30 agosto 2024

FINZIONE E VERITA'

 



Finzione e verità: “Incorreggibili” di Paola Moretti

Susan Sontag sostiene che ricordare non significhi richiamare alla mente una storia ma essere in grado di evocare un’immagine, secondo Annie Ernaux equivale a perlustrare il baratro tra la sconvolgente realtà di ciò che avviene e l’anomala irrealtà che a distanza di tempo riveste ciò che è accaduto. In una continua sequenza di immagini, ingrandimenti, divagazioni apparenti, con un incedere a tratti incerto tra ricordi e visioni sul presente, Paola Moretti si interroga sul proprio smarrimento, rintraccia nella scrittura un atto che sancisce la perdita, definita nell’istante in cui ci si confronta con l’impossibilità di una reale rappresentazione.

Con Incorreggibili (66thand2nd) si cala nelle storie di scrittrici che ne hanno influenzato il cammino personale e letterario. Cerca paradigmi ricorrenti, elementi biografici rivelatori, aspetti espressivi, linguistici e formali che possano aiutarla a definirsi e confrontarsi col dubbio, condizione legata all’immaginazione e all’assenza: “Che cos’è finzione, cos’è verità?”.

Dopo il romanzo d’esordio Bravissima (66thand2nd) e l’antologia Donne d’America curata con Giulia Caminito per Bompiani, Moretti arriva a interrogare Elfriede Jelinek, Fleur Jaeggy, Clarice Lispector, Jane Bowles, per affrontare lo smarrimento di sé, esplorare una cocente solitudine in relazione alla perdita e provare a maneggiare il lutto la cui elaborazione è intesa come un apprendistato per imparare a reggere il distanziamento.

Come insegna Jelinek, chi scrive necessita di distaccarsi dal centro dell’azione. Centrale in tale intento per Moretti collocarsi nell’intersezione tra generi diversi, dal memoir alla critica letteraria, riconoscendo nella scrittura di sé il “coltello per vivisezionare il mondo”, come la definisce Neige Sinno in Triste tigre (Neri Pozza), con un’impronta estetica e politica. Farlo a partire dal viaggio da cui tutto ha avuto inizio, un furgone Volkswagen stipato di “suppellettili di una vita che doveva iniziare”, traccia il tentativo di districare un groviglio interiore tra fugaci euforie e perdite che contribuiscono a sondare l’indicibile, da maneggiare attingendo ad altre storie, con esempi di scrittura e di vita che illuminano il percorso.

Sfilano sulla pagina le immagini di Jelinek dall’infanzia alla vita adulta, che a causa delle forti pressioni in ambito artistico sviluppò disturbi d’ansia generalizzata che le impedirono di presenziare alla premiazione per il Nobel e che la condussero a isolarsi in una dimora al limitare del bosco. Quel che l’autrice austriaca visse nell’infanzia determinò i grandi temi d’indagine delle sue opere, come rivela La pianista nel rappresentare un rapporto morboso materno che traccia una feroce critica sociale. Per Moretti il suo esempio risiede nel riconoscere nella scrittura un mezzo per uscire dalla sfera psicologica e personale e “rappresentare paradigmi dell’attualità politica in un’audace simmetria di forma e contenuto”.

Secondo Susan Sontag ci sono epoche in cui, più che la verità, c’è bisogno di approfondire il senso della realtà e di espandere l’immaginazione. Si chiede se sia sempre la verità ciò che si desidera: se la verità è equilibrio, il suo opposto, lo squilibrio, può non essere una falsità (Contro l’interpretazione, trad. Paolo Dilonardo, nottetempo).

La verità ricercata da Moretti risiede nel riconoscere un nuovo senso nel vivere attraverso voci immerse in un dolore radicato. Chi vive, come lei e la maggior parte degli expat, un rapporto disfunzionale con la città, riconosce una profonda solitudine e un senso di libertà estrema in un luogo d’elezione lontano da quello d’origine. Il concetto di appartenenza sfuma nel divenire apolide, nella sensazione di essere “una specie di essere liminale che osserva la vita scorrere senza mai prendervi completamente parte”.
Riconosce nelle pagine di Jane Bowles una profonda affinità nelle ricorrenze sulla casa come simbolo astratto e necessità reale, nella rivendicazione di non appartenere ad alcun luogo e nella scelta di popolare le sue storie di figure eccentriche e dolenti nelle quali lasciare frammenti di sé.

Il senso di tali ritratti letterari rivela sottotraccia una comunanza utile a un graduale svelamento di sé nel racconto della storia personale e artistica di Paola Moretti. È una vicinanza attestata non solo nelle ossessioni condivise – gli sconfinamenti linguistici e culturali di Jaeggy, l’alienazione di Bowles, l’impossibilità di Jelinek di definirsi nel concetto di identità, la concezione del linguaggio di Lispector – ma anche nella scissione, in quella “frattura primigenia tra il proprio essere e il luogo in cui si trova” condivisa con le scrittrici che studia.

La dimensione linguistica in tale prospettiva garantisce un’alienazione salvifica, traccia un solco nell’evoluzione creativa, scompagina certezze stilistiche e formali nel favorire l’individuazione di una voce letteraria diversa, ma al contempo profondamente riconoscibile come propria.

Con Incorreggibili Paola Moretti consegna un’esplorazione sensibile calata in altre visioni che identifica nuove consapevolezze letterarie e personali. In un’indistinguibilità di arte e vita, afferma una spazio privato nelle intercapedini capaci di garantire una distanza necessaria a scrutare i propri vuoti, in una zona franca generata dall’impossibilità di una reale coincidenza, come accade tra idiomi.

Ho capito che la mia dimora è nello spazio di intersezione.

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