LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA
di Sergio Benvenuto
“In segreto la filosofia ha sempre nutrito un desiderio struggente di dimostrare la propria efficienza nella polis, di provare il proprio «realismo».”
Hans Blumenberg[1]
1. Un senso politico della filosofia?
Nel 1939, quando Wittgenstein insegnava a Cambridge in Inghilterra, aveva un giovane allievo e amico americano, Norman Malcolm. Scrive Malcolm:
“Un giorno, mentre passeggiavamo lungo il fiume, leggemmo a un’edicola di giornali la notizia che il governo tedesco accusava quello inglese di aver istigato un recente attentato contro Hitler. Era l’autunno del 1939. Wittgenstein disse: “Non mi stupirei affatto se fosse vero.” Ribattei affermando di non poter credere che gli alti esponenti del governo britannico potessero fare una cosa simile; intendevo dire che gli inglesi erano troppo civili e leali per mene così occulte. E soggiunsi che un simile gesto era incompatibile con il ‘carattere nazionale’ inglese. La mia osservazione mandò Wittgenstein in tutte le furie; la giudicò un’enorme stupidaggine e anche una prova che io non imparavo nulla dal suo insegnamento filosofico. Disse queste cose in tono assai veemente, e quando mi rifiutai di ammettere la stupidità della mia osservazione non volle più rivolgermi la parola e subito dopo ci separammo.”[2]
In seguito Wittgenstein e Malcolm si riconciliarono, ma Wittgenstein tornò altre volte su quell’episodio in apparenza marginale. Ancora nel novembre del 1944, Ludwig scriveva a Malcolm:
“Un giorno, mentre passeggiavamo insieme lungo il fiume verso il ponte ferroviario, avemmo un’accalorata discussione, durante la quale Lei disse qualcosa a proposito del ‘carattere nazionale’, qualcosa che mi colpì per la sua superficialità. Pensai allora: a che vale studiare filosofia se serve soltanto a consentirci di parlare con qualche plausibilità di astrusi problemi di logica, ecc., e se non migliora il nostro modo di pensare ai problemi importanti della vita quotidiana, se non ci rende più coscienziosi di un qualsiasi…. giornalista nell’impiego delle frasi pericolose come quelle di cui si avvale la gente per i suoi scopi. Certo, so che è difficile pensare bene intorno alla ‘certezza’, alla ‘probabilità’, alla ‘percezione’, e così via. Ma è ancor più difficile pensare, o tentar di pensare, con vera onestà alla nostra vita e a quella degli altri. E il guaio è che il pensare a queste cose non è appassionante, ma spesso senz’altro brutto [nasty]. E quando è brutto, allora è estremamente importante.”
Non ho mai relegato questo litigio tra Wittgenstein e il suo amico a esempio dell’eccentricità e spigolosità dell’uomo Wittgenstein. Mi ha colpito anche l’interesse di entrambi a situare topograficamente l’episodio, “mentre passeggiavamo insieme lungo il fiume verso il ponte ferroviario”… come se il dove e il quando il diverbio fosse avvenuto fosse quasi una chiave per capirlo, un po’ come accade nel teatro Noh giapponese, dove la descrizione del luogo sembra svelare il senso di ciò che accade.
La reazione di Wittgenstein colpisce perché nelle sue lezioni a Cambridge e altrove egli non ha mai trattato temi di filosofia politica, o di politica in genere, bensì sempre e solo “astrusi problemi di logica, ecc.” come lui stesso scrive. Eppure, l’aver detto un’ingenuità politica – nell’autunno 1939 la guerra tra Gran Bretagna e Germania era già scoppiata – appariva a Wittgenstein un fallimento del proprio insegnamento. Wittgenstein non lo ha mai scritto (pubblicato), ma lo ha detto in questo caso a Malcolm (e ad altri in altre occasioni), che il senso del suo insegnamento, in apparenza puramente logico, era etico-politico[3]. Diciamo che il senso politico della sua filosofia era del tutto confidenziale.
Lo aveva già detto parlando del Tractatus molti anni prima. Scriveva a quello che sarebbe stato l’editore del Tractatus, Ludwig von Ficker (ottobre 1919):
«Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Questa parte non scritta è precisamente l’etico, che il Tractatus delimita per così dire dall’interno; e sono convinto che l’etico è da limitare rigorosamente solo in questo modo» [4]
Nel Tractatus Wittgenstein parla poco dell’etica, per cui anche qui ci sorprende questa quasi-confessione al direttore della rivista che lo editerà: che il senso importante del proprio testo è la parte non scritta ma che attraverso lo scritto si mostra, il suo senso etico (e per lui anche estetico). Da qui la domanda che gli interpreti si sono spesso posti: come dire questo senso etico che secondo Wittgenstein non può essere detto? (Da qui il paradosso degli esegeti: meglio cercano di dire l’etica di Wittgenstein, peggio la capiscono.) E nella sua sfuriata con il giovane Norman egli afferma qualcosa di molto simile: il senso vero del mio insegnamento, che vien detto in modo puramente logico, è etico-politico.
Questo senso etico-politico sembrerebbe implicare l’accettazione di quella che viene chiamata Realpolitik: la politica, in quel caso di guerra, la distruzione di interi paesi, non è cosa che possa essere misurata in termini di lealtà come in uno sport. Chi insorge contro la Realpolitik non avrà mai alcun successo politico, direi anzi che è un pericolo pubblico, perché le buone cause ideali necessitano qualcosa di disgustoso – di nasty dice Wittgenstein – che ogni edulcorazione ideologica (del tipo “popoli nobili” versus “popoli ignobili”, o “cause giuste” versus “cause sbagliate”) profondamente mistifica. Wittgenstein, che aveva partecipato alla prima guerra mondiale al fronte, ed era stato fatto prigioniero e umiliato dagli italiani, sapeva bene che nella guerra non c’è nulla di consolatorio.
2. Il filosofo goffo
In realtà, qui Wittgenstein si rifà a una nozione molto antica del compito filosofico. Sin dagli inizi, infatti, i filosofi hanno opposto la doxa (l’opinione, ciò che appare ai più, il modo di pensare della gente, ciò che sembra vero) all’episthéme, a cui dovrebbe essere dedito il filosofo. Oggi si tende a tradurre ἐπιστήμη con “scienza” o “conoscenza”, ma in realtà il termine viene da ἐπίσταμαι, il sapere per esperienza propria, in modo diretto. Da ἵστημι, costruire, stare in piedi. Potremmo dire che episthéme è un costruire da sé, un sapere che noi stessi abbiamo edificato – direi a mani nude, con le unghie e con i denti. Era cosa diversa dalla γνώσις (gnosis), dal conoscere propriamente detto, e da οἶδα (oìda), il conoscere in modo mediato, per sentito dire, per averlo imparato. La filosofia non mira alla gnosi, ma cerca di situarsi nel solco dell’episthéme, del sapere a mani nude. Perché, come regola del calcio è che non si possa tirare la palla con le mani (a parte Maradona), regola del gioco filosofico è che non ci si debba appellare all’autorità del sapere circolante, all’oìda. L’epoché dei saperi mondani è l’auto-limitazione regolativa del gioco filosofico: è volercela fare senza sapere.
Sin dall’inizio il filosofo si distingue dal sophos (sapiente), da colui che sa (dallo scienziato, dallo specialista, diremmo oggi) e si afferma come phrosimos. Questo termine viene da phronesis, che oggi traduciamo con “saggezza”, e che i latini tradussero con prudentia. Più che alla saggezza, il filosofo mira a qualcosa che chiamerei bio-prudenza, che si manifesta anche, subito, come socio-prudenza.
Il disprezzo che molti filosofi antichi – a cominciare da Platone – nutrivano per la democrazia era connesso al fatto che in essa dominano le δόξαι, le opinioni, oggi diremmo: i sondaggi demoscopici, le leggende metropolitane, le credenze senza fondamento, le fake news, le frasi fatte a cui crede la massa. Mentre solo pochi (matematici, filosofi) avevano una vera episthéme, ovvero una conoscenza di prima mano, personalmente elaborata. Una prudenza solitaria, diremmo, anche se oggi si raccomanda come vero sapere solo quello che si produce in team.
Per questa ragione alcuni danno a episthéme il senso di sapersi orientare, di saper apprendere dal mondo facendo a meno delle coordinate della massa. È il saper orientarsi senza prendere per verità quel che dicono gli altri, fossero anche “i classici”, “i maestri”.
Ora, è interessante che sin dai primordi i profani abbiano messo alla berlina i filosofi proprio per il loro non sapersi orientare nelle cose concrete del mondo. Nel corso dei secoli, si è sempre rinfacciata ai filosofi una certa ingenuità e una certa goffaggine. Ovvero, due modi di disorientamento.
A cominciare con la mitica goffaggine di Talete, che guardando il cielo cade in un pozzo, e viene deriso dalla servetta tracia[5]. (Da notare che, secondo Platone[6], la servetta è “spiritosa e graziosa”. Mi sono chiesto perché si tratti di una giovane servetta, e non di una vecchia scafata e sardonica, per esempio, o non di un contadino dalle mani callose. Evidentemente una giovane serva tracia era all’epoca il livello sociale più basso che si potesse concepire, schiavi a parte, a Mileto, in stridente opposizione alla grandezza di Talete, l’uomo che aveva previsto l’eclisse solare, uno dei grandi Sapienti dell’epoca… Colui che è più in alto, Talete, si trova più in basso, e la donna più in basso socialmente lo sovrasta fisicamente… L’antitesi si rovescia come in un Carnevale parabolico. Ma il descrivere la ragazza anche come spiritosa e graziosa introduce una nota erotica che non va scartata: invece di guardare la bella, Talete guarda il cielo, e finisce…. in un pozzo, che irraggia connotazioni.)
Il filosofo si orienta nei cieli – ovvero, nel mondo dei concetti – ma cade in molti fossi direi “politici” della propria epoca. La lista degli “infortuni” – come si dice oggi eufemisticamente – dei filosofi maggiori sarebbe molto lunga. Accenneremo ad alcune “cadute nel fosso”, fermo restando che il fosso è tale per noi, uomini e donne del XXI° secolo, ma che le cose potranno essere viste diversamente in altre epoche.
L’ingenuità del filosofo è evocata anche attraverso la dabbenaggine di Tommaso d’Aquino, vittima del bullismo dei suoi confratelli domenicani. Si dice che una volta i confratelli lo chiamarono “Vedi, c’è un asino che vola!”, e l’idiot du couvent si distolse dai suoi studi severi per accorrere. Di fronte alle risate dei confratelli, disse: ”Preferisco credere a un asino che vola piuttosto che credere che dei monaci raccontino delle menzogne…”. Una risposta che, in fondo, aggravava la sua ingenuità.
3. Infortuni
Platone credeva lui stesso al suo sogno di una città retta da filosofi-re, da “epistemici”, per cui andò a vendere la sua idea alle persone peggiori che potesse scegliere all’epoca, al tiranno Dionigi il Vecchio di Siracusa, e poi – perseverare diabolicum – al figlio Dionigi il Giovane (lui, Platone, che aveva lanciato condanne senza appello contro i tiranni!). Un completo fallimento. Quanto ad Aristotele, nel Politico sembrava preferire un sistema misto di oligarchia e di democrazia, e raccolse enciclopedicamente gran parte delle Costituzioni greche dell’epoca. Come spiegare allora il fatto che accettasse di fare da tutore al figlio di Filippo il Macedone, del re che avrebbe soppresso in pratica la libertà delle città greche?
Quanto a Seneca, ci colpisce la discrasia tra il suo stoicismo che puntava a una autarkeìa, a un’indipendenza individuale lontana dai furori delle ambizioni politiche, da una parte, e una vita tutta gettata negli intrighi di Palazzo dall’altra, che gli procurarono due condanne a morte, di cui la seconda fu eseguita mediante suicidio in more socratico.
Quanto a Hobbes, usò il suo genio filosofico per farsi teorico dell’assolutismo monarchico, che era la concezione politica predominante all’epoca, ma non certo nella nostra. Quanto ad Hegel, cosa dobbiamo pensare oggi del fatto che nel 1820, in Lineamenti di filosofia del diritto, condanni l’associazione degli intellettuali prussiani perseguitati dal regime monarchico, associazione di cui aveva sempre condiviso le idealità? Divenuto intellettuale organico al regime prussiano, rettore dell’università di Berlino, nel 1830 condanna duramente le rivoluzioni liberali in Francia e in Belgio. Nel 1831 esce sulla Gazzetta ufficiale dello Stato prussiano l’ultimo scritto di Hegel in cui condanna l’estensione del suffragio elettorale e si dichiara a favore del riconoscimento degli ordini sociali.
Per non parlare di Schopenhauer, reazionario incallito.
Venendo più vicino a noi, tutti sanno dell’adesione, occasionale o sistematica, di molti dei maggiori pensatori del secolo scorso al fascismo e al nazismo. Oltre ad Heidegger, il maggiore filosofo teoretico italiano del XX° secolo, Giovanni Gentile, fu organico al regime fascista, di cui fu ministro, e rimasto fascista fino alla fine. E cosa dire del ruolo importante svolto nel costituirsi della Weltanschauung nazista da pensatori come Carl Schmitt e Arnold Gehlen, per non parlare di Ernst Jünger? (Ed è significativo, credo, che alcuni di questi filosofi personalmente compromessi con il nazi-fascismo siano diventati autori di riferimento della sinistra radicale.) E cosa dovremmo dire della visione politica di uno dei filosofi in assoluto più influenti nel XX° secolo come Gottlob Frege, nazionalista, guerrafondaio, proto-fascista?
Ma anche i filosofi che hanno optato per la parte opposta, in particolare per il marxismo, hanno molto di cui farsi perdonare.
Il ruolo di György Lukács nella storia del comunismo, e in particolare nella sua collaborazione col regime totalitario comunista in Ungheria dal 1945 in poi, appare più che mai cupo. Non ha mai condannato lo stalinismo (anche se ne fu per un certo tempo vittima), e ha contribuito efficacemente all’eliminazione della cultura non-marxista nell’Ungheria comunista. Tra il 1946 e il 1953, Lukács partecipò all’incarcerazione di molti intellettuali dissidenti, costretti a lavori servili o manuali. Di volta in volta fu vittima delle purghe, ed epuratore lui stesso, il suo ruolo nel comunismo è isomorfo a quello di Seneca nel sistema del sanguinario potere imperiale romano: di volta in volta carnefice e vittima.
Che dire del sostanziale appoggio che per decenni Sartre dette al regime comunista staliniano e post-staliniano (andava spessissimo in Unione Sovietica, anche perché aveva colà un’amante) come “compagno di strada”, per poi, a partire dal 1968, farsi anfitrione del maoismo più becero? E colpe simili si potrebbero imputare ad Althusser, prima sostenitore della linea stalinista del partito comunista francese, e anche lui ammiratore della Rivoluzione Culturale di Mao Tze-Dong. Ogni volta che Althusser slitta dalla filosofia ad analisi politiche concrete nel mondo attuale, ci cadono le braccia per l’ingenuità e la banalità di quelle analisi. Sembra che la montagna della filosofia politica generi topolini di superficialità.
3. Condanne mancate
Con questa lista aneddotica sulle cadute politiche dei filosofi non volevo affatto insinuare che i filosofi tante volte hanno compiuto le scelte sbagliate, mentre invece tanta gente comune avrebbe fatto le scelte giuste! Del resto, se andassimo a vedere le scelte etico-politiche di artisti, scrittori, drammaturghi, musicisti, ecc., ci troveremmo di fronte a preferenze non meno repellenti di quelle di tanti filosofi. Le masse compiono gli stessi misfatti, gli stessi errori e orrori, credono più o meno nelle stesse stupidaggini, degli intellettuali (come li chiamiamo oggi). Nel Settecento illuminista si parlava di parti des philosophes, come se i filosofi fossero tutti di una stessa corrente di pensiero. Ma questo partito dei filosofi non è mai esistito, perché di fatto i filosofi si sono divisi più o meno esattamente come la gente comune, quando si sono degnati di prendere posizioni politiche. Molti pensano che i filosofi globalmente siano migliori della gente comune, molti altri pensano che i filosofi siano peggiori della gente comune, ma la cosa davvero triste è che, di fatto, essi non sono né peggiori né migliori della gente comune. Ne sono il riflesso fosforescente.
E come tanta gente comune, anche i maggiori filosofi non hanno visto, di solito, quello che per noi moderni, col senno di poi, erano i veri problemi della loro epoca, e le cose da denunciare della loro epoca.
Nessun filosofo antico, ad esempio, scrisse davvero contro la schiavitù, né contro l’assoggettamento delle donne da parte degli uomini. Anzi, Aristotele, come è noto, fornì un avallo filosofico di entrambe[7]. Né Cicerone né Seneca né gli altri filosofi latini, per esempio, hanno mai speso una parola contro qualcosa che a noi fa orrore (e quindi ci affascina), i giochi gladiatori. Anche Marc’Aurelio andava ad assistervi, per far contenta la plebe romana (del resto, a differenza di suo figlio e successore Commodo, Marc’Aurelio fu un imperatore quanto mai bellicoso, non si risparmiò nessuna guerra). Chi di loro ha scritto un libello contro il supplizio della crocifissione, per esempio?
E per tutto il Medio Evo, è possibile incontrare un solo filosofo europeo che abbia messo in dubbio la fede cristiana, o che semplicemente abbia condannato le Crociate? L’averroismo arabo, da questo punto di vista, era più “moderno” delle grandi filosofie cristiane. Certo non tutti oggi sono convinti che l’ateismo sia un deciso progresso, ma viviamo nell’epoca successiva alla Morte di Dio; forse ci sono stati più atei convinti tra i contadini medievali che tra i filosofi. È vero che alcuni, come Montaigne ed Etienne de la Boétie, capirono molte cose, ma da quanti filosofi eminenti le loro intuizioni eccentriche furono riprese? Quanti, prima di Marx, sostennero che l’esistenza di classi sociali miserabili e oppresse fosse un problema che fosse degno per i filosofi pensare?
Quanti filosofi hanno davvero aiutato i loro contemporanei a capire le cose molto prima che diventassero evidenti, in modo da risparmiar loro errori, rimorsi e sangue? Nel 1989, quando il muro di Berlino è crollato, è stato facile, troppo facile, per tanti intellettuali predicare la morte del comunismo, e magari convertirsi frettolosamente al liberalismo, riverniciando il loro studio. Ma quanti di loro profetizzarono questa morte nel 1961, quando il muro di Berlino venne costruito? Era allora che dovevano capire che il comunismo, proprio costruendo quel muro, aveva ormai perso la guerra, anche se ancora vinceva le battaglie… Al contrario, negli anni 1960 la cultura pro-comunista e pro-sovietica non fu mai così fiorente nelle università e nei cafés intellettuali del Quartier Latin, della Ku’damm di Berlino Ovest e da Rosati a piazza del Popolo a Roma.
Talvolta mi diverto a cercare di indovinare quali temi i posteri, tra qualche secolo, si meraviglieranno che nemmeno i più dotti tra noi oggi cercano di problematizzare. Cerco di immaginare i valori dei nostri posteri. Per esempio, credo che prevarrà una forma di vegetarianismo. E tutti si chiederanno: “come mai i maggiori pensatori del XX° e XXI° secolo non si sono mai posti il problema dell’orrore carnivoro?” In questo senso un precursore dell’animalismo futuro potrebbe apparire Derrida[8], anche se mangiava pure lui carne.
Le idee, le concezioni politiche, sono strumenti fondamentali per capire il mondo in cui si vive. Ma sono anche un modo per accecarci completamente di fronte all’evidenza. Molti intellettuali di sinistra andarono in Cambogia tra il 1975 e il 1979, quando il partito comunista di Kampuchea e Pol Pot dominavano quel paese. Oggi sappiamo di quale atroce genocidio quel regime fu capace (basti pensare che venivano perseguitate tutte le persone che portavano occhiali, perché erano distintivi di “intellettuale”, una figura considerata contro-rivoluzionaria)[9]. Ebbene, questi intellettuali non si accorsero di niente… Non se ne accorse nemmeno Tiziano Terzani, pur espertissimo dell’Asia. Anzi, per lo più acclamavano “le grandi realizzazioni” del regime cambogiano. E del resto, finita la guerra, Heidegger o Gehlen hanno mai condannato l’Olocausto? Non mi risulta.
Insomma, la pretesa, che viene da sinistra, secondo cui gli intellettuali – e quei super-intellettuali che sarebbero i filosofi – capirebbero meglio il mondo, in particolare quello sociale, è stata clamorosamente smentita dalla storia. Nell’XI tesi su Feuerbach Marx scriveva che i filosofi fino ad allora avevano interpretato il mondo (aggiungendo che ora bisognava solo cambiarlo), lasciando intendere che dopo tutto le loro interpretazioni fossero giuste: ma abbiamo visto che questo raramente si è dato.
Si dirà: altri intellettuali videro giusto. Ma chi (come Popper e Aron, Silone e Gide, Camus e Dewey) si è trovato dalla parte giusta – ovvero dalla parte vincente – vi si è trovato per le ragioni giuste? Molti intellettuali dell’ultimo secolo hanno fatto le analisi giuste ma ne hanno tratto conclusioni sbagliate, altri hanno fatto le scelte giuste ma sulla base, spesso, di analisi sbagliate.
Nel nostro secolo non c’è stata utopia improbabile, conformismo cinico, tirannello megalomane, riforma spietata e brutale, che non abbia trovato i suoi filosofici cantori, i suoi brillanti intellettuali di puntello, e come Muse o tribuni eminenti scrittori, artisti, pensatori o saggisti. Sono convinto che spunterà anche qualche grande intellettuale trumpista (Clint Eastwood è uno di essi). Il secolo scorso ha tolto agli intellettuali ogni appiglio per l’orgoglio corporativo – ma non è che nei secoli precedenti fosse andata poi tanto meglio. Non voglio fare qui demagogia populista, perché ho già detto che non credo affatto nella bontà o saggezza del “popolo”. I popoli sono formati da una maggioranza di ignoranti, o stupidi, o malvagi, o tutte queste cose insieme. Non sono mai stato “amico del popolo” come Jean-Paul Marat. Ma l’intellighentzia non è migliore di quel popolo che essa spesso disprezza.
Su tutte le grandi questioni politiche e sociali di oggi, scienziati, artisti e professori universitari sono non meno divisi della gente comune, e soprattutto sono divisi per le stesse ragioni per cui sono divise le persone comuni. Quando ascolto parlare un intellettuale di sinistra, o di destra, o liberale, non mi pare che, dopo tutto, la sua perspicacia storico-politica sia migliore del barista di sinistra, del gommista di destra, o del bottegaio liberale.
4. Imbranatura tecnologica
Possiamo mettere tutti questi capitomboli politici dei filosofi sul conto di una certa ingenuità. Ma Talete che cade nel fosso è anche goffo. C’è della goffaggine in tanti filosofi?
Mio padre era professore di filosofia e filosofo. Quando avevo otto anni, mi portò a vedere il film Guerra e pace, trasposizione del romanzo di Tolstoj con la regia di King Vidor. Fui colpito dal fatto che Henry Fonda, interprete del protagonista Pierre (Pyotr Bezukhov), cadesse spesso per terra senza ragione evidente, e chiesi a mio padre perché. Rispose: “Perché gli intellettuali cadono spesso per terra!” Aveva assimilato il Pierre di Tolstoj a Talete. Una risposta che mi marcò. Per cui ho passato gran parte della mia vita a dimostrare a me stesso e agli altri che coltivare la filosofia non implica necessariamente goffaggine né ingenuità. Così mi sono formato in psicoanalisi, proprio per contrastare l’ingenuità del filosofo. (Uno psicoanalista per funzionare non può essere ingenuo; gli capita però spesso di essere dogmatico. Se l’ingenuità è la malattia professionale del filosofo, il dogmatismo è la malattia professionale dello psicoanalista).
Si può pensare che la goffaggine di Talete non abbia più corso oggi, in un’epoca in cui i filosofi si mimetizzano perfettamente da persone normali. Oggi i filosofi tendono a esibire il loro senso pratico, la loro averagity direi. Wittgenstein non si iscrisse a filosofia, ma ad ingegneria aeronautica – l’aereo era stato inventato giusto quell’anno[10]. Poco ci mancò che Wittgenstein entrasse nella storia dell’aeronautica. Poi Wittgenstein, improvvisandosi architetto, costruì la casa della sorella a Vienna.
Ma già Spinoza, nella città allora più ricca, colta e vibrante del mondo, Amsterdam, aveva sviluppato una tecnica delle lenti (tecnologia di punta dell’epoca) diventando il fornitore preferito di Christiaan Huyghens, il più grande fisico ottico del secolo. Si dovrebbe parlare di Spinoza come di un Bill Gates o Steeve Job dell’epoca (e dell’Olanda come della California dell’epoca). Per non parlare del genio sperimentale di Pascal. Insomma, molti filosofi avevano uno straordinario senso pratico.
Nel mondo greco-romano invece il filosofo coltivava la sua parziale estraneità rispetto al mondo della gente normale, un po’ come una forma laica di sacerdozio. Come Pierre Hadot ha mostrato[11], nel mondo antico “essere filosofi” non significava aver scritto un trattato di filosofia né aver elaborato una propria teoria: era un certo modo di vivere in società, senza separarsi da essa, ma senza aderire ai valori e alle passioni della massa. I filosofi allora andavano fieri della loro inadattabilità. A differenza dei monakoì cristiani (monakos significa solitario), che se ne andavano a vivere nel deserto e poi nei conventi, il filosofo restava in città. Il filosofo aveva una sua divisa, come oggi gli ecclesiastici e i militari: una tunica bianca, e la barba lunga. Si astenevano da attività volgari (comprese le attività sessuali, di solito), e soprattutto dovevano essere persone felici. Ammettere, per un filosofo, di essere infelice era come affermare il proprio fallimento anche teorico. Oggi non è più così, non valutiamo affatto il contenuto dell’opera di un filosofo in relazione alla sua vita privata, che talvolta è infelice e in certi casi anche catastrofica.
Eppure, una presunzione di goffaggine circonda ancora l’intellettuale, soprattutto se filosofo. Ogni tanto incontro persone (soprattutto nell’Europa dell’Est) le quali sono sinceramente stupite quando apprendono che detengo una regolare patente, che guido l’auto, e che ho guidato anche camion. “Un intellettuale che guida!” Si dà per scontato, ad esempio, che un vero intellettuale debba essere imbranato con computer ed internet, e che debba esecrare la tecnologia come disumanizzazione, un po’ come papa Gregorio XVI definiva il treno “Satana su rotaia”… Così Popper[12] lanciò una patetica campagna mediatica contro la televisione.
Sarebbe impossibile censire la valanga di saggi dotti contro il consumismo tecnologico, degli anatemi contro la Tecnica… La goffaggine dei filosofi oggi non è più tanto manuale quanto intellettuale: non consiste più nel cadere in pozzi, ma nel darsi l’aria da saggi inveendo contro la Tecnologia e una umanità che, costruendo macchine, avrebbe perso l’anima. Ritroviamo qui una ripetizione modernizzata della condanna platonica della scrittura nel Fedro. Dopo tutto, all’epoca la scrittura era un’invenzione tecnologica alquanto recente, come per noi oggi la televisione o internet. Quanto alle critiche platoniche delle tragedie, all’epoca veri e propri blockbusters in Atene, anticipano le infinite esecrazioni contro i mass media, il Kitsch popolare, “il cinema commerciale”, Hollywood…
Per Husserl il filosofo era il funzionario dell’umanità, ma talvolta questa funzione viene confusa con l’essere “contro il mondo moderno”, ovvero contro il mondo tecnologico, e allora il filosofo assomiglia di più al Policarpo di Soldati[13], l’ufficiale di scrittura che agli inizi del XX° secolo si rifiutava di usare la nuova diavoleria tecnologica: la macchina da scrivere.
L’ingenuità filosofica, quasi una malattia professionale, consiste nel credere che le questioni reali si possano e si debbano risolvere concettualmente. Dietro ogni filosofo si nasconde un manzoniano don Ferrante – e lo abbiamo rivisto di questi tempi, con filosofi che negavano l’esistenza dell’epidemia da coronavirus. Come negano tante altre evidenze, perché non sono concettualizzabili nel loro sistema di pensiero, inclusi i folli massacri di Pol Pot. E in questi negazionismi si annodano sempre goffaggine e ingenuità.
5. La filosofia non è relativista
Ma allora, se gli intellettuali sono sempre dentro il mondo, non fuori né al di sopra né al lato di esso, da dove viene la pretesa di tanti altri geni del pensiero, da Platone a Wittgenstein, di vedere etico-politicamente meglio della massa?
Per esempio, io non sono marxista e penso che anche i migliori intellettuali marxisti siano attardati storicamente, nostalgici del bel tempo filosofico che fu, che abbiano una chiave sbagliata per leggere il mondo… E so che gli intellettuali marxisti pensano di me cose altrettanto biasimevoli… Chi ha ragione? La storia darà ragione a loro o a quelli come me? Ma la storia ha essa stessa una storia, un’epoca pensa che avessero ragione gli uni, un’altra epoca pensa che avessero ragione gli altri…. Nel Seicento si poteva pensare che la critica platonica alla democrazia fosse definitiva, indiscutibile; un secolo dopo si è cominciato a pensare invece che la filosofia democratica di Rousseau fosse quella definitiva, indiscutibile. Insomma, la posizione più persuasiva, e forse più saggia, sembra quella di un tranquillo relativismo: nessuno ha né avrà la verità in tasca, tutto dipende dalle mode storiche. Come tutto ciò che culturalmente muta, anche le filosofie fluttuano come mode.
Possiamo certo dire che “la verità” – e la giustezza politica che ne sarebbe corollario – è il sapere dominante in una data epoca. In particolare, il sapere dei ceti dominanti. Eppure già Socrate cercava di fare l’inverso: decostruiva il sapere delle classi culturalmente dominanti. Mostrava ai grandi dotti dell’epoca che… in fondo non sapevano nulla. Avevano oìda, non episthéme.
La filosofia, sin dagli inizi, ha avuto questa doppia vocazione. Da una parte, fornire alle idee dominanti della propria epoca il Grund, il fondamento delle proprie credenze, della propria legittimità. Dall’altra parte, dalla maieutica socratica all’analitica wittgensteiniana fino alla decostruzione derridiana, criticare a fondo le credenze e le supposte legittimità della cultura della propria epoca. Potremmo mostrare che queste due tensioni, in apparenza opposte, sono sempre compresenti in ogni epoca, e che si combinano sempre in qualche maniera.
Quindi, rassegnarci al relativismo? Ironizzare filosoficamente sulla filosofia stessa, ridere della confutazione del relativismo di Protagora nel Teeteto di Platone[14], accettare gioiosamente il nichilismo più o meno ermeneutico, che recita: “Non ci sono verità meta-storiche, ci sono solo varie interpretazioni storiche”? La sfuriata di Wittgenstein con Malcolm andrebbe quindi derisa: nessuna filosofia ci garantisce di pensare rettamente il mondo in cui viviamo. Ogni filosofia prova a essere episthéme, ma di fatto erra, e nel doppio senso di “errare”. La filosofia non sfugge all’erranza stessa della verità.
Eppure…. un filosofo, per quanto ingenuo e goffo, non può mai essere relativista. Se lo fosse, non farebbe filosofia, nemmeno filosofia relativista; perché fare filosofia relativista è, in fondo, contraddirsi. Il relativismo non è qualcosa che si teorizza, è qualcosa che si fa: quando si è indifferenti a qualsiasi verità e valore. Ovvero, quando non si crede nella loro assolutezza. Anche se tanti filosofi, forse quasi tutti, sono caduti in tanti fossi della storia, l’ideale del filosofo continua a essere quello dell’episthéme, ovvero dell’orientarsi rettamente nel mondo. E quindi tende a una phronesis, a una prudenza di cui chi non sa pensare filosoficamente manca. Ovvero, capire il valore artistico di un’opera, militare dalla parte giusta in un conflitto, capire quali sono i problemi fondamentali che la propria epoca deve risolvere, distinguere la vera scienza da ciò che si spaccia come tale, ecc. Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità.
Il punto è che, come diceva Wittgenstein, il filosofo non sa dire veramente quello che pensa (a meno di non inventarci una psicoanalisi della filosofia…). Ovvero, dietro quel che dice occorre sempre cogliere ciò che lui o lei mostra. Forse, tutti i filosofi, al di là della molteplicità del loro dire, hanno cercato di mostrare una stessa cosa? Una cosa filosofica che appunto non si può dire, perché il dire è erranza, è sbagliarsi sempre? Ma che forse emerge proprio attraverso l’ingenuità e la goffaggine del filosofo.
Che cosa volevano mostrare i filosofi antichi quando, vestiti di una tunica bianca, affermavano sé stessi come separati in città (come si dice “separati in casa” di una coppia). Anche se il dire filosofico può aiutare certamente a mostrare qualcosa che solo la filosofia, forse, può mostrare.
Provo a dire quel che la filosofia cerca di mostrare, anche se necessariamente, così dicendo, erro. Credo che la filosofia voglia mostrare un certo rapporto al mondo che è il proprio, e che chiamerei la propria distanza celeste dal mondo di cui si occupa. La filosofia si occupa sempre del mondo, degli enti, di cose vicine, ma da un’abissale distanza, di cui la volta celeste è l’allegoria. In questo senso, il filosofo è l’inverso del mistico: mentre costui dal fondo della terra tende ai Cieli (a Dio, all’Altro assoluto), Il filosofo invece, posto sulle nuvole, guarda il mondo, sempre, anche se dall’alto. “Andare verso le cose stesse”, progetto di Husserl, è in fondo il progetto di ogni filosofia. È quella che chiamerei la fondamentale kenosis filosofica.
Il filosofo non mostra i cieli, si pone in cielo – intendendo non i cieli degli astronomi, ma i cieli come massima distanza da ciò che ci è vicino. Perciò da tempo si occupa elettivamente della mente umana, perché, come si dice, “non c’è maggiore distanza di quella tra due menti”. Il filosofo stabilisce una massima distanza da ciò di cui tratta, in questo senso “cielizza” – se mi si permette il neologismo – tutto ciò che lo circonda. Non a caso Aristofane pose Socrate sulle nuvole[15]. Ciò può dargli la nomea di un certo cinismo (nel senso anche moderno del termine), quell’apatheia che gli Antichi ricercavano come virtù, e che oggi la massa, in particolare la massa dei laureati, vuole sotterrare sotto profluvi di empatia. Il filosofo è uno che, grazie a una certa ascesi non solo intellettuale, osa confrontarsi con il nasty, come lo chiamava Wittgenstein nella lettera a Malcolm. Penso che il filosofo non solo debba essere coraggioso (in effetti, Socrate ci rimise la pelle, Platone venne venduto come schiavo nell’isola di Egina, Giordano Bruno venne bruciato vivo, Moritz Schlick fu assassinato, Gentile fu ucciso dai partigiani) ma debba avere una sorta di spietatezza professionale, senza la quale non può avere quella distanza “celeste” dal mondo di cui si occupa. Una distanza inumana, e difatti talvolta i filosofi sono considerati poco umani, potenzialmente pericolosi.
Il filosofo deve essere come il chirurgo: costui non può interessarsi alla soggettività del corpo che deve operare, non può compatirlo (ciò gli farebbe tremare la mano col bisturi), deve trattarlo da carne su cui operare… È questo il solo modo in cui il chirurgo può essere utile; e il filosofo non può essere da meno. Non può commuoversi per ciò che deve salvare, ovvero la verità. Deve rigettare programmaticamente tutte le consolazioni della doxa di cui tutti noi abbiamo bisogno per continuare a vivere…. Mi si dirà che, al contrario del chirurgo, il filosofo invece si occupa della soggettività; anzi, oggi non si occupa d’altro. Certamente, ma si occupa della soggettività come di un corpo celeste…. Non ne può parlare che apaticamente; è la regola del gioco, non può fare come Maradona. È vero che questa gelida obiettività distale oggi viene data come qualità specifica dell’uomo e della donna di scienza: se il biologo studia il sesso o la morte, non può eccitarsi sensualmente, non può angosciarsi e piangere… Ma lo scienziato procede comunque su un binario, quello del “metodo”, che anche se è più che mai oggetto di contenzioso, è comunque sempre provvisoriamente valido. Il metodo (che poi si risolve sempre nel dare, a un certo punto, la parola alla natura) può essere spesso un binario morto, comunque è un binario. Ma il filosofo non ha nemmeno quello per orientarsi nel mondo delle idee e tra le idee del mondo. Non ha binari, non ha punti fermi, non ha appigli, mentre lo scienziato li ha nel metodo sperimentale.
Ed è solo nella misura in cui il filosofo, anche senza tunica bianca, si mostra capace di quella deterritorializzazione, di quella feroce distanza da ciò che pure gli è vicinissimo, che la massa, il demos, il concittadino, può sperare da lui parole nuove, inaudite, parole vere.
Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”.
Ho sempre apprezzato i grandi filosofi che si sono occupati di tutto – da Platone a Kant, da Aristotele a Hegel – ma non perché il filosofo debba essere tuttologo. Dovendosi occupare un po’ di tutto, il filosofo non può essere esperto di nulla, il filosofo insomma è inesperto (a parte i casi in cui ha un’altra attività collaterale in cui è appunto esperto). Ma ciò che può portare di phronesis è il suo portare sui saperi uno sguardo sghembo, il suo riuscire a porsi domande impertinenti.
Note
[1] H. Blumemberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Il Mulino, Bologna 1988, p. 31.
[2] N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Bompiani, Milano 1974, p. 51.
[3] Cfr. D. Sparti, Wittgenstein politico, Feltrinelli, Milano 2000.
[4] L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, Armando, Roma 1974.
[5] Episodio sulle cui variazioni Blumenberg scrisse un libro, citato in esergo.
[6] Platone, Teeteto, 174 AB.
[7] Aristotele, Politica, Libro I, (A), 5, 1254-5.
[8] J. Derrida (2002) ”E se l’animale rispondesse (Finte e tracce)”, aut aut, 310-311, pp. 4-26. J. Derrida (2006) L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano. J. Derrida (2009) La Bestia e il Sovrano. Vol. 1, Jaca Book, Milano. J. Derrida (2010) La Bestia e il Sovrano. Vol.2, Jaca Book, Milano.
[9] Ben Kiernan stima che, su una popolazione di 7,8 milioni di cambogiani, tra 1.600.00 e 1.871.000 di persone persero la vita a seguito della politica dei Khmer Rouges, ovvero tra il 21% e il 24% della popolazione del 1975. Uno studio di Marek Sliwinski ha calcolato che poco meno di 2 milioni di cambogiani rimasero uccisi per le persecuzioni del regime.
[10] Il primo vero volo con un apparecchio più pesante dell’aria fu quello di Alberto Santos-Dumont nel 1908. Nello stesso anno Wittgenstein, dopo studi di ingegneria meccanica a Berlino, si iscrisse alla Victoria University of Manchester per un dottorato in ingegneria aeronautica. All’epoca disegnò un aereo che lui stesso guidò.
[11] P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni (2001) (con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson), Einaudi, Torino 2008. P. Hadot, a cura di Xavier Pavie, Discours et mode de vie philosophique, Les Belles Lettres, Paris 2014.
[12] K. Popper, Cattiva maestra televisione, Donzelli, Roma 1996.
[13] Policarpo, ufficiale di scrittura, è un film del 1959 diretto da Mario Soldati. Tratto dal romanzo La famiglia De’ Tappetti di Luigi Arnaldo Vassallo del 1903.
[14] Platone, Teeteto, 171 a-c.
[15] Aristofane, Le nuvole.
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