Il teologo Rosario Giuè, mio caro amico, prende posizione contro il recente documento dell' ex Tribunale della Santa Inquisizione. Meno male che gli Inquisitori odierni dispongano soltanto di legna bagnata e non trovano più uomini disposti a ripristinare i bei roghi d'un tempo.(fv)
Ecco il testo integrale dell'articolo di Rosario Giuè pubblicato oggi nelle pagine palermitane de La Repubblica:
Perché un parroco non può riconoscersi in “questo” Vangelo.
Se si afferma che “Dio ama ogni persona” se ne devono trarre le conseguenze
di Rosario Giuè
Io non so se dietro il documento della Congregazione vaticana per la dottrina della fede che nega la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso (15/3) vi sia una scelta di politica ecclesiastica. Il contesto lo fa pensare considerando che il documento viene presentato come responsum della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede a un dubium. Chi abbia sollevato il dubbio non ci è detto. Sarebbe bene usare il metodo della trasparenza. Ma è facilmente intuibile, come è avvenuto in casi analoghi, che il dubium sia stato sollevato da gruppi integralisti di cattolici legati ad una visione reazionaria della società.
Un cattolicesimo identitario da usare come una bandiera per distinguersi o come un’arma per emarginare. Non si era obbligati a rispondere a questi dubbi. Quando quattro cardinali tradizionalisti sollevarono, alcuni anni fa, dei “dubia” circa la prassi matrimoniale indicata in Amoris laetitiae, il Papa non rispose.
Il fatto, comunque, è che dopo l’enciclica Fratelli tutti non si può pensare che nel “tutti” ci possa essere una categoria di persone da escludere per principio. Se si afferma che «Dio ama ogni persona» se ne devono trarre le conseguenze.
Si deve comprendere che rifiutare la benedizione ad una coppia solo perché composta da persone omosessuali è creare, di fatto, una «ingiusta discriminazione» che pure si dice di non volere.
Se la benedizione, come si scrive nel documento, è un invito a lodare Dio, a chiedere la sua protezione e la sua misericordia, la domanda è: perché rifiutare tutto ciò a delle persone che si amano sinceramente e stabilmente?
Perché ritenere quelle unioni, se vissute nello Spirito del Vangelo, per principio «oggettivamente» incapaci a ricevere e a esprimere la grazia di Dio? Ma davvero si può ancora oggi pensare che quelle persone e il loro progetto di vita non siano nei «disegni di Dio iscritti nella creazione»?
Davvero si può giudicare quelle vite così situate in contrasto «oggettivamente» con il Vangelo di Gesù?
A un parroco di Palermo (o di Milano) attento alle periferie esistenziali come chiede papa Francesco, impegnato a leggere i segni dei tempi nello spirito del Concilio, queste domande salgono dal cuore con insistenza. Queste domande, più di tutto, gliele pongono delle persone in carne e ossa. Gliele pongono le coppie che, silenziosamente, sono puntualmente presenti nella liturgia domenicale.
Persone che si portano nel cuore un vissuto di «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» (lettera agli Ebrei) come Gesù nel suo cammino di passione.
A un prete che desidera fondare il suo ministero sul Vangelo, solo sul Vangelo, e che non è interessato ad equilibri e dinamiche di potere, ciò che importa sono i volti.
Volti e persone così come sono e non come vorremmo noi che loro fossero.
Per un presbitero sentirsi ribadire da Roma che «non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso» appare qualcosa difficilmente spiegabile ai cristiani e alle cristiane di oggi. E sente di perdere credibilità nell’annuncio del Vangelo se deve mettere paletti, mentre incrocia quei volti. Il rischio, alla fine, è che questo modo di essere Chiesa si mostri un ostacolo nel vivere fino in fondo il Vangelo.
La “benedizione” non è un sacramento. Perché considerarla illecita? Dire che la dichiarazione di illiceità delle benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso «non intende essere, un’ingiusta discriminazione», non cura la ferita. Agli occhi di molti uomini e donne del nostro tempo appare il contrario.
E così si rischia di segnare, ancor di più, il distacco tra una certa forma di Chiesa, che caparbiamente ancora guarda al passato, e la società proiettata verso un futuro inedito.
La Repubblica, Palermo 17 marzo 2021
Nessun commento:
Posta un commento