01 febbraio 2025

PAVESE INCOMPRESO DA A. MORAVIA

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere 5 marzo 1948 La scuola romana — quell’incontro di giornalisti, avventurieri, scrittori, pittori ecc. ha inventato un’arte riflessa, di tipo alessandrino, il gusto di rifare uno stile, una tecnica, un mondo, che «fanno data» e risaltano l’intelligenza e il non impegno. Longanesi e «Omnibus», Cecchi e Praz, Cardarelli e Bacchelli, Moravia e Morante. Esterni, Landolfi e Piovene. Fu in sostanza l’arte fascista; ciò che nacque di vivo e vero — di cinico — nel periodo fascista. Sfuggono gli estremi, Sicilia e Piemonte, che fascisti non furono e s’imbarbarirono e scoprirono oltremare — Vittorini e Pavese. Per questi, ci vuole altra formula. Saverio Ieva, Moravia contro Pavese. Un esempio di "critica parodica", Italies, 2000, n.4 Il testo moraviano denuncia una vera e propria avversione nei confronti di Pavese, che vuole stroncare a partire dalla lettura del diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo31, e ampiamente recensito, anche da critici di parte opposta o estranea al marxismo, che ne tentano addirittura una lettura spiritualista o almeno di testimonianza di crisi esistenziale in prospettiva religiosa : si tratta di interventi come quelli di Carlo Bo, Nazareno Fabbretti, Luciano Sommariva, Enzo Noè Girardi e altri. Interventi che sono per lo più brevi recensioni, anche su quotidiani, ma che fanno circolare il nome di Pavese, facendone un esponente, in senso lato, della letteratura esistenzialista, più che un testimone della sinistra, impegnato nella letteratura politico-sociale. Si può comprendere che questa vulgata pavesiana in chiave spiritualista vada contro la sensibilità di Moravia. Di qui la rabies, e la totale negazione di qualsivoglia valore al libro pavesiano, definito con assai poca generosità « libro penoso », in un paragone risibile con lo Zibaldone leopardiano, paragone che, nella sua incongruenza, evidenzia una dimensione che potremmo definire parodica del discorso critico :  32 Alberto Moravia, Pavese decadente, cit., pp. 89-90. Questi caratteri di Pavese si mettono nella loro giusta luce soprattutto se paragoniamo, fuori di ogni questione di qualità, Il mestiere di vivere con lo Zibaldone leopardiano. Anche Leopardi era letterato, oltre che poeta. Ma poesia e vita in Leopardi comunicavano e si equilibravano e purificavano a vicenda. In Pavese c’è invece il letterato, prima di tutto e soltanto, così nella vita come nell’opera. E quel dolore che si è detto non sembra trovare espressione nella vita né nell’opera, rimane senza purificazione poetica, lo porta finalmente al suicidio. (Alberto Moravia, Pavese decadente, in L'uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1963) 16Ma soprattutto questa dimensione critica, che qui diciamo parodica, si accompagna, nel gusto per il pamphlet cui non si può negare verve rappresentativa, ad un attacco personale che non si vieta l’insulto impietoso :  33 Ibidem, p. 89. È un libro penoso ; e questa pena a ben guardare, viene soprattutto dalla combinazione di un dolore costante, profondo e acerbo con i caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere. Da un lato questo dolore che in Pavese aveva motivi concreti e purtroppo irrimediabili, dall’altro una vanità infantile, smisurata, megalomane (« Anno serissimo, di definitivo sicuro lavoro, di acquisita posizione tecnica e materiale. Due romanzi. Anni di gestazione. Dittatore editoriale. Riconosciuto da tutti come grand’uomo e uomo buono... Recensione di Cecchi, recensione di De Robertis, recensione di Cajumi. Sei consacrato dai grandi cerimonieri. Ti dicono : hai quarant’anni e ce l’hai fatta, sei il migliore della tua generazione, passerai alla storia... ») ; una invidia anch’essa infantile (« La fama americana di Vittorini ti ha fatto invidioso ? No. Io non ho fretta. Lo batterò sulla durata ») ; una mancanza stizzosa di generosità e di carità verso amici e sodali (« Molti, forse tutti, mostrano la corda, scoprono la loro crepa... anche i nuovi ») ; una credenza ingenua, inspiegabile nella letteratura come società, come fatto sociale, pur con l’aria di disprezzarla (« Questo viaggio ha l’aria di essere il mio massimo trionfo. Premio mondano... A Roma : apoteosi. E con questo ? ») ; un estetismo inguaribile, fino in punto di morte (« Non parole. Un gesto. Non scriverò più »). 17« Vanità infantile » e « mancanza stizzosa di generosità » : sono le accuse di carattere personale con cui Moravia attacca il collega scomparso, dimostrando per certo un’ altrettanto grande mancanza di « carità » e, soprattutto, collocandosi sul piano di una diatriba che ha ben poco a che vedere con la critica letteraria. Al punto che forse si potrebbe ribaltare su Moravia stesso anche il rimprovero di « vanità », su Moravia che in quegli anni dispiegava un presenzialismo sfrenato (fenomeno peraltro comune agli hommes de lettres dell’epoca) in manifestazioni e partecipazioni di carattere pubblico, letterario e non. È vero che, come è stato giustamente indicato,  34 Cf. Alberto Asor Rosa, op. cit., pp. 595-596. frutto diretto del rapporto stretto fra letteratura e potere fu negli anni di cui è qui questione una critica letteraria impegnata e progressista, il cui carattere principale potrebbe dirsi un singolare atteggiamento etico-politico-pedagogico, in conseguenza del quale il critico si costituisce nei confronti dello scrittore come un guardiano della verità e un identificatore degli errori commessi : come uno, insomma, che ha il compito di dire allo scrittore quello che avrebbe dovuto fare e non ha fatto. 18Ma qui ci troviamo in presenza, ripetiamo, dell’attacco personale – caratteriale, diremmo – che non può non suscitare il sospetto di un’animosità estranea alle problematiche politico-culturali. Semmai si potrebbe ipotizzare che il narratore Moravia ami ricavare effetti, eminentemente evocativi di un medaglione a tutto tondo, dal riferimento a un’opera (Il mestiere di vivere) che, nella sua essenza diaristica, si pone appunto come autoritratto : quasi il pamphlet del « Corriere » intendesse contrapporre ritratto (o caricatura) ad autoritratto, sulle pagine di un quotidiano di grossa tiratura e pertanto coll’intento di épater un vastissimo pubblico di lettori. 19Altre accuse (« credenza ingenua nella letteratura come fatto sociale », « estetismo inguaribile ») riportano a un discorso concernente la nozione stessa di creazione artistica. Ma anche in questo caso, oltre al fatto forse che la credenza nel rapporto letteratura / società è condivisa (forse Moravia ritiene non « ingenuamente ») dal neorealismo e dal realismo socialista nel suo insieme, viene applicata a Pavese un’etichetta che è condanna definitiva, là dove gli vengono imputati i « caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere ». Del letterato nel suo insieme e della sua opera Moravia cerca di formulare una valutazione globale, passando dal diario alle altre opere :  35 Alberto Moravia, Pavese decadente, cit., p. 90. Dalla lettura del diario e poi dei libri, si ricava l’impressione che le idee di Pavese, tutto sommato, siano più importanti della sua opera. La quale risente di una certa letterarietà non felice né veramente risolta in poesia, simile ad un umanismo alla rovescia. 20Operazione condotta – data la natura stessa dell’intervento sul « Corriere » – con ovvia sommarietà, e quindi superficialità ; operazione che, proponendo quella definizione di « letterarietà » che riporta alla nozione di « letterato di mestiere », svuota di contenuto poetico la produzione pavesiana, confinata nel « letterario » appunto. 21Le considerazioni più interessanti, che possono peraltro essere discusse o controbattute, ma che certamente pongono l’accento su uno dei problemi centrali della produzione di Pavese (ma anche della letteratura italiana del Novecento), sono quelle concernenti la lingua e il linguaggio :  36 Ibidem, pp. 90-91. Lo sforzo di Pavese che puntò soprattutto sulla creazione di un linguaggio parlato, diretto, immediato, tutto in azione, sembra essere fallito soprattutto per il suo fraintendimento dei limiti e della natura di un simile linguaggio. Uno scrittore può infatti calare la propria cultura e la propria ispirazione nel linguaggio letterario, colto del suo tempo (come fecero in genere tutti i grandi narratori del passato), oppure può trasferirsi in un personaggio-schermo, in una voce, in un « io » tutto popolare, come fecero, tanto per non indicare che qualche nome, Verga (terza persona) e Belli e Porta (prima persona). Ma quello che non può assolutamente fare è colare la propria esperienza e la propria psicologia di uomo colto (nel caso di Pavese, una cultura di origine decadentistica e irrazionalistica) nel linguaggio popolare. E questo perché il linguaggio popolare è tale non tanto perché esso adoperi modi di dire colloquiali e dialettali, quanto perché con questi modi esso esprime una concezione della vita e dei valori tradizionale, ancorata al senso comune, strettamente limitata e determinata dalle necessità naturali e pratiche, quanto dire per niente decadente e irrazionale. Il linguaggio popolare, in altri termini, esprime non tanto un mondo fuori della storia, come Pavese supponeva, quanto un mondo nel quale la storia ormai morta e allontanata dai suoi motivi etici ha fatto tempo a diventare abitudine, costume, proverbio, saggezza e anche, perché no ? cinismo e scetticismo.  37 Cf. Gian Luigi Beccaria, Il lessico, ovvero la « questione della lingua » in Cesare Pavese, « Sigm (...)  38 Cf. Dominique Fernandez, L’échec de Pavese, Paris, Grasset, 1967, p. 247.  39 Cf. almeno, oltre a testi di Pavese come Dialoghi con Leucò (Torino, Einaudi, 1947) o La letteratu (...) 22Le conclusioni sono sempre, come si vede, negative, e l’impresa linguistica di Pavese viene da Moravia considerata fallimentare, da un’angolatura che riporta forse al dibattito tradizionale sulla lingua in Italia, e trascura un aspetto sperimentale interessante, segnalato dallo stesso Pavese, e su cui si è soffermata la critica più avvertita37. Si tratta del rapporto con modelli di narrativa straniera – nel nostro caso Stendhal-Hemingway –, scelti per l’energia, la chiarezza, la non-letteratura, nell’intento di « promuovere una letteratura magra, lo stile della litote, dell’understatement, contro la tradizione italiana del verbalismo e della ridondanza »38. Così pure negative sono le considerazioni sul mito, che per certo è elemento portante della Weltanschauung pavesiana:  40 Alberto Moravia, Poeta decadente, cit., p. 91. Pavese rincorrendo l’idea niciana e decadente del mito, tentò l’operazione impossibile di far dire a personaggi popolari, con il linguaggio popolare, le cose che premevano a lui, uomo colto, di psicologia e di esperienza decadente. È curioso osservare come, su questa strada, Pavese dovesse per forza imbattersi nell’esperienza dannunziana (« la tua classicità : le Georgiche, D’Annunzio, la collina del Pino »). Soltanto che D’Annunzio, decadente consapevole, non tentò mai di trasferirsi in un personaggio popolaresco parlante un linguaggio dialettale : scrisse aulico, con la lingua della cultura, com’era giusto. Verga, che non era decadente, e che non inseguiva il mito ma le ragioni reali della vita e della poesia, scrisse invece in lingua popolaresca e quasi dialettale.  41 Franco Mollia,Cesare Pavese, Padova, Rebellato, 1960 (ristampa aumentata, Firenze, La Nuova Italia, (...)  42 Johannes Hösle, Cesare Pavese, Berlin, De Gruyter, 1961.  43 Michele Tondo, Itinerario di Cesare Pavese, Padova, Liviana, 1965. 23I pareri degli studiosi sull’uso pavesiano del mito sono del tutto discordanti : alcuni lo considerano profondamente innovatore, altri lo vedono come un elemento di decadentismo. Fra i primi possiamo vedere Italo Calvino, Giuseppe Cocchiara, e, nelle loro monografie, Franco Mollia, Johannes Hösle e Michele Tondo. Eugenio Corsini e Furio Jesi, nei loro articoli pubblicati nel numero speciale di « Sigma » consacrato a Pavese (n° 3/4, 1964), pur inclini a vedere un’eredità del Decadentismo storico nel riferimento pavesiano al mito – Corsini denuncia accanto a una componente classica, che si manifesta nell’esigenza di ordine ed equilibrio, una tendenza agli aspetti morbosi della realtà ; Jesi collega, sotto l’etichetta di « esoterismo », l’uso del mito in Pavese a quello dei decadenti tedeschi fin-de-siècle –, ne percepiscono l’interesse culturale. Moravia invece usa ancora una volta la categoria « decadente » non solo in accezione negativa, ma quasi come una condanna sprezzante, che per di più sembra tacciare di confusionarietà e ignoranza l’« operazione impossibile di far dire a personaggi popolari, con il linguaggio popolare » cose attinenti una classicità permeata di mito. Come farà in modo ben più documentato Jesi nel suo articolo del 1964, Moravia collega le idee di Pavese, proprio per quanto riguarda l’uso del mito, ai grandi decadenti europei, ma il suo discorso sommario e generico tende soltanto ad accusare Pavese di cattiva lettura e cattiva interpretazione, e, come si è appena detto, di confusionarietà :  44 Alberto Moravia, Pavese decadente, cit., pp. 91-92. Le idee di Pavese [...] sono, in sostanza, le idee del decadentismo europeo, da Nietzsche in su, per cui, erroneamente, si vagheggia un tempo mai esistito in cui gli uomini agissero per motivi irrazionali, scambiando così per irrazionalità ciò che era, al momento, la sola razionalità possibile. Sono le idee non soltanto di Nietzsche ma di D’Annunzio, di Lawrence e di tanti altri, rinsanguate con la lettura dei libri di etnologia e con l’interpretazione tendenziosa della letteratura classica americana. Pavese, insomma, propone di gettare a mare cultura e storia e di affrontare la realtà come qualche cosa che non si conosce e che non si vuole neppure conoscere, appunto in maniera mitologica, la maniera che i decadenti attribuiscono agli arcaici, ai primitivi, ai negri e al popolo. Si tratta, come si vede, delle stesse preoccupazioni anticulturali che sono all’origine di tutti i movimenti di estrema cultura di avanguardia che ci sono stati in Europa negli ultimi cinquant’anni : decadentismo, negrismo, neoprimitivismo, surrealismo, eccetera, eccetera.44 24La malevolenza, d’altronde, della stroncatura moraviana, che si trasforma sempre più in lettura caricaturale dell’opera di Pavese, appare evidente dal nesso che viene istituito con la conversione dello scrittore piemontese al comunismo :  45 Ibidem, p. 92. [...] questo esasperato irrazionalismo e antistoricismo sono quanto di più diverso e di più ostile che ci possa essere al comunismo e all’arte come il comunismo l’intende. La conversione di Pavese al comunismo acquista così il carattere di una trasmutazione o di un tentativo di trasmutazione di una somma di valori negativi (decadentistici) in uno solo ritenuto positivo. È un’operazione non nuova nella cultura italiana : dal decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio) si giunge al decadentismo trasmutato in comunismo (Pavese), ma i modi dell’operazione non cambiano.  46 Ibidem, p. 93. 25Non solo la « trasmutazione » da decadentismo in comunismo viene considerata impossibile per l’inconciliabilità dei due termini, ma da questa impossibilità consegue o una denunciata malafede o una deprecata ignoranza da parte di Pavese. Nel momento in cui collega questo discorso alla cosiddetta dimensione mitica dell’opera pavesiana, Moravia evidentemente non solo trascura quegli elementi, ricchi e fecondi, di questa dimensione, che appariranno stimolanti alla susseguente critica antropologica e psicanalitica e forniranno materiale di indagine nella prospettiva dell’imaginaire durandiano (e forse non si potevano chiedere negli anni cinquanta letture che saranno sviluppate nei due decenni successivi), ma si limita a offrire una lettura polemica che sfiora continuamente la parodia, lettura che trova l’epigrafe conclusiva del pamphlet in un ultimo riferimento caricaturale al mito : « Pavese inseguì tutta la vita il mito, con l’intenzione di raggiungerlo, e non ci riuscì ».  47 All’inchiesta dell’« Espresso », sempre sullo stesso numero, rispondono altri due esponenti rappre (...)  48 Davide Lajolo, Pavese sì - Moravia no. Vent’anni fa la morte dello scrittore delle Langhe, « Vie n (...) 266. Moravia ribadisce, come si è detto, la sua stroncatura nel 1970, con un tono che enfatizza i caratteri caricaturali. In occasione del ventesimo anniversario della morte di Pavese, « L’Espresso » consacra due paginoni a una specie di rapida inchiesta, preceduta da un cappello rievocativo dei fatti ad opera di Mario Picchi intitolato Mestiere di sopravvivere e sottotitolato « Vent’anni fa, in una stanza d’albergo, si uccideva Cesare Pavese e nasceva un mito. Cosa resta della sua lezione ? ». Moravia risponde con un breve articolo, dal titolo che riprende in modo ancor più polemico il giudizio di sedici anni prima (Fu solo un decadente), articolo che susciterà la replica dura di Davide Lajolo. 27La durezza sarcastica, che ancora una volta sembra denunciare astiosità personali, si appunta sul dato biografico – il suicidio – di cui intende smitizzare la tragicità (« Pavese non è riuscito a creare il mito nella pagina ; e il suo suicidio va interpretato come un tentativo di crearlo nella vita »). Addirittura, il fatto in sé, lungi dal suscitare se non comprensione almeno umana compassione, viene irriso e ridicolizzato : Non vogliamo dire con questo che Pavese si è ucciso perché era consapevole di non essere riuscito a dire certe cose. Pavese aveva della propria opera e di se stesso un’opinione altissima, come si può vedere nel diario. Ma, strano a dirsi, è proprio questa idea esagerata di se stesso che in parte ne ha provocato la morte. [...] Ha fatto un po’ come certe coppie di amanti che si ammazzano perché sono convinti che il loro amore è così perfetto da non poter essere coronato ormai che dalla morte. 28Come nell’articolo sul «Corriere» era introdotto in maniera assai impropria il paragone Mestiere di vivere / Zibaldone, così ora Moravia istituisce il paragone Pavese / Melville, per screditare il primo, capace di trasformare in mito solo la teatralità della propria morte, a differenza del secondo, che i miti sapeva creare «nella pagina» per poi « morire nel suo letto ». E, mentre riprende la nozione di decadentismo (« È decadentismo formalistico ») in collegamento con la mitopoiesi pavesiana, esaspera il tono parodico : Questo letterato ammira i grandi poeti creatori di miti e si domanda, con ingenuità : « Perché loro sì e io no ? Oltre tutto io sono in una posizione di vantaggio. Io so cos’è il mito, loro non lo sapevano ». Già, ma sapere, in questo caso, vuol dire non potere. 29Altri due paragoni, infine, ripropongono un’immagine parodica di Pavese. Anzitutto quello con D’Annunzio : Pavese, come il grande esponente del Decadentismo, avrebbe proiettato sulla vita la creazione artistica, cercando di innalzare la scelta biografica a mito. Ma mentre D’Annunzio aveva saputo vivere sfruttando propagandisticamente una mitizzazione scaltramente costruita con « donne, lusso, imprese militari, piume », il povero Pavese « per ingenuità » non trova altra via, per assurgere a mito, che il suicidio. Nello stesso modo, sempre impietosamente, il paragone con Hemingway sminuisce Pavese, che si uccide per fare « letteratura », quella letteratura che non sarebbe stato in grado di attingere nei libri. Tale è la conclusione di un discorso ispirato a un odium intellectuale quale di rado riscontriamo nella pur litigiosissima repubblica delle lettere Alberto Moravia, Fu solo un decadente, « L’Espresso », 12 luglio 1970, p. 14. Probabilmente il mito di Pavese va spiegato con l’incapacità dello scrittore di creare il mito nei suoi libri. Non vogliamo dire con questo che Pavese si è ucciso perché era consapevole di non essere riuscito a dire certe cose. Pavese aveva della propria opera e di se stesso un’opinione altissima, come si può vedere nel diario. Ma, strano a dirsi, è proprio questa idea esagerata di se stesso che in parte ne ha provocato la morte. Dopo aver avuto il premio Strega ed aver scritto La luna e i falò Pavese ha deciso ad un tratto che aveva ottenuto, in senso sociale e creativo, il massimo successo possibile e che di conseguenza non aveva più alcun motivo di vivere. Ha fatto un po’ come certe coppie di amanti che si ammazzano perché sono convinti che il loro amore è così perfetto da non poter essere coronato ormai che dalla morte. La verità, secondo noi, è invece diversa. Pavese non è riuscito a creare il mito nella pagina ; e il suo suicidio va interpretato come un tentativo di crearlo nella vita. In questo modo si spiega non soltanto il suicidio ma anche la accurata fabbricazione e preparazione psicologica e culturale dell’atto disperato. E infatti l’operazione tristissima e orgogliosissima è riuscita. Il mito di Pavese, il mito dello scrittore che si è ucciso per motivi esistenziali sopravvivrà alla sua opera. Ma i motivi erano soltanto apparentemente esistenziali. In realtà erano letterari. Niente illumina meglio il mito di Pavese che il suo rapporto con Melville. Melville, il mito l’aveva saputo creare nella pagina ed era morto nel suo letto. Il mito della balena bianca, come tutti i miti della letteratura, nasce da una grandiosa riflessione che ha le sue radici nel senso comune o se si preferisce nell’inconscio collettivo. La riflessione riguarda il Bene e il Male, l’Uomo e la Natura, la Ragione e l’Irrazionale e così via. Ricco di senso comune, in comunicazione diretta con l’inconscio collettivo, Melville, come tutti i grandi poeti, crea il mito senza saperlo e senza averne l’intenzione. Ciò che preme non è creare il mito ma dire certe cose, ossia fornire una sua interpretazione di una visione del mondo che non è sua, avendola ricevuta in eredità dalla società di cui fa parte. Oggi si direbbe che Melville era, ingenuamente e inconsciamente, un contenutista. Saper criticamente cos’è un mito e decidere, per così dire, a freddo, cioè in base a una riflessione culturale, di fabbricarne uno, è invece il contrario del contenutismo ingenuo ed inconscio. È decadentismo formalistico. A suo tempo ho scritto un articolo : « Pavese decadente », che non è piaciuto agli ammiratori di Pavese ; ma oggi l’idea del decadentismo di Pavese è ormai accettata. Cos’è uno scrittore decadente ? È un letterato colto e raffinato ma egotista, sfornito di senso comune e senza rapporti con l’inconscio collettivo. Questo letterato ammira i grandi poeti creatori di miti e si domanda, con ingenuità : « Perché loro sì e io no ? Oltre tutto io sono in una posizione di vantaggio. Io so cos’è il mito, loro non lo sapevano ». Già, ma sapere, in questo caso, vuol dire non potere. Tuttavia il decadente ha pur sempre una maniera di creare il mito : fuori della pagina, nella vita. Il caso di D’Annunzio è esemplare. Nella pagina di D’Annunzio il mito non c’è. D’Annunzio, allora, lo crea nella vita con le donne, il lusso, le imprese militari, le piume ecc. Abbiamo già detto che Pavese si è ucciso « anche » perché era convinto di essere ormai uno scrittore del tutto riuscito e concluso. In altri termini, Pavese si sarebbe ucciso per ingenuità, quella ingenuità che è indispensabile per creare il mito. L’ingenuità di Pavese avrebbe consistito nel darsi la morte « per la disperazione del successo ». A riprova si confronti il suicidio di Hemingway con quello di Pavese. Il suicidio di Hemingway desta un’immensa pietà; ma non si concreta in un mito perché l’opera di Hemingway è tanto più importante della sua vita e della sua morte. Non si parla oggi di Hemingway come di uno scrittore che si è ucciso ; ma come di uno scrittore che ha scritto certi libri e poi, purtroppo, si è ucciso. Il mito di Pavese è invece quello dello scrittore che si uccide. Questo mito, in certo modo, nasconde l’opera di Pavese, confondendo le idee della critica e dei lettori. Per coloro che non hanno bisogno di opere ma di miti, Pavese è un autore ideale. Così alla fine bisogna pur dire che il capolavoro di Pavese è la sua morte, cioè un evento che pur verificandosi fuori della letteratura, « continua » la letteratura. Anche qui il decadentismo si conferma un’ultima volta, tragicamente.

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