01 settembre 2022

G0FFREDO FOFI SU VITTORIO DE SETA

 



Quella che segue è la postfazione di Goffredo Fofi al volume Il meridionalista dell’immagine. Il cinema e la televisione di Vittorio De Seta di Ludovico Cantisani, recentemente edito da Edigrafema, con un ricco apparato di interviste a collaboratori ed eredi artistici del regista.


IL MERIDIONALISTA DELL'  IMMAGINE

di Goffredo Fofi

Posso vantare una lunga e a tratti tormentata amicizia con Vittorio De Seta, la cui opera, insieme a Vincenzo Consolo, tanti anni fa, contribuii a far ritornare in auge, a far amare e stimare quanto meritava.

Ho conosciuto De Seta nel 1956 o ’57 a Partinico, quando venne a trovare Danilo Dolci per averne consigli sul film che aveva in mente, la storia del giovane sindacalista di Sciara Salvatore Carnevale, ammazzato dalla mafia un anno o due prima, nel maggio del ’55. (Il film finirono per farlo i Taviani, il loro esordio, Un uomo da bruciare; e fu certamente assai diverso da quello pensato da De Seta).

Era il primo regista che conoscevo ma, da appassionato di cinema, avevo visto un suo documentario e letto di lui su “Cinema nuovo”. Mi colpirono la sua gioventù e la sua eleganza, la sua signorilità. Invece che col film su Sciara, poté esordire nel lungometraggio solo nel 1961, con Banditi a Orgosolo. Un altro Sud, dentro un’altra isola… Molti anni dopo lo accompagnai in un suo giro in Sardegna, constatando il grandissimo affetto di cui era circondato grazie a quel film, che con rispetto e poesia era stato il primo a mostrare l’isola nel suo ambiente naturale e sociale, nella sua cultura, nelle sue difficoltà, e nella sua straordinaria bellezza… De Seta fece tempo dopo un secondo lungometraggio, che però sconcertò la critica – ferma alla sua prima immagine di lui. Era Un uomo a metà, confessione di una crisi esistenziale profonda, segnata dall’esperienza dell’analisi junghiana. Ritrovò il successo solo col Diario di un maestro, un lavoro televisivo prima che cinematografico, e di straordinaria misura nella lunga narrazione e nell’approfondimento di un ambiente – un’aula di scuola elementare nella periferia romana, il rapporto e legame pedagogico di un maestro con i suoi allievi. Cosa rara per quei tempi, per non dire dei nostri, non solo in televisione anche in cinema, con l’unica eccezione di Luigi Comencini, il Diario di un maestro fu tra i pochi film nostri in cui i bambini erano veri bambini, non bambini ideali. Fui ancora io a presentarlo insieme a lui, qualche anno dopo, nella sala del consiglio comunale in Campidoglio, quando ormai De Seta era celebrato in festival e rassegne, ed era stato infine “scoperto” da registi e da critici di mezzo mondo.

Non c’è molto di cui possa davvero inorgoglirmi: saper giudicare del talento di un autore è uno dei primi compiti di un critico, e mettersi a sua disposizione per assisterlo in iniziative che potessero favorire la conoscenza delle sue opere ne è un’ovvia conseguenza, anche se non sempre succede. Per diversi anni, De Seta è stato per me un vero amico, nel dialogo e nel confronto con la storia di appena ieri e con il presente dell’Italia, in particolare del Sud. E nel confronto con la storia, con il presente, e con l’incerto futuro di un’arte.

Non sempre, come ben sanno i collaboratori che ha avuto più vicini, il rapporto con lui era dei più facili. De Seta era un grande nevrotico e un amico esigente. Ma quanto era possibile imparare da lui, dalla sua idea del cinema come strumento artistico e culturale fondamentale alla comprensione della realtà, dal suo modo di intendere l’esplorazione del mondo e la possibilità di raccontarlo in immagini. Allievo a distanza del grande Flaherty, anche se in sostanza autodidatta, De Seta era soprattutto un poeta, della qualità e profondità di uno Scotellaro e più tardi di un Sinisgalli, di Dolci e di Montaldi, e segnato più o meno direttamente dal magistero di Antonio Gramsci (ancora un sardo!) e di Carlo Levi… La costruzione stessa dei suoi film, quale che ne fosse la lunghezza, era da poesia e non da prosa, e da poesia antica, di un mondo non ancora dominato dalla macchina.

Vittorio De Seta ha avuto in sorte di vivere un tempo di enormi cambiamenti, quando il “mondo di ieri” scompariva anche nel nostro Mezzogiorno e la tecnica prendeva il sopravvento. Dando pane, ma uccidendo spesso ogni poesia. Per questo i suoi film sono un documento unico nella storia del nostro paese, anche se – tra gli storici – pochi se ne sono accorti e sono disposti a riconoscerlo…

È nato in un mondo in cui Omero era ancora di casa, e ne ha visto, soffrendone, la fine. Ma anche per questo la sua opera è inestimabile, forse unica. Forse anche più di quella di un Rossellini o di un Visconti, e pari soltanto, forse, a quella di Pasolini, che come lui ha sofferto la violenza di una mutazione che non ha riguardato solo le tecniche, ma le qualità stesse dell’umano.

Sono, e dobbiamo esserlo in tanti, grato a Ludovico Cantisani per aver raccolto tante testimonianze e riflessioni sull’arte, più unica che rara, di Vittorio De Seta.


Pezzo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/il-meridionalista-dellimmagine-postfazione-di-goffredo-fofi


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