Rosario Daidone è uno dei maggiori esperti nazionali dell'arte maiolica siciliana. Ma, come potete vedere anche da questo blog dove abbiamo pubblicato altri suoi pezzi, Rosario è un ottimo scrittore e sa usare bene il suo "terzo occhio" per descrivere con ironia ed acume critico la vita che si conduceva un tempo in un paese siciliano che molti non faranno fatica a riconoscere. (fv)
MEDIOEVO SICILIANO
Ho sognato di trovarmi in un paese senza nome, sotto una montagna, lontano dalla ferrovia, pieno di muli, asini e cavalli, più rari, davanti al maniscalco. Sentivo le ragazze che si chiamavano l’un l’altra dalle finestre trascinando le vocali: “Provvideee, Marìiia, Giuseppìii”; i ragazzi, nelle strade: “Pasqualì, Pe, Giuvà”. In una grande costruzione della via principale abitavano le monache con “la mamma del convento” che le accudiva e portava gli orfanelli in fila ai funerali. Nella parte più alta, separato, un convento di frati neri come corvi. Per il resto case a uno o due piani con i prospetti non finiti nelle strade strette e sterrate. Niente di notevole, neanche il prospetto della Chiesa madre che aveva qualche pretesa architettonica, ma era seminascosto da altre costruzioni.
Nelle conversazioni I nomignoli erano gli unici elementi dell’identità degli abitanti per cui quando arrivava un forestiero come me col foglietto dove era scritto nome e cognome di una persona cercata, nessuno sapeva riconoscerla per indicargli dove stava, a maggior ragione se aveva l’aria di esattore come forse avevo io in giacca e cravatta. Solo il vecchio impiegato comunale o il postino –dicevano- erano in grado di sapere, per professione esercitata, a chi indirizzarmi. Il fatto è che tutti in paese si conoscevano soltanto per nomignolo. C’erano appellativi semplici, o composti da verbo e sostantivo, ma anche osceni, di cui non è il caso di fornire l’esempio riferitomi, ma che, uomini e donne, pronunciavano senza vergogna. I nomi dei poveri non erano preceduti da nulla, quello dei proprietari e degli artigiani invece dal “don” o da “mastro”. Ma il “don” col nome, spesso graziosamente vezzeggiato, era riservato –dicevano- a pochi. I nomignoli, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi attaccati al nome di battesimo erano dunque forma sicura d’identità anagrafica e sintesi indiscussa di condizione sociale. Alcuni godevano di tre appellativi come gli antichi romani: “mastro” per il mestiere esercitato, nome proprio e nomignolo relativo alla famiglia d’appartenenza. Altri non avevano privilegio di patronimico e, a quanto pare, bastava soltanto dire, ad esempio, “il beccamorto” e tutti sapevano di chi si parlasse. Tra i nomignoli composti ce n’erano alcuni fantasiosi e divertenti. Solo Il parroco, per rispetto credo, non ne aveva, anche quando apparteneva ad una famiglia che ne era in possesso. Qualche nomignolo faceva riferimento a una parte intima maschile, considerata addirittura di metallo prezioso, ma non si sapeva se era vanto del detentore o riconoscimento generale. Nel paese si parlava come Ciullo d’Alcamo nel XIII secolo, si diceva ad esempio “nun haiu abbentu” per dire “non ho pace” e “fochira”, come nel Contrasto di Ciullo, erano i fuochi: plurale neutro alla latina.
Vedevo che in chiesa, da una parte c’erano i banchi per i maschi, dall’altra quelli per le femmine come ai tempi di Dante. Ma non era difficile per un giovanotto impomatato scambiare un’occhiata con la sua Beatrice perché nelle feste solenni si stazionava a lungo nella chiesa, e non per eccesso di devozione, giacché alcuni portavano in tasca mandorle e semi da sgranocchiare per ingannare il tempo. Avvenimento da non perdere, preannunciato e atteso era, come nel medioevo quello di Iacopo da Varagine, l’arrivo dei predicatori di professione. Li chiamavano “patruzzi”, (forse domenicani) forniti, a scopo didattico, di un padre “comico” di cui tutti aspettavano con impazienza l’entrata in scena; poco attenti e per nulla intimoriti dalle immagini orrende delle pene evocate con potente mimica dal predicatore serio, stavano invece attentissimi e ridevano rumorosamente agli equivoci e alle battute, nell’intermezzo, del comico. Ma questo non potei verificarlo di persona perché durante la mia permanenza in paese non ebbi l’occasione di trovarli. Mi raccontavano che la gente era tanto affezionata ai predicatori arrivati dalla città per la salvezza delle anime, che in paese si diffuse il detto proverbiale: “Non abbiamo pianto quando “i patruzzi” se ne andarono e dovremmo piangere per questo stupido motivo?” La domenica, mi accorgevo che in chiesa, anche quando c’erano dei posti liberi nei banchi della navata, i maschi preferivano sedere con le gambe penzoloni sulle balaustre degli altari laterali da dove potessero tenere d’occhio la fidanzata segreta. Seppi in seguito che in certe sere d’inverno, quando la famiglia era sprofondata nel sonno, come per impercettibili gesti si era convenuto durante la funzione religiosa, la ragazza si affacciava alla “mezzaporta” per intese più ravvicinate. I ragazzi erano stati invitati preventivamente a tirare con la fionda al lampione vicino per difendere l’intimità degli amanti dalla vista di un eventuale passante indiscreto. Non era raro che qualcuno si buscasse per la pioggia e il freddo sofferti nell’incontro un brutto raffreddore, ma la farmacia, come mi riferiva lo speziale, faceva pochi affari, al medico che passeggiava col bastoncino dal pomo d’argento, si preferivano gli infusi d’erbe e le coperte di lana.
A proposito di amori segreti qualcuno si premurò d’informarmi con discrezione che in paese c’erano un paio di femmine che di giorno, castigate, andavano alla fontanella a prendere l’acqua per le famiglie benestanti e la notte…Ma “a piacere” -diceva- non per tutti cioè, ma scegliendo con cura chi accogliere. Osservai: “Ma come? In un paese così piccolo dove si sa tutto di tutti…” Mi rispose come uno che conosce il mondo: “Eh, dove ci sono campane…”
Non fu difficile rendermi conto che Il calendario era ancora quello dei popoli antichi, i contadini coglievano uva e fichi secondo le fasi lunari. Di fruttivendoli nemmeno l’ombra. Bastava sentir parlare la gente per capire che le feste solenni erano i punti fermi a cui ancorare gli avvenimenti per i lavori da intraprendere; le consegne degli artigiani erano stabilite “prima di Pasqua, dopo Natale, prima o dopo la festa del patrono”. Il tempo era sempre indeterminato nel paese, anche per gli appuntamenti giornalieri che non fissavano ore o minuti, come se l’orologio non esistesse e in effetti quello del castello sembrava fermo da sempre. Ma alcuni portavano al polso l’orologio credo per baggianeria, cosi come nel taschino della giacca in bella vista vedevo brillare la stilografica possibilmente senza inchiostro, come segno di distinzione. A giudicare da certi segni e dai vestiti neri e scoloriti delle donne anziane I lutti duravano tutta la vita e la coppola, spesso di nero indeciso, regnava sovrana su tutte le teste, tranne su quella del dottore, che portava il cappello grigio, e del prete reso bianco tutt’intorno dal sudore di molte estati.
La scuola media, parificata, gestita da una signora venuta dal Continente, contava in tutto una trentina di allievi in un paese di più di settemila abitanti. Seppi che le famiglie che non potevano permettersi la retta mandavano il figlio promettente in seminario come da sempre si era fatto.
Nei giorni di pioggia, quando impossibile era il lavoro nei campi, i due o tre caffè esistenti erano affollati di contadini che giocavano a carte seduti ai tavolini col ripiano di marmo grigio, la posta era costituita da una pasta con ripieno o da una cioccolata molle triangolare avvolta nella carta stagnola dorata della Ferrero, unica agognata presenza di un prodotto industriale arrivato con la corriera da un altro mondo. Per i borghesi c’era il biliardo al secondo piano che alla bisogna serviva come tavolo verde per il gioco d’azzardo cui ebbi la fortuna d’assistere nel silenzio carico di tensione della zecchinetta.
Mi accorgevo che I vecchi giocavano a bocce nella strada sterrata e i ragazzi si divertivano inseguendosi a sassate. Nelle giornate di sole i figli dei muratori portavano di soppiatto lunghe scale a pioli per prendere i passeri dai nidi nei buchi alti dei muri delle case. Se c’erano ancora le uova, il nido non si toccava, bisognava avvicinarsi senza mostrare i denti, dicevano seriamente, per non comprometterne la schiusa e dall’alto ai compagni, rimasti a terra col naso in aria, quello sulla scala faceva segno con le dita del numero trovato. Balestre, costruite con la canna e le stecche di vecchi ombrelli e fionde con i ritagli delle camere d’aria della bicicletta, erano le armi preferite; i ragazzi colpivano allegramente, a gara, tutti gli animali a due o a quattro zampe, striscianti e volanti, ma anche le povere galline talvolta per suscitare divertiti l’ira della massaia. Nelle strade non mancavano liberi i maiali di tutte le taglie che grugnivano nel fango, ma guai a cavalcarli, si correva il rischio di restare nani, come dicevano i padroni inascoltati.
Nel sogno privo di riferimenti cronologici, come sono tutti i sogni, penso, per certi confusi indizi, che potevano essere anni di dopoguerra quando visitai il paese. Ma di quale guerra si trattasse non so dire, forse la seconda, se esisteva già la corriera.
Dunque il Fascismo c’era stato e, come mi raccontava un anziano, s’erano ascoltati alla radio i discorsi del Duce, col berretto in mano per rispetto. Ma il regime non aveva lasciato tracce, se non qualche sbiadita scritta sui muri e il nuovo edificio scolastico. Ma nel cortile della scuola non c’erano più i saggi ginnici e all’asilo le suore erano tornate a insegnare ai bambini come si zappavano le fave o mieteva il grano. Un esercizietto di educazione fisica accompagnato dalla canzoncina ne mimava i modi. Bambini e bambine cantavano: “zappa la fava la bella villana, quando la zappa, la zappa così e la zappa a poco a poco e poi si mette le mani così” : ai fianchi per tirare un sospiro di sollievo. Senza l’ausilio delle macchine i lavori agricoli erano rimasti quelli di sempre. Pesantissimi. Una pausa di riposo annuale i contadini bruciati dal sole si concedevano solo per la festa del patrono che si svolgeva la penultima domenica d’agosto e durava tre giorni. Processione lunghissima- mi raccontavano con orgoglio- di fedeli ritornati per l’occasione dai paesi d’emigrazione e persino dall’America. Niente banda musicale e niente canti, soltanto una litania ossessivamente ripetuta al seguito del fercolo come in un antico solenne funerale; ceri di tutte le dimensioni erano portate a piedi scalzi da chi aveva ottenuto o sperava una grazia. La devozione, come affermavano in paese era diffusa e intensa. E io pensavo -se sognando si pensa- che la vita fosse considerata un faticoso, più o meno lungo periodo di passaggio, come insisteva il parroco dal pulpito. Non c’era un ospedale, ma le chiese erano poco meno di una decina, tante quanto le statue dei santi che si portavano tutte insieme in processione ad invocare la pioggia nei periodi di siccità. Il vento forte che a marzo faceva volare le tegole dai tetti era scongiurato da un prete che –dicevano- ci provava senza eccessiva convinzione. In paese si infornava un pane di eccellente qualità di frumento locale che mi fecero mangiare, ma la salsiccia di maiale, fatta in casa o comprata dal macellaio, era il pezzo forte della cucina e alla salsiccia era dedicata una festa a Settembre quando i giovani andavano la sera ad arrostirla in allegre comitive nei grandi falò vicino a un santuario fuori mano, retaggio di antiche feste sacrificali. I divertimenti erano dunque legati alle ricorrenze religiose quando vi si svolgevano gare e giochi d’artificio che lasciavano incantati. Le bancarelle venute dalla città vendevano torroni e un immangiabile “gelato di campagna”, tavoletta di zucchero cotto, che aveva i colori della bandiera italiana, di un’Italia lontana raccontata dai vecchi della prima guerra mondiale che giuravano stupiti come a Udine, a Gorizia i maschi ballavano con le femmine, lavoravano nelle fabbriche, frequentavano le cantine e fumavano come gli uomini. Terre di femmine non virtuose come le donne del paese che stavano in casa, non andavano a fare la spesa in piazza, non uscivano se non per andare a messa. Partorivano nella stanza da letto tra il vapore dell’acqua calda preparata da una vicina e soltanto in caso di estremo pericolo venivano portate all’ospedale della città. Le ragazze imparavano a cucire da una “mastra” che contava diverse allieve, ma erano le madri o le nonne a insegnare il ricamo in vista del corredo quando finalmente il fidanzato della mezzaporta si fosse deciso a chiederne la mano. Le nozze si celebravano nella parrocchia e i ricevimenti, come si chiamavano le feste di nozze, si facevano in casa disponendo su due o tre file di sedie lungo le pareti della stanza gli invitati che prendevano educatamente i dolci da un vassoio portato in giro dal un parente che concludeva la distribuzione con un’abbondante quantità di ceci (calia) abbrustoliti che in un padellone pieno di sabbia sapeva ben preparare una “caliara” di professione da cui traeva il suo nomignolo.
Con l’arrivo dei soldati americani il paese aveva conosciuto l’uso del DDT che chiamavano “Flit” dalla marca della ditta che produceva le pompe per spargerlo nella lotta senza quartiere alle mosche che si posavano su tutto e dalle abitazioni venivano allontanate dalle tende a rete fatte in casa o acquistate nei paesi dei pescatori.
Visitato in sogno, doveva essere un paese come un altro del secondo dopoguerra nella Sicilia governata da un solo partito politico che però lentamente si avviava ad assaporare i frutti del progresso con l’arrivo del televisore che il venditore di elettrodomestici la sera metteva su un trabiccolo davanti al negozio a disposizione di una folla di appassionati spettatori.
Rosario Daidone
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