Quando finirà il Kali Yuga? Apocalisse e catastrofe dal Novecento a oggi
di Adriano Ercolani
Il Novecento è stato un secolo attraversato da una profonda inquietudine apocalittica. In filosofia da Heidegger a Deleuze e Derrida, da Kojève a Fukuyama, passando per l’esistenzialismo, nella riflessione politica e sociologica da Pasolini a Baudrillard, in poesia da T.S.Eliot agli Ermetici e ai New Apocaliptycs inglesi, nell’arte da Munch a Bacon, nella letteratura attraverso le distopie antiutopistiche di Orwell, Huxley, Dick, Ballard, nella musica popolare di canzoni come A Hard Rain’s a-Gonna Fall di Bob Dylan o Eve of Destruction di Barry McGuire, nel cinema di massa con opere d’autore quali Il Dottor Stranamore di Kubrick, Melancholia di Lars Von Trier, I figli degli uomini di Cuarón, ma anche l’intero filone di film post-apocalittici dominante nel mercato americano. Soprattutto questo sentimento si manifesta più che mai nella ricerca spirituale, riferendosi non solo alla prospettiva escatologica di maestri orientali dal grande seguito come Shri Mataji Nirmala Devi e Ramana Maharshi, ma anche al pensiero di figure considerate fuori dagli schemi del calibro di Quinzio e Ceronetti. In queste e moltissime altre opere, in tutti i campi del sapere e della sfera creativa, si respira il senso di una fine ineluttabile, di una necessaria catastofe palingenetica.
Ciò si è manifestato talvolta come anticipazione profetica, l’anelito al potere sacro della violenza che animava le avanguardie storiche in mezzo ai due conflitti bellici, in altri casi invece si è tradotta nella contemplazione delle macerie dopo il disastro, esemplificata dall’arte giapponese del Dopoguerra. Del resto parliamo di un secolo in cui l’umanità è stata testimone di due conflitti mondiali, l’Olocausto, i gulag, la bomba atomica, la guerra fredda con l’incombente minaccia di un conflitto nucleare globale, un’accelerazione tecnologica senza precedenti con conseguenze devastanti per l’ecosistema globale unita al crollo delle ideologie. Come scrive Ernesto De Martino nel suo saggio Il problema della fine del mondo,
Non è improbabile che una così acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti […]. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie più o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi di un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia l’integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi (De Martino in Prini, 1964).
I primi vent’anni del nuovo millennio hanno subìto un’accelerazione vertiginosa della tensione accumulata nel secolo precedente. Gran parte dell’umanità contemporanea di fatto sopravvive in una condizione di supina alienazione privata dell’idea stessa di futuro, descritta in maniera impeccabile da Mark Fisher nel suo Spettri della mia vita, in cui l’autore riprende il concetto di hauntology coniato da Derrida: «Ciò che dovrebbe ossessionarci non è il non più della socialdemocrazia reale, ma il non ancora dei vari futuri che il modernismo popolare ci ha preparato ad attendere e che non si è mai materializzato» (Fisher, 2019). Inoltre, temi come il cambiamento climatico e il concetto di “antropocene”, di cui parleremo diffusamente in seguito, sono ormai divenuti argomento di dibattito sui media di massa. Questo senso di smarrimento, confusione, precarietà assoluta sull’orlo imminente dell’apocalisse ci induce a riflettere sulla nozione induista spesso abusata di Kali Yuga, l’Età dell’Errore o della Confusione, con cui molti studiosi tradizionalisti identificano la nostra epoca storica.
Il Kali Yuga e la concezione ciclica del Tempo
Cosa si intende esattamente per Kali Yuga? Il grande studioso Mircea Eliade così lo definisce: «Il kali-yuga, quello nel quale ci troviamo attualmente, è considerato proprio l’“età delle tenebre”, un’epoca «che progredisce sotto il segno della disgregazione e deve finire con una catastrofe» (Eliade, 2018). Per addentrarci nella visione dobbiamo affrontare brevemente la concezione ciclica del tempo nella tradizione religiosa indiana. Nell’induismo, soprattutto nei Puranas, testi di divulgazione religiosa ulteriori ai Veda, l’evoluzione della storia umana è scandita in quattro Yuga o “ere”: Satya Yuga, l’età dell’oro; Treta Yuga, l’età dell’argento; Dvapara Yuga, l’età del bronzo; infine il Kali Yuga, l’età del ferro. La fase di decadenza dell’ultimo Yuga prelude a una palingenesi e a una nuova fase di rinascita edenica in un ciclo successivo. Appare immediata l’affinità con la concezione greca del tempo, evidentemente derivata dalla cultura indiana, similmente esposta da Esiodo nel secondo mito del poema Le opere e i giorni. Una concezione ciclica contrapposta alla “freccia del tempo” che fonda il concetto di “itinerarium” nel Cristianesimo, chiaramente ripresa da Friedrich Nietzsche nella teoria dell’Eterno Ritorno proposta per la prima volta ne La Gaia Scienza.
Eppure va sottolineato come sia la concezione ciclica indiano-greca che quella cristiana prevedano un’Apocalisse, la prima come distruzione e generazione di un nuovo ciclo, la seconda come compimento dell’Ultimo Giudizio. Ma cosa c’entra questa astrusa previsione, a metà tra profezia e astrologia, col nostro mondo in fiamme? C’entra perché l’identificazione del nostro periodo storico con l’era di decadenza descritta dalle scritture induiste è stata, tra le altre cose, un leit-motiv della cultura di destra. Una cultura che sta tornando prepotentemente a dominare l’informazione di massa nella sfera politica globale, soprattutto attraverso un uso propagandistico, massiccio e capillare dei social network.
Il culto della tradizione e il rifiuto del mondo moderno
Nel suo saggio Il fascismo eterno, scritto in origine per una conferenza alla Columbia University nel 1995, Umberto Eco identifica due concetti fondanti come prime caratteristiche del cosiddetto Ur-Fascismo, il Fascismo “eterno” che ritorna sotto differenti maschere lungo la storia: il culto della Tradizione e il rifiuto del mondo moderno. Spiega Eco:
Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico (…). Il tradizionalismo implica il rifuto del modernismo. Sia i fascisti che i nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali (Eco, 2018).
Il concetto di Kali Yuga, ovvero di un periodo di decadenza in cui una casta di eroi iniziati dovrà guidare l’umanità verso una nuova Età dell’Oro, sembra dunque creato apposta per esaltare le menti incendiarie dell’Estrema Destra, intrise di esaltazioni esoterico-religiose e culti guerrieri. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio. Anche per reazione al materialismo storico di marca marxista che ha di fatto decapitato l’esistenza del suo senso metafisico, va riconosciuto come alcuni dei più grandi studiosi di filosofia orientale del Novecento, da Giuseppe Tucci a Mircea Eliade e Pio Filippani Ronconi, autori tra gli altri di opere fondamentali, siano stati militanti in prima linea in differenti forme, gruppi, partiti, talvolta governi di estrema destra. Lo stesso Eco peccò di ingenerosità (o di comprensibile partigianeria) quando inserì due studiosi come Elémire Zolla e René Guénon nel suo “scaffale dei cretini”. Il diverso approccio nei confronti del tema qui affrontato rispecchia la differenza di sguardi dei due pensatori. Zolla, grande studioso tradizionalista ma distante dalla volgarità delle nostalgie fascistoidi, in un’intervista si prenderà gioco dell’ossessione apocalittica degli ambienti conservatori: «…l’apocalisse è una fantasia morbosa perché pretende di prevedere il futuro, che è invece imprevedibile, perché il mondo è caotico. D’altra parte è una fantasia così insistente nella mente umana che tutte le religioni hanno dovuto assumersela. Persino l’induismo prevede un certo decorso dei cicli, per cui l’ultimo, il Kali-yuga, sarà un’epoca di disastri» (Zolla, 1996). La sua elegante sprezzatura lo distingue in maniera cristallina dalla confusa temperie dell’esoterismo di estrema destra che tuttora inquina gli ambiti di ricerca sulla filosofia orientale.
Guénon, Evola e la cultura di destra
René Guénon (1886-1951) è una figura affascinante quanto controversa, un filosofo ed esoterista francese convertito all’Islam, fautore di una visione della Tradizione come conoscenza sincretica dei principi primordiali del sacro, espressi nelle varie religioni e correnti spirituali di tutti i tempi. A lui si deve la diffusione del concetto di Kali Yuga negli ambienti occidentali, soprattutto nel saggio Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi del 1945, in cui svilupperà nel dettaglio la conclusione del suo scritto Alcune considerazioni sulla teoria dei cicli cosmici: «Sappiamo già, per i riferimenti che ci danno tutte le tradizioni, di essere ormai da tempo nel Kali-Yuga; possiamo aggiungere, senza tema di errori, che siamo anzi in una fase avanzata di esso, fase che viene descritta nei Purana con particolari che rispondono in maniera davvero sorprendente ai caratteri della epoca attuale» (Guénon, 1937a).
In precedenza, nel saggio La crisi del mondo moderno (1927), lo stesso aveva affermato:
Noi ci troviamo presentemente nella quarta età, nel Kali-Yuga o “Età Oscura”, e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia “classica”. A partire da allora, verità già accessibili a tutti sono divenute sempre più nascoste e difficili a raggiungere. Coloro che le posseggono sono sempre meno numerosi e se il tesoro della saggezza “non-umana”, anteriore ad ogni età, non può mai perdersi, esso si avvolge tuttavia di veli sempre più impenetrabili, che lo nascondono agli sguardi e sotto i quali è estremamente difficile scoprirlo, per questo che, sotto simboli diversi, dappertutto si è parlato di qualcosa che si è perduto, almeno in apparenza e per il mondo esteriore, e che va ritrovato da coloro che aspirano alla conoscenza vera; ma è stato anche detto che quel che è divenuto così nascosto ridiverrà visibile alla fine di questo ciclo: fine che, in virtù della continuità che collega insieme tutte le cose, sarà in pari tempo il principio di un ciclo nuovo (Guénon, 1927).
Ispirandosi a Guénon, pur non condividendone la visione positiva della Chiesa Cattolica e della Massoneria contemporanea come forze custodi della Tradizione, sarà Julius Evola (1898-1974) a utilizzare il concetto di Kali Yuga per ispirare col carisma incendiario del suo stile fiammeggiante le menti esaltate dei neofascisti del Dopoguerra. Evola, mente eclettica e indubbiamente dotata di potenza visionaria, viene da decenni considerato uno dei “cattivi maestri” dell’estrema destra, area ideologica in cui è assurto allo status quasi demiurgico della “mistica fascista” e delle teorie antisemite chiamate “dottrina della razza”. Senza dubbio è stato uno dei pensatori più influenti nell’ambito della Tradizione.
Se Guénon si era limitato a mostrare la crisi del mondo moderno da una prospettiva tradizionalista, sette anni dopo il citato saggio dello studioso francese, Evola pubblicherà un testo fin dal titolo pericolosamente inebriante: Rivolta contro il mondo moderno. In quel libro si possono leggere frasi di potenza suggestiva: «Se l’età ultima, il Kali-Yuga, è un’età di terribili distruzioni, coloro che vi appaiono e malgrado tutto vi si tengono in piedi possono conseguire frutti non facilmente accessibili agli uomini di altre età» (Evola, 1969). Se però assumiamo il Kali Yuga come Età dell’Errore e della Confusione, in cui il sacro è pervertito e dall’ordine si passa al caos, una considerazione si impone. Stando ai documenti Evola fu considerato troppo tradizionalista persino da Himmler, sebbene i suoi studi sulle SS quale espressione moderna degli ordini e delle elités politiche venissero apprezzati negli ambienti nazisti. In questo senso, se la conoscenza esoterica dei testi orientali è stata messa al servizio della deformazione ideologica dei nazisti, appare chiaro come Evola stesso sia stato uno dei migliori agenti del Kali Yuga che tanto voleva debellare.
Come riassume Furio Jesi nel suo ormai saggio classico Cultura di destra:
Siamo rimasti fino a ora nell’ambito di una cultura di destra mitteleuropea che, nel nostro secolo, offre l’immagine di una mescolanza triviale di esoterismo rimasticato e di razzismo, all’insegna di pratiche sacrificali e di altri elementi d’un apparato di religione della morte. Non presumiamo, certo, di spiegare la genesi del nazismo con una piú o meno suggestiva dottrina esoterica, con l’affiorare di una data costellazione mitologica manipolata ad hoc dagli interessati. Ci limitiamo soltanto a esaminare l’aspetto che la cultura della destra mitteleuropea offre ad alcuni sondaggi nell’ambito del suo linguaggio o, se vogliamo, delle formalizzazioni iconiche e rituali della sua paura e della sua violenza (…). Non vi è ragionevole dubbio circa il fatto che Hitler e la sua corte disponessero di una cultura raccogliticcia e mal digerita; ma, d’altra parte, non vi sono ragionevoli elementi per asserire con certezza che la manipolazione propagandistica di queste sedimentazioni fosse compiuta a freddo, come calcolata tecnicizzazione di elementi mitologici che possono servire, ma nei quali non si crede o, comunque, nei quali non si crede tanto da subordinare a essi i propri interessi meno metafisici (Jesi, 2011).
Heidegger, Hölderlin, Jünger: tempo di povertà e fine della storia
Esposta la deformazione grottesca operata dall’estrema destra della visione induista dell’evoluzione umana, è interessante riflettere come la visione del Kali Yuga sia un campo di riflessione valido, esplicitamente o involontariamente evocato con riflessioni affini, anche per pensatori distanti o antitetici agli ambienti tradizionalisti o reazionari. Punto d’incontro è sicuramente una delle pagine più note di riflessione filosofica sulla poesia del Novecento, ovvero l’intervento Perché i poeti? in cui Heidegger riflette su un passo di Hölderlin:
Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza di Dio”. […] La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero (Heidegger, 1968).
Conosciamo i rapporti controversi di Heidegger col nazismo, come d’altro canto riconosciamo la sua innegabile influenza anche su tutta la filosofia del Novecento. Un altro geniale pensatore “di destra” letto però con interesse e ammirazione “a sinistra” è certamente Ernst Jünger, che proprio in risposta a Heidegger, al quale aveva dedicato il saggio iniziale Oltre la linea, proporrà queste ardenti riflessioni che capovolgono la prospettiva nichilista della filosofia coeva: «…secondo Esiodo, l’età dei Titani è l’età dell’oro. Il passaggio dall’età del ferro all’età delle irradiazioni si verifica anzitutto nelle scienze della natura. La potenza delle loro formule si rivela nella tecnica e nei suoi dispositivi. Tale diffusione si accompagna a quella spiritualizzazione che gli astrologi attribuiscono all’Età dell’Acquario» (Jünger, 1989).
Successivamente, ne Il libro dell’orologio a polvere (1981), Jünger affronta esplicitamente la differenza fra la concezione ciclica e la “freccia del tempo”:
Il tempo ciclico e il tempo progressivo sollecitano due stati d’animo fondamentali dell’uomo, il ricordo e la speranza. Sono i due edificatori della sua dimora. In loro s’incontrano padre e figlio, spirito conservatore e spirito riformatore. Mentre il ritorno viene determinato da forze estranee al nostro mondo, la speranza, accanto al suicidio e al dolore, è un segno distintivo dell’uomo […]. La speranza è umana e terrena, è un segno di imperfezione. Ma è già una condizione superiore, nella quale l’imperfezione viene avvertita. Quello che noi oggi chiamiamo progresso è speranza secolarizzata: il fine è terreno ed è chiaramente iscritto nel tempo (Jünger, 1994).
Sorvolando sulle profezie inquietanti di Oswald Spengler sulla necessaria estinzione della civiltà occidentale nel libro Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale (1918), è interessante vedere come verso la fine del secolo un concetto hegeliano sia diventato improvvisamente di moda grazie a uno scaltro recupero da parte di Francis Fukuyama nel 1992, negli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino, e di conseguenza del blocco sovietico: parliamo della nota espressione “fine della storia”. L’espressione non nasce, a essere filologicamente attenti, né in Hegel né in Kojève, ma in poche, decisive righe presenti in un saggio di Alexandre Koyré del 1934, su Hegel a Jena:
La filosofia della storia – e per ciò stesso la filosofia hegeliana, il “sistema” – sarebbe possibile solo se la storia fosse finita, solo se non ci fosse più avvenire, solo se il tempo potesse fermarsi. Può essere che Hegel l’abbia creduto. Può essere anche che abbia creduto che fosse qui la condizione essenziale del sistema – è solo di notte che le nottole di Minerva cominciano il loro volo – ma anche che questa condizione essenziale fosse già realizzata, che la storia fosse effettivamente compiuta, e che proprio per questo egli potesse – avesse potuto – portarla a compimento (Koyré, 1980).
Il tema è stato sviscerato con competenza da Massimo Palma nel suo bel saggio Foto di gruppo con servo e signore:
Se la nottola di Minerva può volare «solo di notte», Hegel può essersi rappresentato come alla foce della storia, di quello stesso tempo della storia che aveva contribuito a determinare anche come concetto. Hegel può – ha potuto (l’oscillazione sui tempi e sui modi è significativa del dilemma di Koyré) – anche essersi pensato alla fine. Lungi dal voler discutere il tema della fine della storia, già infinite volte affrontato e criticato (per la viziosa circolarità del ragionamento implicito di Koyré, che fissa come condizione di possibilità del concetto la fine della storia, chiedendo così al tempo di finire per dare al tempo in quanto concetto la possibilità di pensarsi), e di facile fortuna per le inevitabili connessioni con le suggestioni religiose e politiche più varie, è opportuno rilevare la paternità nella linea genealogica dell’hegelismo francese d’una questione che più che tormentare Koyré, accontentatosi di aprire il vaso di Pandora, fece la “fortuna” di Kojève. […] Da base ermeneutica per approcciare il concetto del tempo in Hegel, il motivo di Koyré volò altissimo: la “fine della storia” si tramutò in mitologia operativamente efficacissima e rubò la scena a tutti gli altri della Hegel-Renaissance (Palma, 2017).
Per approfondire il tema rimandiamo, oltre al citato saggio di Palma, a La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève di Matteo Vegetti e a Il filosofo della domenica. La vita e l’opera di Alexandre Kojève di Marco Filoni; qui ci interessa solo accennarlo per mostrare come anche negli ambienti “progressisti” degli anni Trenta a Parigi si cominciasse a riflettere in senso escatologico.
Apocalissi culturali: Eschaton e Katechon
Rimanendo in ambito non reazionario, un testo importante per comprendere l’atmosfera filosofica in cui ci stiamo muovendo, benché incompiuto, è l’ultimo saggio del già citato Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Antropologo e storico delle religioni nonché militante del PCI, noto per i suoi cruciali saggi sulla cultura magica nel Meridione quali Sud e Magia e La terra del rimorso, in questo testo De Martino si rifà al Dasein heideggeriano con l’intenzione di indagare una questione radicale; come deve l’uomo “stare al mondo”, soprattutto in una prospettiva apocalittica? La sua risposta fa pensare all’interpretazione “comunista” de La Ginestra leopardiana offerta da Cesare Luporini: «Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo […] il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta» (De Martino, 2002).
È interessante notare come anche De Martino affronti la differenza fra tempo ciclico e tempo progressivo, rovesciando però, da allievo di Gramsci, la prospettiva dei pensatori conservatori: «Il tempo ciclico è tempo della prevedibilità e della sicurezza: il suo modello è offerto dal ciclo astronomico e stagionale. Ma nell’ambito della storia umana questa tendenza della natura diventa un rischio, perché la storia umana è proprio ciò che non deve ripetersi e non deve tornare, essendo questo ripetersi e questo tornare la catastrofe della irreversibilità valorizzatrice. Il tempo della prevedibilità e della sicurezza è per la storia il tempo della pigrizia, il rischio della naturalizzazione della cultura». E la fine della sua riflessione egualmente appare come una risposta a Heidegger: «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante» (De Martino, 2002).
In questa galleria di riflessioni apocalittiche su sponda “sinistra” non possiamo non citare le riflessioni di Massimo Cacciari su due concetti di natura religiosa, particolarmente sviluppati in ambito neotestamentario e strettamente collegati tra loro, eschaton e katechon. Con il primo si intende “la fine dei tempi” segnata in molte religioni, in particolare nel cristianesimo, dall’avvento messianico e dal conseguente Ultimo Giudizio; col secondo, di derivazione paolina, si intende al contrario un potere che frena, contiene, rallenta l’avvento dell’Anticristo, preludio antimessianico alla fine dei tempi, notoriamente riportato al centro del dibattito teologico-politico nel Novecento da Carl Schmitt. Riportiamo brevemente due diversi momenti di riflessione del filosofo veneziano. In un intervento intitolato Ma il vento soffia dove e come vuole, parlando delle propettive attuali del cristianesimo, Cacciari afferma:
Se è vissuto in questa dimensione, è evidente che l’eschaton non è il domani, il dopodomani dell’uomo. È un vivere escatologicamente il presente, ogni istante, perché ogni istante può essere l’ultimo. L’ultimo non può sorprenderci come il ladro di notte. È vissuto come ogni istante perché in ogni istante è atteso. Chi vive il futuro escatologicamente, vive l’eschaton come ogni istante. Questa è l’esperienza che palpitava nell’esperienza cristiana originaria. E il cristianesimo può avere un futuro se può fare memoria in sé di questa idea del futuro (Cacciari, 2003)
In un’intervista per Avvenire, Cacciari affronta l’altro grande polo della riflessione apocalittica, il katechon:
…quel qualcosa, o qualcuno, che “contiene”, trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo […] Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo (“con-tenere” significa “tenere dentro di sé”) e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione […] Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione (Cacciari, 2013)
Questo rifuggire dall’astrazione sembra aver trovato puntuale e drammatica conferma nel presente, cronache alla mano.
Antropocene e Accelerazionismo
Un dato affascinante quanto inquietante è che questo sentimento apocalittico da anni ormai non è più confinato nelle facoltà di teologia e filosofia ma, passando sorprendentemente per la divulgazione scientifica, è approdato stabilmente come argomento di dibattito sui media di massa quali quotidiani, radio e televisione, grazie all’improvvisa popolarità della definizione di Antropocene sorta in ambito biologico. Coniato negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e reso noto dal Premio Nobel per la Chimica nel 2000 Paul Crutzen, il termine indica l’attuale era geologica, contraddistinta dall’impatto dell’attività umana sul pianeta. Spiega Crutzen:
A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova […] siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera negli ultimi 15 milioni di anni (Crutzen, 2005).
Le ripercussioni di questa “scoperta” sull’immaginario contemporaneo sono ragguardevoli. Come ha scritto Amitav Gosh: «Nell’era dell’Antropocene è diventato impossibile tenere in piedi la finzione di una netta separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale: le due cose oggi appaiono indissolubilmente intrecciate. Ciò significa che quelle due divinità felicemente accoppiate, “Natura” e “Cultura”, sono morte, e che l’idea stessa di “scrittura ecologica”, così come la conoscevamo, è morta con loro» (Gosh, 2017). Non è un caso che proprio in questo contesto storico sia nato un movimento filosofico solo apparentemente paradossale (in realtà erede, non del tutto inconsapevolmente, di un’antica tradizione gnostica): l’accelerazionismo. Ispirato dalle riflessioni più radicali di Deleuze e Guattari l’accelerazionismo, lungi dal voler scongiurare l’imminente apocalisse ambientale ed economica creata dall’impazzimento del sistema capitalistico, predica la necessità di affrontare fino in fondo la crisi come unico modo per superarla. Il finale del libro di Tiziano Cancelli How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo rende il significato più profondo di quella che è tutto fuorché una mera provocazione:
Le sfide della contemporaneità non coinvolgono più unicamente il mondo accademico o flosofico, ma interrogano nel profondo le stesse modalità del nostro stare al mondo; di conseguenza, solamente una visione eretica, profondamente magica, in grado di sopportare il crollo della realtà che ci circonda può aspirare a trovare un nuovo orizzonte di senso, un nuovo modo che esiste. L’accelerazionismo è una potente invocazione: cosa apparirà al centro di questo cerchio magico è tutto da scoprire (Cancelli, 2019).
These fragments I have shored against my ruins
In conclusione, dopo aver mostrato come il sentimento apocalittico, sotto diverse forme e orizzonti, innervi alcune delle riflessioni filosofiche più rilevanti dell’ultimo secolo, rimane da chiedersi quando finirà il tempo di povertà? Quando e come finirà il Kali Yuga? Sorvolando su calcoli astrologici e profezie di veggenti risalenti a mille anni fa secondo le quali saremmo agli sgoccioli di questa era oscura, credo sia proficuo riflettere su un aspetto risolutivo e implicito dell’idea stessa. Per affrancare la visione apocalittica dalle deformazioni oscure dell’esoterismo nero è sufficiente riconoscere che nella stessa visione induista la fine di uno yuga è già gravida di quello successivo.
Nell’Era della Confusione ci sono già i semi della futura Età dell’Oro. Ordo ad Chaos, dal caos l’ordine, recita un motto iniziatico della massoneria, pregno di sapienza alchemica. Uscendo dalle immagini suggestive del linguaggio esoterico questa intuizione era stata espressa in una delle vette della poesia novecentesca, The Waste Land, poemetto del 1922 di T.S. Eliot tradotto spesso in La terra desolata (in realtà il titolo inglese è traduzione dell’espressione dantesca “paese guasto”). Il poema eliotiano, modello della poesia postmoderna, appare come sintesi, in netto anticipo, della riflessione escatologica offerta dalle diverse anime filosofiche del Novecento che ho inteso mostrare in questa trattazione. Inoltre, il poema ebbe come editor d’eccezione Ezra Pound a cui è dedicato quale “miglior fabbro”, per rimanere in ambito dantesco, uno dei grandi miti della cultura conservatrice. I temi centrali dell’opera di Eliot si ritrovano tutti. Anzitutto il ritmo ciclico del tempo nei riti di morte e resurrezione ispirati dagli studi di Frazer, raccolti nel saggio Il ramo d’oro. D’altro canto, è significativo che nelle opere successive, dai Cori della Rocca ai Quattro Quartetti, Eliot sancirà in poesia delle definizioni teologicamente impeccabili della concezione cristiana del tempo. Poi, ne La Terra Desolata, appare la visione, colma di suggestioni blakeane, delle metropoli moderne come infernali luoghi di alienazione, il profondo senso di decadenza e incombente fine che verrà successivamente testimoniato da Eliot tre anni dopo nei celeberrimi versi finali della poesia The Hollow Men: «Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un lamento» (Eliot, 2000). Infine il richiamo ultimo e liberatorio alla saggezza spirituale orientale. Verso la conclusione del poema infatti, dopo aver descritto magnificamente “il tempo di povertà” attraverso un mosaico di citazioni tratte dalla poesia di ogni tempo, da Arnaut Daniel a Gerard De Nerval, da Dante a Dickens, da Baudelaire a Ovidio, da Omero a Wagner, Eliot ci dona un verso che potrebbe essere posto in calce alla letteratura del Novecento: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Il poema termina genialmente con la formula rituale che chiude le Upanishad, il mantra che evoca l’ineffabile pace interiore dettata dalla imperturbabilità della mente meditativa, «Om Shanti Shanti Shanti» (Eliot, 2013).
Dunque, raccogliendo l’intuizione del poeta, non rimane che puntellare le rovine con i frammenti della conoscenza e della bellezza giunti fino a noi, affrontando l’Apocalisse a testa alta, accogliendo tutte le trasformazioni, anche drammatiche, che necessariamente il futuro ci imporrà. E ciò sarà possibile solo elevando il livello della consapevolezza collettiva, non solo divulgando cultura presso le nuove generazioni, offrendo strumenti critici di comprensione del reale presso le classi meno abbienti, decostruendo incessantemente le menzogne della propaganda populista, affrancandosi dalla strisciante invasività dei social network, ma più profondamente rimettendo in discussione le false certezze della visione eurocentrica, aprendosi con discernimento e meraviglia a esperienze in grado di «allargare l’area della coscienza», nel proclama di Allen Ginsberg.
Tornando alla domanda che dona il titolo di questa trattazione, concludiamo con l’asupicio che si compiano le parole del maestro spirituale indiano Shri Mataji Nirmala Devi: «Nei Puranas, il Kali Yuga segna il punto più basso dello sviluppo morale e spirituale in ogni ciclo […] che conduce infine al Satya Yuga, l’età della verità o realtà, nella quale si ripresenta l’Età dell’Oro, nella quale tutte le capacità dell’uomo cominciano di nuovo a manifestarsi nella loro piena gloria» (Nirmala Devi, 2009).
Bibliografia
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https://www.avvenire.it/agora/pagine/cacciari-chi-mette-il-freno-apocalisse
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Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2021/03/21/quando-finira-il-kali-yuga-lapocalisse-e-la-catastrofe-dal-novecento-a-oggi/
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