato confronto con l’intero corpus del filosofo ebreo-tedesco. Tale confronto, se fosse possibile operare una reductio ad unum tra le decine di temi trattati da Jameson, si incentra nel proposito, potrei forse dire così, di salvaguardare la natura storica, e finanche storicista (uno storicismo naturalmente depurato da ogni teleologia), della speculazione benjaminiana.
Il passato, certo, il Benjamin ossessionato da una totalità che ci è alle spalle e alla luce della quale è possibile operare quel marxista rovesciamento-di-ciò-che-è-rovesciato, nella coscienza della crisi irreversibile – nella società capitalista – di ogni rapporto simbolico col reale, e dove dunque anche l’opera d’arte, quando non in combutta col nemico (il concetto benjaminiano di “regressione”: la riformulazione fintamente auratica della cultura nazi-fascista), si dà come sintomo di un reale già estraniato rispetto all’uomo che lo produce. Arte allegorica dunque, cioè capacità dell’arte stessa (il mondo degradato di Baudelaire e degli altri) di manifestarsi come parte di quella “seconda natura” che è il reale-capitalistico, sottraendosi così alla pretesa di una propria autonomia (e il sottolineare su questo punto l’enorme distanza fra Benjamin e Adorno è uno dei tanti meriti di questo libro), e mostrandosi come parte di una fase storica dominata dal marchio della merce. E, aggiunge Jameson (e giustamente Massimo Palma pone l’accento su questo punto nella sua eccellente introduzione), per Benjamin tutto questo è “massa” (produzione di massa, consumo di massa, fruizione di massa).
Ma qui c’è da intendersi. A differenza di tutta la cultura di destra, della cultural liberal-conservatore (Ortega y Gasset) come di quella liberal-democratica (lo Georges Duhamel criticato nel saggio sulla “riproducibilità tecnica”), per Benjamin la modifica dei procedimenti quantitativi (produzione, consumo, ecc.) provoca un salto che è di tipo qualitativo. Non si tratta dunque di continuare a rilanciare il binomio qualitativo vs. quantitativo versando lacrime sul kitsch della nuova società industriale, sognando marce indietro politiche, oppure vagheggiando un’arte in grado di riattivare quel rapporto simbolico-conciliativo col reale: un’arte del genere, quella che tanti scrittori di destra (Benn, Jünger, ecc.) sognano in quegli anni rimodulando la teoria goethiana della forma-originaria (e del rischio di una “fascistizzazione di Goethe parlava Lukács), è sempre infatti, secondo Benjamin, un’arte non in grado di riconoscersi in quanto sintomo, e dunque è un’arte incapace a sussumere la forma-merce quale nucleo più profondo di se stessa.
È tutto ciò già via, spiega benissimo Jameson, verso l’“estetizzazione della politica”, perché un tale arte, rifiutandosi alla relazione dialettica con la realtà del mondo capitalisticamente organizzato, si penserà prodotto di altre, più antiche e non-mercificate, matrici (siano il Volk, i miti identitari, le componenti razziali, ecc.), e si considererà in quanto emersione, proprio sulla scena socio-politica, della stessa stoffa di cui ritiene fatta se stessa. Ecco invece che “tutto nell’opera di Benjamin è mosso dalla passione per la storia (o quantomeno per ciò che è storico)”, e la stessa Erfahrung, l’esperienza autentica, può ormai definirsi solo nel quadro di quelle esperienze moderne e massificate (gli choc) che esperiamo ogni giorno nel nuovo passaggio metropolitano. Allo stesso modo, del resto, l’aura si definisce solo in rapporto a quella riproducibilità tecnica che l’ha già resa inutile.
Jameson lo ha chiarissimo: la speculazione di Benjamin non muove da principi binomiali (essere vs. divenire; verità vs. apparenza, ecc.): il salto qualitativo di cui dicevo prima (di nuovo: il mondo di massa) ha infatti già riformulato ogni possibile arché rendendola un’essenza che ormai ha senso solo a partire dai frammenti che ne sottolineano l’assenza. Non si tratta neanche, dunque, di fare il giro per vedere, come in Sul teatro di marionette di von Kleist, se il paradiso sia per caso aperto in qualche punto dall’altra parte, perché la mercificazione del reale (e del pensiero come dell’arte) riduce ogni presupposto simbolico-teologico a pura narrativa, salvando sì l’idea di una possibile “redenzione”, ma trasponendo quest’ultima sul piano della storia (ed ecco l’interesse per il messianesimo ebraico dove la “rivelazione” non è ancora avvenuta), cioè sul piano della lotta politica.
Lo stesso stile (di Benjamin stesso e degli autori da lui amati), dice Jameson, in una movenza che ormai abbiamo imparato a riconoscere come una delle modalità preferite di analisi del critico americano (è ciò che altrove chiama “ideologia della forma”[1]), deve muoversi fra la registrazione dell’effimero-fenomenico (il Pittore della vita moderna di Baudelaire) e il riferimento a ciò che un tempo era essenziale, ma, come sempre, si dà ora non più come essenza, ma solo come choc allegorico correlato all’assenza di un segno, di un significato. E verrebbe anche da chiedersi se tutto ciò, che poi è lo spazio in cui una soggettività agonistica rispetto al capitalismo può emergere, non abbia qualcosa a che fare con quella “catarsi dal momento economico al momento etico-politico” che Gramsci metteva all’origine del marxismo (e negli ultimi anni Gramsci è stato finalmente al centro degli interessi di Jameson): capacità, vale a dire, di sottrarsi alla subordinazione (anche ideologica) dell’attività economica. Come fare, detto in altro modo, una politica di lotta con un pensiero che è in dialettica subalterna col mondo capitalisticamente organizzato? O, ancora, come fare arte con materiali già inevitabilmente ridotti a merce? “Il materialismo, scrive Benjamin, fa saltare l’epoca della ‘continuità storica’ reificata”, introduce cioè disconnessioni nella compatta forma ideologica di una società che ha tutto l’interesse a veicolare la natura autonoma e eternizzata (cioè non in relazione dialettica con la sfera storica di produzione e consumo) del pensiero e dell’arte. Straniamento, “estetica dell’interruzione”, Baudelaire e poi Brecht: tutto ciò concorre a far perdere l’equilibrio a chi legge (le cesure e i vuoti, su cui sbattiamo la testa quando leggiamo, nei testi dello stesso Benjamin). Questo, comprende Jameson, serve a svelare al lettore, comodamente seduto a teatro o sprofondato nella sua poltrona, che è massa; che è cioè parte integrante di un essere-sociale che si definisce a partire dal “numero”, cioè dall’aumento smodato di prodotti venduti e comprati. La metropoli (Parigi, Berlino) e la galleria commerciale (i Passages) appaiono allora non tanto quale metafora del sociale (questa sarebbe una spiegazione ancora troppo vicina, proprio nel sue essere metafora, alla sfera del simbolico), ma prolungamento degli choc della modernità nel testo stesso, vale a dire in quel luogo che si era prima definito (anti-storicismo inerente al funzionamento della Struttura) proprio qualitativamente, cioè in opposizione a quel quantitativo che ora è la ragione del mondo.
Allo stesso modo tutto quello che di Benjamin, nel saggio del ’71, era ancora “nostalgia”, “malinconia”, “arché”, ecc., viene ora inteso, materialisticamente, quale “commentario” alla Genesi, vale a dire in quanto linguaggio comunicativo che, come tale, già porta su di sé (si pensi naturalmente al saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo) i segni di una “caduta” che è appunto mercificazione, lingua arresa in partenza alle necessità comunicative, e dunque inevitabilmente avviluppata nel meccanismo dell’alienazione, perché rivelata (implicitamente da Benjamin stesso) come merce. Per dirlo in un altro modo, se c’è “caduta” non ci può essere più Origine, la caduta – cioè la discesa nel mondo mercificato – annulla la possibilità dell’Origine.
Qui il “mito” (e si comprendono le accuse a Bataille e soci) è già ormai per sempre mercificato (“tecnicizzato”, come diceva Furio Jesi), la sua natura è cioè per sempre storica, perché non si dà, neanche nel passato (“neanche il passato è al sicuro”), uno spazio di verità che non sia bollato dallo stigma della merce. Nessuna “malinconia di sinistra”, sostiene dunque Jameson, ma l’analisi puntigliosa, fin su se stesso e sulle proprie passioni, degli effetti dello Zeitgeist. La storia dunque, la nostra storia dove ogni parola è già, allo stesso tempo, reificata e allegorica: merce che, riconosciuta come tale, può attivare la coscienza storica, cioè il principio del cambiamento che può essere anche principio di rivoluzione.
Come nel suo Baudelaire e nel suo Kafka (“significati fuori dalla nostra portata e tuttavia inflessibili come le regole di una società burocratizzata”), anche in Benjamin le masse infestano ogni pagina, anche quelle che parlano del ‘Paradiso’. Ed è in un certo senso inevitabile, perché il riconoscimento di una storia fatta dal “numero” (che abbia dunque il quantitativo al suo centro) è proprio ciò che denuncia il “tempo omogeneo” (e in realtà ultra-disgregato) della presentificazione capitalista. Allo stesso modo, come nel saggio Il narratore, la dialettica fra la contemporaneità capitalistica (il mondo bellico e metropolitano della tecnologia e degli choc) e una vita radicalmente differente (“la vita del villaggio contadino che precede la città industriale”), non presenta un’esistenza “naturale” deprivando di realtà il contemporaneo (questa sarà la soluzione “regressiva”, tipica dell’appropriazione fascista del mito e della natura), ma sottolinea appunto che il mondo naturale può ormai strutturarsi solo in senso antagonistico, cioè in senso storico-politico, rispetto al paesaggio mercificato che abbiamo davanti. Dove cioè l’estetizzazione è “compensazione e regressione” (tentativo ideologico del mondo industrializzato di restaurare artificialmente un’aura), la dialettica segna invece la morte dell’estetico come spazio autonomo rispetto allo stesso politico, e appunto ciò Benjamin chiama “modernità”. Perché “è certo per mezzo della merce che l’estetizzazione ottiene i suoi trionfi, che includono la celebrazione della bellezza della guerra come esperienza estetica e culminano nel fascismo”. Il solo mezzo dunque per ricostruire un’estetica nell’epoca moderna, è la “politicizzazione dell’arte”, o, più esattamente, la storicizzazione stessa dell’esperienza estetica, vale a dire, ancora una volta, l’introduzione, nel suo regno, del “numero” e delle masse, cioè di quei fattori che sottolineano proprio del nostro stesso ingresso nel tempo storico, che è anche il tempo in cui il passato e le sue sovrastrutture, ormai in dialettica con la merce, si riducono a narrativa, a commentario, ma, proprio così facendo, sottolineano della necessità di un’azione storica, cioè spingono verso un’idea di “redenzione” spostata nel futuro. In questo senso, giustamente spiega Jameson nel finale del volume aperto sulla nostra contemporaneità neoliberale, la presentificazione totalizzante che esperiamo non serve solo a gettare una coatta aura sul tempo presente, ma appunto a negare la possibilità del futuro.
Note
[1] E in tal senso quanto sono cariche di ideologia, di falsa coscienza, le accuse che il mondo accademico statunitense muove da qualche anno allo stile di scrittura di Jameson stesso?
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=44309
Nessun commento:
Posta un commento