10 settembre 2022

L' INTRODUZIONE DI SANTO LOMBINO ALLA CRONACA DI GIACOMO PAGANO DELLA RIVOLTA PALERMITANA DEL 7 e mezzo.

 




Nota introduttiva

di Santo Lombino

In ottobre1 1866 la rivoluzione a Palermo, detta volgarmente il sette e mezzo. In quel tempo mio patrigno aveva una barca pescareccia, in cui io lavoravo, per pigliare qualunque pesce nel golfo di Termini Imerese. L’equipaggio era composto di nove marinai col padrone, e si andava alla pesca verso le due dopo la mezzanotte.

[...] Era la una dopo la mezzanotte di un giorno del suddetto ottobre quando un certo Bartolo Lombardo allora capo dei pescatori, bussò la porta chiamando mio patrigno. Io per primo esco fuori e mi vedo circondato da un venti carabinieri. Non sapendo di che si trattava mi sorpresi; ma non ne ebbi paura. Quello che volevano da noi era di andare a chiamare i marinai della nostra barca. Io subito andai a chiamare tutti.

[...] Così saliti tutti in due barche e fornitici di pane vino e formaggio ordinato dal capo dei pescatori, salpammo per Palermo. Prima di giorno eravamo poco fuori del Capo Zafferano, quando un vapore del Governo ci avvista; si avvicina, e ci chiamò all’ordine.

I carabinieri scambiate le parole di uso salirono a bordo e le nostre barche a rimorchio seguirono il vapore sino dentro il porto di Palermo ove arrivammo a giorno chiaro. Allora ci diedero ordine di fare colazione. Dopo di che gli stessi carabinieri scesi nelle nostre barche vollero essere portati a terra.

Il posto in cui noi approdammo era il cosiddetto molo di Palermo, il quale in quel momento era pieno di grandi mucchi di cadaveri, e di ambulanze che correvano trasportando feriti. Spettacolo questo raccapricciante e che noi dovevamo subirlo, perché forzati a stare lì ad aspettare i carabinieri che scesi a terra coi fucili abbassati s’internarono nella città, dandoci ordine di aspettarli li. Verso mezzogiorno tornati, si rimisero nelle barche, e li abbiamo portati nuovamente a bordo dello stesso vapore; il quale portava il nome di Re Portogallo; Saliti anche noi a bordo ci fecero mangiare.

Verso le due dopo mezzogiorno tornammo sulle barche coi carabinieri e ci ordinarono di dirigerci verso il castello che giace nello stesso porto. Arrivati a un tiro di palle da questo, una scarica dei rivoluzionari ci fece tornare indietro, fortunatamente con un solo carabiniere ferito, in un braccio.

Alle quattro dopo mezzogiorno Palermo era tranquillo. Come per incanto la rivoluzione era finita”.


Così scriveva, anzi dettava, nel 1924, negli Stati Uniti, dov’era emigrato, Giuseppe Gentile, commerciante all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli tra New Orleans e New York, già pescatore di Termini Imerese (Palermo), riferendosi ai suoi anni giovanili. Nelle stesse ore di cui tratta questo racconto, tra l’altro, un treno era stato sequestrato dai fratelli Carmelo e Francesco Cottone alla stazione ferroviaria di Palermo per andare a prendere ribelli a Termini e dare così manforte all’insurrezione.

Quella di Gentile è una rara testimonianza di prima mano di quanto accaduto nel settembre 1866, quando divampò una rivolta popolare nel capoluogo siciliano e in molti paesi della sua provincia. Rara, perché la maggior parte delle notizie su quella insurrezione non ci arriva da chi prese parte alla mobilitazione, ma da chi la condannò o represse o osservò dall’esterno. Essendo durata dall’alba del 16 settembre fino a mezzogiorno del 22, la sommossa fu chiamata subito del “Sette e mezzo”, utilizzando il nome di un noto gioco alle carte. Quel moto di piazza ricalcava lo schema d’azione di quelli che si erano svolti nel capoluogo durante la prima metà dell’Ottocento. Nel 1820, nel 1848 e nel 1860 (e in parte nel 1856), si erano messe in movimento migliaia di persone insorte ad una data prefissata e si erano formate centinaia di “squadre” o “squadriglie” armate, sotto la guida di capi popolari riconosciuti, in grado di dare le indicazioni per la battaglia e quasi sempre capaci di ricompensare con una paga giornaliera coloro che si impegnavano in modo continuativo per le strade, nelle piazze e sulle barricate.

Fino al fatidico maggio 1860 le mobilitazioni in Sicilia avevano individuato la controparte nella monarchia borbonica, considerata dalla popolazione di ogni ceto sociale nemica di ogni libertà ed autonomia dell’Isola e ostacolo al pieno dispiegamento del progresso economico, culturale e civile dei suoi abitanti. Dopo il 1860-61, come è noto, la situazione istituzionale era cambiata con il neo formato Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II, già re di Sardegna e del Piemonte, sovrano d’Italia dal marzo 1861. L’insurrezione del 16-22 settembre 1866, a qualche mese dalle sconfitte di Lissa e Custoza, era invece indirizzata contro il governo della Destra storica e la monarchia sabauda che avevano coronato il sogno dell’unificazione nazionale (benché da completare), anche grazie al contributo di sangue, di impegno e di lotta dei Siciliani. Secondo lo storico Francesco Brancato, che ha dedicato ai fatti vari saggi, c’era un’indubbia continuità in termini di protagonisti e di modalità di conduzione con le rivoluzioni anti-borboniche che si erano verificate nei decenni precedenti: “Non pochi di coloro che furono poi ritenuti i maggiori responsabili di quanto avvenne nel ’66 nella città e nei dintorni di Palermo, avevano pure preso parte alla marcia di liberazione del Mezzogiorno ed erano stati poi ancora al seguito di Garibaldi nel tentativo che aveva avuto il suo triste epilogo ad Aspromonte”.

Nella notte tra sabato 15 e domenica 16 settembre 1866 squadre di picciotti insorsero in armi prima nelle periferie e poi nel centro cittadino di Palermo e nei paesi della cintura contro uomini e simboli della pubblica amministrazione, sventolando bandiere rosse e gridando “Viva la repubblica!”. Gli organi di stampa, i comunicati governativi, alcuni instant book, di cui più avanti parleremo, bollarono subito l’insurrezione come il prodotto delle mene dei legittimisti seguaci dei Borbone mescolati a facinorosi della delinquenza mafiosa e possibile grazie alla presunta natura indocile e incivile dei siciliani, che pure erano stati oggetto di lode in passato per le loro manifestazioni di patriottismo. I più accorti oppositori si dovettero convincere, come ha scritto Antonino Blando, che “all’immagine di un’isola rivoluzionaria si era sostituita quella di una Sicilia delinquente in cui la sicurezza pubblica era nulla e la mafia era tutto. Questo cambiamento di prospettiva spiega l’ombra che è calata su quegli avvenimenti e il silenzio con cui essi sono stati avvolti per i 150 anni dell’unificazione”.

Molti osservatori o protagonisti istituzionali affermarono, per varie ragioni, di essere stati colti di sorpresa dallo scatenarsi della rabbia popolare. Eppure, le autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico sentivano da qualche tempo che lo scontento era nell’aria, anche in conseguenza delle campagne repressive condotte prima dal generale Giuseppe Govone, futuro ministro della Guerra, e poi dal generale Giacomo Medici.

Il 28 maggio 1866, un mese prima dell’inizio delle ostilità che avrebbe visto l’Italia impegnata nella cosiddetta “terza guerra di indipendenza” contro l’Austria, il nuovo prefetto del capoluogo, il moderato ex ministro senatore Luigi Torelli, aveva inviato ai sindaci della provincia una circolare nella quale faceva presente che “tutto il Regno d’Italia” stava per entrare in “uno dei periodi i più importanti e dal quale dipenderà la sua sorte futura”. La guerra che si annunciava “non sarebbe stata guerra piccola, ma grossa e combattuta con un nemico potente”. Le autorità comunali erano quindi chiamate ad una grande responsabilità: in un momento in cui le necessità belliche avrebbero sicuramente distolto molte energie e risorse militari dalle regioni meridionali per affrontare il conflitto previsto “nell’Alta Italia”: esse avrebbero dovuto collaborare al mantenimento dell’ordine pubblico nelle retrovie. “E’ evidente – sottolineava l’alto funzionario – che se in ogni Comune potesse regnare perfetta tranquillità, se ogni disordine, dal quale viene minacciato, potesse venir represso dalle forze cittadine locali, se ogni sua risorsa venisse utilizzata, e nessuno infine mancasse al suo dovere, si raggiungerebbe quella condizione, che si potrebbe chiamare l’ideale”. Nello specifico siciliano, il rappresentante del governo si dichiarava però convinto che vi fosse radicata presenza di “molti malandrini nemici di ogni governo, ed infesti a tutti”. Si faccia attenzione ai termini utilizzati: “malandrino” richiama la criminalità mafiosa, mentre “nemici di ogni governo” potrebbe significare sovversivi, anarchici, oppositori d’ogni tipo al regime monarchico dei Savoia. D’altro canto, tutta la pubblicistica filogovernativa e i rapporti delle varie autorità confondevano artatamente delinquenza comune e dissidenza politica per delegittimare quest’ultima. “E’ sin troppo chiaro – questo è il punto che vuol sottolineare Torelli – che questi nemici cercheranno approfittare delle circostanze difficili, nelle quali si trova la Nazione, per raggiungere il loro scopo; sarebbe una puerile illusione il credere altrimenti; e quanto ai malandrini, che sono la forza materiale (...), già si sentono gli effetti”. La tenuta dell’ordine pubblico, se può ancora contare sui Reali carabinieri e le guardie di Pubblica sicurezza, non può più contare sulla “truppa” che sarà impegnata nelle operazioni militari contro l’Impero austro-ungarico. Da ciò, secondo il prefetto, discende per conseguenza logica che “la sicurezza parziale interna conviene l’assumano i cittadini”, cioè i vari nuclei di Guardia nazionale presenti nei comuni.

Così a settembre, tre mesi dopo la circolare del senatore-prefetto, scoppia l’insurrezione a Palermo e provincia. Assodato il fatto che non si trattò di una esplosione improvvisa e inaspettata, né di una iniziativa “spontanea”, cos’era dunque accaduto nei sei anni che separavano la conquista garibaldina del meridione dallo scoppio di questa nuova mobilitazione popolare?

Già durante la spedizione dei Mille non furono pochi i motivi di scontro all’interno di coloro che si battevano in Sicilia per la fine del dominio della dinastia borbonica. E’ noto che la linea di condotta dei sostenitori diretti di Garibaldi non era la stessa del governo del Piemonte guidato dal conte di Cavour e portata in Sicilia dai suoi inviati. I primi avrebbero voluto l’applicazione piena dei decreti dittatoriali del Generale diretti a ricompensare i contadini che si battevano per l’unità nazionale e, pur accettando il perimetro di tale unità sotto la guida dei re di Sardegna, proponevano una assemblea rappresentativa che deliberasse termini e tempi dell’adesione dei Siciliani alla compagine unitaria italiana. Come sappiamo, invece, i decreti di natura sociale rimasero lettera morta e l’annessione fu ratificata con il plebiscito dell’ottobre 1860. Tali scelte non furono senza conseguenze tra coloro che avevano preparato la spedizione delle camicie rosse e ne avevano guidato le tappe, avevano sostenuto Garibaldi negli scontri armati e avevano condiviso la sua avanzata verso Napoli. A ciò si aggiungeva la delusione di questi ultimi per la mancata prosecuzione del viaggio liberatore del Generale che, a loro giudizio, avrebbe dovuto completarsi con la liberazione di Roma dal dominio papale.

Tra coloro che avevano partecipato in prima fila a queste campagne, Giovanni Corrao, calafato palermitano, nominato generale dell’esercito meridionale, che aveva deciso di battersi per un programma repubblicano, ma di andare poi oltre Mazzini, verso obiettivi radicali di democrazia e di giustizia sociale.

Le masse – scrive di Corrao il nostro autore - idolatravano in lui il coraggio da leone, il cuor generoso, e quella stessa rappresentanza di gente popolana, da cui traeva origine; e, malgrado i suoi difetti, tra quali primeggiava il facile trasportarsi della sua calda indole meridionale, egli era ben accolto dalle persona d’intelligenza politica e di alti fini, le quali non disdegnavano d’unirsi a lui ne’ ragionari e ne’ propositi (pag...)


Faceva parte di questo gruppo, e lo capeggiò dopo l’assassinio di Corrao (1863), anche Giuseppe Badia Schirò (al momento dello scoppio del “Sette e mezzo” in carcere con accuse legate al suo impegno politico radicale). L’indirizzo abbracciato da Corrao e Badia, in contrasto aperto con la linea della Destra storica, poneva di fatto tale gruppo in concorrenza diretta con quella parte degli ex repubblicani che si muovevano, sul solco delle scelte di Francesco Crispi e del giornalista di origini messinesi Francesco Perroni Paladini, verso l’accettazione della lotta parlamentare della Sinistra storica. Era stato proprio Badia con i suoi sodali a preparare una azione di protesta collettiva già dal 1863, azione più volte annunziata e diverse volte rinviata. A lui guardavano con simpatia anche i gruppi di nostalgici filoborbonici che non volevano rassegnarsi alla sconfitta subita nel biennio 1860-61 e cercavano ogni mezzo per prendersi la rivincita. Questi ultimi sobillarono il moto insurrezionale, ma non ne furono certo i protagonisti. Si trattò di una convergenza, o come l’ha chiamata Paolo Alatri, di “una coincidenza di fini” tra i rivoluzionari di sinistra e l’opposizione di destra.

Scrive Pagano:

L’insurrezione, alla quale questo popolo minuto si preparava non potea essere un ritorno del passato. Tranne un meschino partito di gente di dubbia fama e priva d’onore, niuno nell’isola vagheggiava il ritorno dell’insopportabile tirannia borbonica. Gli stessi clericali, che erano stati coloro che più ai borbonici si erano accostati, miravano ora qui ad una sommossa, la quale aver potesse il valore di una dimostranza capace d’imporre al Governo ed al paese l’abrogazione della legge sulla soppressione delle corporazioni religiose (p...).


La scelta dei governi post-cavouriani in Sicilia fu quella di nominare dei Luogotenenti del Regno che funzionassero da anello di trasmissione delle indicazioni centrali e guidassero l’isola verso il suo pieno inserimento nella nuova realtà nazionale. Tra i primi luogotenenti, Massimo Cordero di Montezemolo, che già nel dicembre 1860 aveva scritto: “Forse un tumulto che desse occasione di por la mano sopra i capi primari della fazione (democratico-repubblicana, n.d.r) avrebbe conseguenze più favorevoli che funeste”. Il che la dice lunga sull’atteggiamento della classe dirigente del nuovo regno nei confronti della realtà politica e della popolazione isolana. Gli interventi repressivi spesso spropositati verso disertori, renitenti alla leva, latitanti di ogni genere, l’interruzione di molti lavori pubblici, il peggioramento delle condizioni economiche dei ceti popolari e artigianali, le proposte di legge per la soppressione delle corporazioni religiose (che nella principale città della Sicilia davano da vivere direttamente o indirettamente a circa diecimila persone), avevano esasperato gli animi producendo una polveriera pronta ad esplodere. In questa polveriera c’era ovviamente chi era pronto ad accendere la miccia.

Nell’aprile dello stesso 1866 Celestino Bianchi, segretario generale del Ministero dell’interno comunicava con lettera riservata al prefetto di Palermo di aver avuto notizie secondo cui:


Una rivoluzione a danno della monarchia sia per iscoppiare in codesta provincia con proclamazione della repubblica e che una mano di popolo fazioso si varrebbe di essa per invadere e devastare le private proprietà. Vuolsi che in alcune case siano già pronte le bandiere rosse, le quali saranno, pare il segnale del tumulto. Aggiungesi ancora che molti malviventi commetterebbero inaudite barbarie nei dintorni di cotesta città, protetti e coadiuvati in ciò dai diversi conventi, e che alcuni giorni or sono parecchi agenti della forza pubblica sarebbero stati assassinati da quei malandrini.


Il messaggio sembra scritto dopo la “settimana di repubblica e di anarchia”, tanti sono i dettagli che profeticamente il funzionario, da Roma, invia al rappresentante del governo nel capoluogo: il che è di per sé paradossale, perché in genere avveniva (e credo avvenga tuttora) che dalla periferia si inviassero dettagliate informazioni al centro e non viceversa. Di intonazione assai simile quanto scrivono in Sicilia i giornali filogovernativi, come “Il Corriere siciliano” che nello stesso periodo, sotto il titolo “Politica malandrina”, aveva scritto: “In mezzo alla schiera infinita dei tormentatori e dei tormentati, la mala setta – borbonici e clericali – tiene il seggio della presidenza, cerca di organizzare le forze del disordine, ne protegge la strategia, dà la parola d’ordine e, occorrendo i danari, accenna le vittime, i luoghi e i momenti dell’azione” (Il Corriere siciliano, 6 maggio 1865).

In sostanza, dallo svolgimento dei fatti nei “sette giorni di guerra civile” sia l’alto funzionario ministeriale sia l’editorialista del giornale sopra citato traggono conferma di quanto già pensavano e avevano scritto in precedenza. A fine settembre, quindi a insurrezione repressa, sullo stesso periodico, sotto il titolo “Orde di cannibali. Esercito di selvaggi accampato in terra di civiltà”, si legge infatti:


Nell’ottobre 1862 si ebbe l’episodio dei pugnalatori che uccidevano a un franco al giorno. Al 1866 invece di tredici abbiamo avuto tredicimila pugnalatori, imperciocchè la mafia e la camorra era restata intera, temuta ed impune […]. Guerra adunque di camorristi e di ladri, guerra di frati fanatici più ladri e camorristi di quelli, guerra di un fecciume infernale contro quello che la società ha di più nobile e sacro…


Il direttore del “Corriere Siciliano” era Giuseppe Ciotti, amico e sodale del sindaco Di Rudinì e vicino alle sue posizioni conservatrici: a poche settimane dagli eventi pubblicherà un resoconto in cui, sulla scia delle relazioni del generale Raffaele Cadorna al primo ministro Bettino Ricasoli, si afferma – come nota Francesco Benigno – la natura “malandrinesca” del moto, cui poi avrebbero dato una direzione i reazionari, i clericali e gli anarchici. Indubbiamente per Ciotti, “il dir che la settimana repubblicana sia stato un effetto del mal governo, è un oltraggio”.

Altro intellettuale impegnato nella tempestiva ricostruzione di cause ed avvenimenti del settembre 1866 è il romano Vincenzo Maggiorani che, avendo dimorato per qualche tempo nel capoluogo dell’Isola, vuole illustrare i “fatti sanguinosi e vituperevoli” avvenuti nella “nefanda settimana di Palermo” ad opera della “numerosissima classe che pensa con la testa del prete e pende dai suoi labbri,” in una parola della “bordaglia del 16 settembre”, definita altrimenti “plebe selvaggia di Sicilia”, dove “I precetti del Vangelo […] si leggono e si recitano in latino e poi si prattica e brandisce la legge della mafia elevandola a religione”. Per lui, “l’unico principio che invase tutti quelli che presero parte attiva fu il rubare; l’unica passione, la vendetta; v’era poi chi ne godeva e ajutava nell’idea che potrebbe la ribellione esser uno scalino verso la sognata autonomia”. E giù con altre accuse ai preti e ai reazionari (ed ai preti reazionari) in combutta con mafiosi e sovversivi (e sovversivi mafiosi...), per arrivare a conclusioni assai draconiane: “ci vogliono leggi eccezionali per tagliare netto dove sta il fradicio”. A queste posizioni assai lontane dalla realtà dei fatti e piene di livore verso la popolazione di quella che era stata “l’isola rivoluzionaria” fino al 1860, seguì naturalmente un’ampia levata di scudi da parte degli intellettuali siciliani.

Sulla scia di questa indignazione, Giacomo Pagano, giovane avvocato palermitano, dà alle stampe, un anno dopo, il saggio che qui si ripubblica. Dopo essersi occupato della storia della Sicilia, considerata “la terra del fuoco e delle nobili iniziative“ da qualcuno (leggi: Giuseppe Mazzini) e “la terra dei barbari” da altri (leggi: il generale Giuseppe Govone in Parlamento), viene analizzato con acute notazioni e ampia documentazione l’atteggiamento tenuto in quelle circostanze da ogni partito, dalla società civile, dalle istituzioni statali, dalla stampa in Sicilia. Molto severo è il giudizio sul partito governativo, che


Mancante di quelle larghe vedute che sono proprie dei grandi ingegni, ideò per unità d’Italia un Piemonte ingrandito, stiracchiando di là le sue leggi sino alle provincie meridionali, che erano a buon dritto orgogliose delle proprie. E fu una furia inaudita. Era tanta la paura meschina, che questa unità nazionale, fatta per volere di popolo, si disfacesse al menomo urto, che il governo e il suo partito perderono la fede a quel gran principio unitario che raccogliea in un sol fascio le sparte membra dell’eredità latina; e si ebbe al tempo istesso timore infinito dell’autonomia amministrativa degli antichi Stati italiani distinti per dialetti e per istoriche tradizioni” (pag...).


A giudizio di Pagano, gli esponenti liberali moderati anziché rispettare tradizioni e desideri di autogoverno, finirono con il dar vita ad una unità nazionale fondata su “una perfetta uniformità di ordini e colla più completa fusione di ogni parte di essa”, con conseguenze gravissime nel rapporto tra i Siciliani e il governo. Nella costruzione dell’apparato statale si era poi preferita ”quella classe misera di uomini che, come i servi dopo la battaglia, vengono a profittare delle parentele, delle amicizie, delle relazioni sociali per ottenere senza fatiche e senza pericoli ciò che solo si dovea concedere al merito, ai sacrifici ed al valore”.

Grande risalto viene dato dall’autore di “Sette giorni d’insurrezione” al partito “regionista” (o autonomista), cioè a quegli uomini, in gran parte componenti della classe dirigente isolana (letterati, scienziati, uomini di legge…) sostenitori di un’unità nazionale che conservasse alcune delle istituzioni e autonomie peculiari della storia dell’Isola ed evitasse l’accentramento amministrativo alla francese scelto dalla Destra storica. Benché sostanzialmente emarginati ed equiparati ai reazionari dalle forze filogovernative, i “regionisti” riscuotevano regolarmente ampi consensi nelle elezioni amministrative, ma non ebbero alcun ruolo propulsivo nel moto settembrino e nella successiva repressione.

Attento esame è riservato alla condizione e al funzionamento delle istituzioni statali a Palermo, in particolare a quello della Questura retta in modo irresponsabile da Felice Pinna che, pur avendo confidenti all’interno dei movimenti di opposizione, aveva preferito ignorare ogni allarme proveniente dagli organi di stampa e dal partito d’azione moderato arrivando al punto di deridere chi chiedesse interventi atti alla prevenzione del moto popolare. L’accusa che con forza Pagano rivolge al questore – ha scritto Paolo Alatri – è quella di “negligenza volontaria”. Del resto, chi viveva nel capoluogo dell’Isola si rendeva conto di respirare “aria di rivoluzione”:


L’esca pronta del malcontento; i diversi partiti, che aveano i propri interessi nei moti vicini, potenti a cambiare l’aspetto delle cose; le ire della polizia perseguitante; una massa di renitenti, sebbene allora sottile per le operazioni militari anteriori, tutto ciò lasciava credere come ad ogni istante fosse per accadere un movimento insurrezionale nella provincia di Palermo, prima in essa forse che non nelle altre (pag...).


Il libro descrive lo svolgimento della ribellione popolare e ne ripercorre le tappe giorno per giorno, quasi ora per ora, segue il formarsi delle squadre e la costruzione delle barricate, gli spostamenti per le strade e le piazze della città, gli assalti alle carceri, i momenti più caldi. Sulla scia di questa narrazione, tra l’altro, il giornalista Mauro De Mauro pubblicherà nel 1966 sul quotidiano “L’Ora” il suo “diario” della rivolta, poi trasformato in libro nel 1970, anno del tragico rapimento dell’autore. Gli osservatori hanno fatto notare come il comportamento dei rivoltosi abbia preso di mira caserme, carceri e sedi pubbliche, ma non ci siano state vendette personali: le uniche abitazioni oggetto di violenze furono quelle di Francesco Perroni Paladini e del sindaco di Palermo, Antonio Di Rudinì. Quest’ultimo, quasi coetaneo del nostro autore, in prima fila ed armi alla mano reagisce alla sommossa e guida il drappello dei filogovernativi, con un comportamento diverso da quello assunto dai sindaci nelle passate rivolte. Al primo cittadino si affiancano i suoi assessori, tra cui Emanuele Notarbartolo, futuro sindaco del capoluogo, ucciso dalla mafia nel 1893, il cui impegno durante (e contro) l’insurrezione verrà ricordato dal figlio nella biografia del genitore. Leopoldo Notarbartolo sostiene che tra gli insorti “non vi era un uomo qualunque con un nome abbastanza pulito da essere apertamente riconosciuto come capo. Perciò il moto non ebbe capo, non poté quindi essere guidato a nulla; fu fine a se stesso. Un semplice atto di mafia, una coltellata alla schiena alla patria ferita”. Posizione che fa il paio con quella espressa dallo storico inglese John J. Norwich secondo cui


La rivolta era stata chiaramente organizzata dalla mafia, il che significava che non c’erano capi dichiarati e che non era stato messo per iscritto (d’altro canto molti membri della mafia erano analfabeti). La voce si sparse in anticipo e alla popolazione fu ordinato di uscire in forze quando avesse sentito gli spari. L’intento della rivolta non era rovesciare il governo, non c’erano bandiere né motti.

Posizioni, queste, smentite dalle testimonianze di numerosi osservatori, dalla documentata ricostruzione di questo volume come da quelle di Paolo Alatri, Francesco Benigno, Francesco Brancato, Giuseppe Oddo e altri, che hanno mostrato la presenza attiva e continuata dei seguaci di Giovanni Corrao nella preparazione del tentativo rivoluzionario, la diffusione di opuscoli come l’appello Al popolo siciliano di Giuseppe Badia e la Dichiarazione dei diritti del popolo in materia di manomorta di Filippo Lo Presti. Altro che mafiosi analfabeti al comando! Il primo comitato rivoluzionario provvisorio fu formato da Lorenzo Minneci, Francesco Bonafede, Vincenzo Trapani Porpora, Filippo Lo Presti, Domenico Corteggiani, gran parte dei quali, negli anni successivi aderiranno all’Internazionale socialista. Durante il “Sette e mezzo” fu costituito un secondo comitato presieduto dal principe di Linguaglossa, di cui Bonafede fu segretario. Ha scritto Leonardo Sciascia nella Prefazione al libro di De Mauro:


In effetti mancò il capo, la figura che si imponesse alla fantasia popolare e all’attenzione dei cronisti; ma ci furono dei capi che mantennero coesione tra le squadre, che non discordarono nelle azioni, impedirono i disordinati furori della plebe (la cui miseria era più grave che nel passato e avrebbe giustificato l’esplosione della collera più sanguinosa).


Il nostro autore non nasconde i suoi giudizi negativi sul comportamento degli insorti, non sempre improntato al rispetto per gli altri, ma recisamente smentisce, come hanno fatto molti osservatori tra cui gli amici palermitani del deputato Francesco Crispi, quegli episodi di orripilante inciviltà su cui batté il tamburo della propaganda filogovernativa. Allo stesso modo segnala con fermezza la condotta immotivata e spropositata delle truppe della repressione, abituate a trattare i cittadini in rivolta con gli stessi metodi adottati nella guerra al brigantaggio nel Mezzogiorno continentale. I comandi militari hanno radicato nel sottoposto “la convinzione che l’avversario che combatte sia sempre un brigante – un uomo ex lege – cui la proprietà sia provento di furti e di grassazioni”. Se il generale Angioletti nell’inviare le sue compagnie contro le bande armate palermitane le avesse avvisate che non si trattava di briganti, si sarebbero evitate le devastazioni di case di privati cittadini, le minacce di morte verso familiari di rivoltosi, le fucilazioni illegittime. Forse il generale avrebbe desiderato che tali episodi fossero taciuti per carità di patria, “Ma io – sottolinea con solennità Pagano – scrivo per la storia, e non pei ministri di un regno costituzionale”.

La rivolta cessò quando nel porto della città ribelle arrivarono navi militari a bombardare le strade e gli slarghi vicini, fornendo potenti rinforzi alle truppe che avevano resistito in città, a Palazzo Reale. Le “squadre” si resero conto che non potevano affrontare decine di migliaia di militari muniti di cannoni e preferirono ritirarsi, evitando lo spargimento di altro sangue. Il governo Ricasoli incaricò il generale Raffaele Cadorna della repressione, che avvenne con stato di assedio proclamato il 23 settembre e con l’istituzione di tribunali militari che, come ha dimostrato nel suo accurato studio Rino Messina, non riuscirono a individuare e processare chi aveva effettivamente guidato gli scontri e gli assalti.

La proclamazione da parte di Cadorna delle leggi marziali, che avveniva a freddo, quando ormai il moto popolare era cessato, viene giudicata molto severamente dal nostro autore, per il quale tale scelta “tornava lo stesso che dare importanza politica a’ fatti avvenuti e smentire sé medesimo, assoggettando la città di Palermo, sgombra intieramente da insorti, alla noia e agli impacci di uno stato eccezionale”, il terzo in quattro anni. “Un po’ troppo invero” – conclude Pagano.

Il libro volge al termine con il puntuale esame dei rimedi per cambiare rotta ed avere una situazione che, senza eliminare il conflitto sociale, porti ad una pacificazione degli animi sia a livello generale sia per quanto concerne la realtà dell’Isola. “Le rivoluzioni – sostiene il nostro – si disperdono con la libertà o col socialismo, poiché esse non sono che crisi prodotte dal dispotismo o dal malessere sociale. In Sicilia il malumore non è scemato; la società è inferma, riesce quindi indispensabile por mano a’ rimedi, e senza indugio”.

Le soluzioni proposte dai giornali “ultra governativi” per i quali, essendo la Sicilia un paese ingovernabile, si debba applicarle il principio: “Taccia la stampa, e gli oppositori si deportino in Australia”, sono peggiori del male che vorrebbero curare, anzi lo alimentano come hanno fatto finora. Davanti al “trilemma” dispotismo, socialismo, libertà e giustizia occorre si imbocchi decisamente quest’ultima strada. Per cominciare, il governo


in un decennio le regali [alla Sicilia] tutte le strade ferrate e rotabili, tutti i ponti ed i porti dei quali abbisogna; faccia che vapori postali mettano ogni giorno le più importanti città dell’isola in comunicazione coi più importanti porti del continente; paghi scuole in ogni comune, largheggi cogl’impiegati siciliani in posti nell’isola e nel continente; apra opifici modello, che dian pane e lavoro al proletariato dell’isola; regali macchine d’agricoltura; imponga leggi doganali protezioniste a favore esclusivo dei produttori siciliani, ché in tal modo l’Italia non avrà più bisogno di farsi serva delle contrade dell’equatore pei prodotti coloniali (pag….).


E sembra di leggere uno di quegli elenchi di provvedimenti che nel corso dei decenni, dal 1860 in poi, sono stati suggeriti e proposti per risolvere la “questione siciliana” all’interno della “questione meridionale”.

Per fondarsi poi su un regime che coniughi libertà e giustizia, la realtà nazionale richiede anzitutto che si avvii il decentramento, in modo tale che le province storiche, quelle cioè che “hanno per confine il dialetto, le tradizioni e la storia” possano avere un “vita propria amministrativa”, una propria indipendenza, che sgravi il governo nazionale “da tutta la farragine degli affari, e della numerosa corte d’impiegati, che l’accentramento alla francese gli addossa”.

Occorre quindi percorrere le strade per fare effettivamente giustizia: questo significa in primo luogo affermare la separazione netta tra magistratura ed esecutivo, che usa quella come arma di potere. Così facendo i giudici non dovranno rispondere della loro condotta a governi, questure e prefetture e potranno considerare gli impiegati dello stato non come cittadini privilegiati, ma sottoposti alla legge come tutti gli altri regnicoli.

Infine, e qui si torna ad una delle principali cause dei “sette giorni di guerra civile a Palermo”, si ritiene indispensabile “la riforma economica della legge sulla soppressione delle corporazioni religiose”. Questo perché, secondo il nostro autore:


l’Italia ha il dovere di lasciare all’isola i propri mezzi ch’essa possiede per soccorrere da sé, e nel miglior modo possibile allo sviluppo della propria ricchezza, alla cultura della propria intelligenza della quale è tanto bisognosa.[…] Invece di lasciare che una voragine senza fondo inghiotta tre quarti delle rendite dei beni di manomorta, sarebbe atto di giustizia e di grande sapienza governativa, darli alle provincie storiche come fondo di dotazione per ispingere la pubblica attività e la privata ricchezza.


Naturalmente le modeste proposte di Pagano, come tante altre avanzate da similari punti di partenza e per finalità convergenti, rimasero lettera morta per tanto tempo e forse lo sono tutt’oggi. Ma non c’è dubbio che, se seguite, sarebbero state utili per realizzare, allora come nei decenni futuri, un rapporto diverso e migliore tra cittadini ed autorità, tra ceti popolari e classe dirigente, tra popolazione, forze politiche e governo nazionale.

SANTO LOMBINO

1 in realtà, settembre.


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