31 agosto 2024

GEORGES DIDI-HUBERMAN VEDE LA STORIA CON I SUOI OCCHI

 


Georges Didi-Huberman

Liberi occhi della storia - 1

Tratto da AA. VV. (a cura di Giuseppe Zuccarino),
Un seminario su Georges Didi-Huberman,
in “La Biblioteca di RebStein”, vol. XC, 2024.

 

Come vedere il tempo? In che modo il tempo si rende percepibile? Sono domande che non si potrebbe mai finire di porre, a tal punto qualsiasi risposta si trova ad essere, ogni volta, rimessa in discussione nella durata specifica e nella condizione di visibilità di ogni nuova esperienza. Sarebbe troppo facile spostare la questione a un livello metafisico in cui il tempo verrebbe elevato a un’ideale «condizione trascendentale», e in cui il vedere sarebbe, invece, abbassato a un’esperienza troppo concreta, troppo terra terra, quella di una semplice condizione immanente, anzi illusoria, di sensibilità. Non creiamo troppo in fretta artificiose gerarchie ontologiche: è una trappola in cui cadono spesso i filosofi generalisti o i teorici frettolosi. Noi percepiremo il tempo solo attraverso la nostra esperienza della psiche, del corpo e dello spazio che ci circonda; possiamo orientarci nel visibile solo attraverso una certa percezione della durata, della memoria, del desiderio, del prima e del dopo: un certo «tremore del tempo». Separare il visibile dal tempo equivarrebbe forse a rendere più chiari, più univoci, certi vocaboli; ma condurrebbe, in realtà, a rendere le cose – e soprattutto le relazioni – incomprensibili e disincarnate. Sarebbe dunque necessario capire come vedere e essere nel tempo non si separino, e anzi si comprendano reciprocamente.

Vedere il tempo – esperienza che richiede, in particolare, tutto il necessario contributo delle immagini alla conoscenza della storia, inclusa quella politica –, significa in realtà sdoppiare la propria esperienza del tempo, se è vero che già il fatto di vedere «richiede tempo». Poiché vedere, è tempo, qualunque cosa si faccia: tempo disposto in ritmi dai movimenti stessi, reciproci, del visibile e di chi vede. Tali movimenti sono complessi e incessanti. La separazione accademica tra «arti del tempo» e «arti dello spazio» (da queste ultime procederebbero le immagini pittoriche, scultorie o fotografiche) dipende da una semplificazione molto ingenua, se non pericolosa. Vedere, è innanzitutto vedere questo, e poi, subito dopo, quello. Vedere cambia perpetuamente la natura di ciò che viene visto, così come il modo d’essere di colui che vede. Significa aprire gli occhi, ma anche chiuderli (in caso contrario, l’occhio diverrà secco e morirà), dunque produrre il ritmo «a scatti» di un’apertura e di una chiusura delle palpebre. Significa avvicinarsi (perché da troppo lontano non si vede nulla), ma anche prendere le distanze (perché di quel che è troppo vicino non si vede nulla). Significa porsi di fronte, ma anche di sbieco e in tutte le direzioni. Non è forse vero che i nostri occhi non smettono mai di volgersi a destra e a sinistra, in alto e in basso, e tutto questo viene guidato da un corpo che non cessa mai di muoversi nello spazio? Vedere non è forse anche, talvolta, vedere attraverso le lacrime, attraverso le emozioni in generale? Non è forse, ad esempio quando ci si trova al buio, non saper più distinguere ciò che ci appare, sia esso fenomeno (esterno, oggettivo) o fosfene (interno, soggettivo)?

Tutta la difficoltà, in quest’esperienza sempre in movimento del visibile, e in ciò che essa può insegnarci, consiste nel non ridurne la complessità, nel non richiudere ciò che sperimentiamo nell’ordine del sensibile, sia di fronte a un fatto di cui eventualmente ci troviamo ad essere testimoni, sia davanti a un documento visuale che, esso stesso, offra testimonianza di tale fatto. Occorrerebbe, sul piano teorico come su quello pratico, essere capaci di non immobilizzare le immagini, ossia di non isolarle dalla loro capacità di rendere percepibile un certo istante, o durata, o memoria, o desiderio, ecc., in breve un certo tempo umano in cui le dimensioni oggettive e soggettive del tempo si congiungono in quella che noi chiamiamo storia. Ma un tale compito – quello di lasciare al sensibile e al tempo le loro labilità, i loro movimenti e perfino le loro turbolenze – non ha nulla di facile. Gli ostacoli sono legione.

Dal lato degli esperti di storia, la tentazione di immobilizzare le immagini – che è un modo per semplificarle, e semplificare, così, la vita dello storico stesso – si è manifestato tramite la riduzione di esse a un semplice statuto funzionale, quello dei «documenti visuali». L’immagine, allora, serve da pura e semplice «appendice iconografica» nei libri di storia, come si può constatare in quello che resta nondimeno uno dei capolavori della scuola delle «Annales», mi riferisco a Les rois thaumaturges di Marc Bloch2. Si tratta di un modo per ridurre le immagini a una funzione, riducendo quest’ultima a un’imitazione della realtà fattuale, una rappresentazione – altrettanti approcci all’immagine che la storia e la teoria dell’arte, a partire da Wölfflin, Warburg o Riegl, senza contare Walter Benjamin o Carl Einstein – hanno risolutamente decostruito3. Certo, gli eredi della scuola delle «Annales» hanno prestato un’attenzione sempre crescente alle immagini considerate in quanto «monumenti», e non solo in quanto documenti, della storia. Ma perlopiù l’hanno fatto continuando a ricorrere a una nozione di rappresentazione che partiva dal presupposto di poter ridurre le immagini allo statuto di un comodo «specchio delle mentalità»4, senza considerare il fatto che lo specchio, nelle immagini – e dalle immagini – viene assai spesso infranto.

Dal lato degli esperti di arti visuali, la tentazione epistemologica di immobilizzare il vedere e l’oggetto del vedere – come l’entomologo che fa morire la sua farfalla preferita per spillarla su una tavola di sughero e, ormai, può osservarla tranquillamente, fissamente, con uno sguardo morto al pari dell’animale stesso – sovente non è minore. Si immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si considera innanzitutto come un testo da decifrare, un enigma da risolvere. Erwin Panofsky non considerava forse l’iconologia come la disciplina votata, di fronte alle immagini, a «risolvere l’enigma della sfinge» (solving the riddle of the sphinx)5? Ma non è semplificare l’immagine il voler presupporre in essa una «chiave» d’interpretazione che consenta di aprire tutte le sue porte? D’altronde, si immobilizza l’oggetto del vedere quando lo si riduce a un «posto dello spettatore» prestabilito, inamovibile, o per confermare la regola del «punto di vista» prospettivistico6, oppure per stabilire un regime di visione modernista secondo cui l’oggetto visibile dovrebbe essere assolutamente «specifico» affinché l’atto di vedere si estirpi da ogni durata e da ogni «psicologia»7 (cosa che, in rapporto alla nostra esperienza concreta delle immagini, apparirà presto come una pura e semplice visione mentale, anzi un imperativo categorico privo di senso). (…)

Traduzione di Giuseppe Zuccarino.


Note

1 G. Didi-Huberman, Libres yeux de l’histoire, testo datato 2017 e pubblicato in «Europe», 1069, 2018, pp. 18-30. [N. d. T.]

2 M. Bloch, Les rois thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royale, particulièrement en France et en Angleterre (1924), Paris, Gallimard, 1983, pp. 449-459 (Appendice II. Le dossier iconographique) [tr. it. I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino, Einaudi, 1973].

3 G. Didi-Huberman, Imitation, représentation, fonction. Remarques sur un mythe épistémologique (1992), in AA. VV., L’image. Fonctions et usages des images dans l’Occident médiéval, a cura di J. Baschet e J.-C. Schmitt, Paris, Le Léopard d’Or, 1996, pp. 59-86.

4 Roger Chartier, Le monde comme représentation, in «Annales E.S.C.», 6, 1989, pp. 1505-1520. Carlo Ginzburg, À distance. Neuf essais sur le point de vue en histoire, tr. fr. Paris, Gallimard, 2001, pp. 73-88 [Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano, Feltrinelli, 1998]. François Hartog, Évidence de l’histoire. Ce que voient les historiens, Paris, Éditions de l’École des hautes études en sciences sociales, 2005; ried. Paris, Gallimard, 2007.

5 E. Panofsky, Meaning in the Visual Arts (1939-1955), Oxford-New York, Oxford University Press (ried. Chicago-London, The University of Chicago Press, 1982), p. 57 (tr. fr. Essais d’iconologie. Les thèmes humanistes dans l’art de la Renaissance, Paris, Gallimard, 1967, p. 22) [tr. it. Il significato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1962; 2010, p. 37].

6 E. Panofsky, La perspective comme forme symbolique (1927), in La perspective comme forme symbolique et autres essais, tr. fr. Paris, Éditions de Minuit, 1975, pp. 37-182 [tr. it. La prospettiva come «forma simbolica» e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1961]. Hubert Damisch, L’origine de la perspective, Paris, Flammarion, 1987; ed. riveduta, 1993, pp. 21-36 [tr. it. L’origine della prospettiva, Napoli, Guida, 1992].

7 Michael Fried, La place du spectateur. Esthétique et origines de la peinture moderne (1980), tr. fr. Paris, Gallimard, 1990.

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