GIORGIO CAPRONI E LA SPERANZA DI UN FIORE
Che cos’è che profuma il mondo e ne è l’essenza al tempo stesso? Che cosa vive eterna ed è tanto leggera da rendere superflua ogni parola? La rosa non ha bisogno di essere colta, è infatti un profumo che vive di vita propria. La natura nel lungo stratificarsi delle stagioni, lo ha secreto per alleviare il suo patire. Rimbaud pensava la vita come una stagione all’inferno, Giorgio Caproni racconta della propria vita con l’essenzialità regalatagli dalla vecchiaia. Il poeta sempre più distante dal quotidiano e dalle sue descrizioni materiche, lontano da ogni patetica definizione, ripropone una bellezza schiva e abbandonata a sé stessa, che può esser solo vista, percepita nella sua essenza e non accolta sulle ginocchia come un figlio o un corpo umano.
In principio era l’azione, urla Faust: e l’azione è certamente la vita di una rosa, semmai, la vita stessa. Che cosa vuole dirci la natura mostrandosi per ciò che è? Che la natura è amore e nulla più. Così l’uomo coglie rose e inventa nomi, tralasciando la fantasia della bellezza in favore di un piacere terreno. Allontanandosi irrimediabilmente dall’alto equilibrio e abdicando a fascinose profondità.
È la storia di un fiore che strappato via da un giardino incantato, dall’essere distinto finisce per essere confuso, che desiderato da tutti rischia di non essere posseduto da nessuno e che non ha più alcuna forma di sapere, perché definito universalmente, finisce per perdere ogni nome. Fiore come fuoco, rubato da Prometeo agli dei, portato in terra e ridotto a trastullo umano, troppo umano. È la storia del mondo che chiuso in una definizione, perde la memoria del tempo che aveva avuto. Eppure, chiede Caproni, perché non si riesce a dare un nome all’essenza della natura? Forse perché l’essenza della natura è l’essere stesso. Natura come burrasca, che assale la nave di Alceo e fa perdere la rotta ad Odisseo.
Martin Heidegger volle scolpito sulla porta della sua casa nella Foresta Nera: “Il fulmine governa ogni cosa”. Il Fulmine che evocato in un antico frammento eracliteo, è l’essenza della natura. Verrebbe allora da chiederci tornando a Caproni, che cos’è il fulmine? Per poi affermare che il fulmine è la Rosa ed è la bellezza. Avendo detto questo si potrà pensare che la bellezza equivalga alla rosa, eppure analizzando Caproni da un punto di vista contingente e quindi parlando per azioni necessarie ed abbandonando la causa e gli effetti, potrebbe tornarci alla mente Eugenio Montale, poeta assai vicino al contingentismo di Émile Boutroux. Montale più volte afferma la necessità di un’essenza priva di nome. In “Non chiederci la parola” egli afferma qualcosa di simile: “ lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato”.
La verità è che è meglio non chiedere ai poeti l’essenza di una rosa, poiché questi possono rispondere anche negando di sapere: di sapere che la verità è un croco, è un fiore, una risata che gli dei rivolgono a Virgilio, mostrando che l’unica verità è che non c’è nessuna verità. Perciò alla domanda sull’essere-rosa Montale risponde con l’essere-l’altro. Non vi è dunque modo di rispondere alla domanda di Caproni sull’essenza della rosa se non attraverso una risposta in perpetua evoluzione, poiché Montale prova il “male di vivere” e lo ritrova proprio nella natura, “nell’incartocciarsi della foglia riarsa”, quindi foglia o rosa non sono altro che un continuo processo della natura nel divenire: “οδος εκ φυσεως εις φυσιν”, un movimento dalla natura verso la natura stessa; ed è per questo che la domanda di Caproni aspetta ma non esige una risposta. È forse insita nella Rosa stessa una pre-verità, lasciata troppo spesso sola e sconosciuta; bisogna quindi seguire la post-verità di una rosa per tornare al principio, direbbe Jean-Luc Nancy.
Se vedessimo la Rosa come qualcosa di molto vicino al tempo, un tempo che essa stessa vive in cui è destinata a finire, potremmo evocare la natura morta di Giorgio Morandi, dove il tempo trova una sua dimensione eterna, annullando sé stesso. Le forme esistono e pesano nella storia e la rosa di Caproni è una bottiglia vuota. In una natura che allontana dalla bellezza barocca ma ne tiene l’affettata ridondanza, non esiste essenza per indicare l’altro, né tantomeno per indicare lo stato. È l’essenza come oppressione ed espressione nel tempo, un Da-sein costante, un Esserci nel tempo, che ci unisce alla natura.
La rosa è simbolo ed è una costante. La catechesi cristiana arriva a chiamare Maria “Rosa Mistica”: dunque l’idea di sacro è tempo ed è mistero. La degenerazione dell’essenza come espressione di una fragilità, è invece ciò che l’uomo vede in un Cretto di Burri. La rosa di Caproni nella sua semplicità è dolore ed è rinascita, e dal mito di Adone ed Afrodite, dalle ceramiche attiche alle miniature, è arrivata a manifestarsi nell’assenza di senso o nell’assenza di forma. Un taglio su una tela (come nell’opera di Lucio Fontana) è la manifestazione visionaria della Sofferenza umana, priva di ogni artificio virtuoso e superfluo, perché la vita è fatta di fiori che cambiano e nascono con le stagioni; ed è la stessa Rosa che esiste in tutte le sue diversità.
C’è un tempo in cui la vita riesce a presentarsi per la rosa che è, e in una visione ottocentesca questo poteva esistere nell’assenza di dolore. Ecco perché non si dà nome ad una rosa: perché la rosa è “le rose” e perché le rose nel mazzolin di rose e di viole sono assenza di dolore, dunque piacere. Il piacere però solo di un sabato di festa, e lo stesso avvicinarsi al dolore, ci insegna Schopenhauer, spaventa gli uomini. La rosa è compassione, intesa come carità e virtù teologale. Ma attenzione a non confonderla con Dio direbbe il filosofo della “noluntas” perché:” se esistesse un dio, non vorrei essere quel Dio, l’infinita miseria del mondo mi strazierebbe il cuore”.
Si preferisce la via della Rosa come compassione laica, incentrata nei rapporti tra uomini, che vede la propria manifestazione nel presente, ad una Rosa che è la cristianità. Il filosofo allora è il profumo della rosa ma ben sì guarda dal definire la “rosa stessa”. C’è da dire però che Giorgio Caproni affermando il problema dell’essere (della rosa) dà una straordinaria chiave di lettura. Rosa è l’essere e l’essere è la rosa stessa. Un problema, quello del nome, radicato già nella filosofia socratica dove il dibattito sulla conoscenza e le eventuali risposte, coincidono con l’essenza stessa dell’uomo. “Nosce te ipsum”, prima di ogni cosa.
La rosa, l’uomo, il nome, la natura sono modi per intendere la vita. Quando nel trecento Dante riprende il problema della conoscenza e nei primi versi del Purgatorio afferma:“conobbi il tremolar della marina”, egli conosce in realtà solo l’immagine del movimento, perché l’azione nasconde o rende visibile solo un’ombra, un velo di Maya e la natura è conosciuta come necessità contingente orfana di ogni causa prima.
Così come per Dante il significato di una rosa espressa come movimento è conoscenza, il movimento è il manifestarsi del tempo nella natura. Le rose sono gli atomi di Democrito tanto amati da Marx e sono numeri primi. Se rosa è movimento è anche società, che tra “clinamen” e cause riformula la domanda di Caproni: “Cos’è nella sua essenza, una società?”
Per assurdo la rosa è forse l’oggetto della società, il vuoto della contesa civile. Principio e fine di guerre che pone lo Stato minimo o contrattuale e in ogni affermazione rivede un conflitto precedente. Il non saper definire la rosa rientra nel paradosso dell’asino di Buridano, che muore senza sapersi decidere. Qualcosa che pone l’uomo in uno streben (‘’tendere’’) continuo verso sé stesso, la sua rosa e la sua essenza e vieta al tempo stesso di racchiudere la bellezza in una definizione, perché la natura non è definibile e prende se vuole, la forma degli alberi. La rosa è l’anima che ha la vita in potenza.
Concludendo, una rosa è fatta di spine e le spine esistono, esistono società con più spine e società più profumate: eppure tutte vivono sotto il termine di società e condividono le conoscenze e le difficoltà nel linguaggio riflesso nelle storie di ogni nazione. Così è definito lo Stato e la natura. Tenendo presenti la difficoltà di oggettivare l’essenza, la rosa è risolta per analogia. Perché sia nella società che nella conoscenza, il limite è nella definizione. Esistono infatti spine perdute nel vento che anche in assenza di rose fanno piangere l’uomo, ponendolo in uno stato di minorità imputabile come l’illuminismo, solo a se stesso.
L’uomo si scontra con le sue rose e i suoi timori e per questo ha paura a definire ciò che non vede dunque non sa. È certo che sempre più in questa società (liquida?) buttar via la memoria e provare a dare un nuovo nome alle cose è un tema centrale e quanto mai attuale. Come auspicava Parini, torneranno a fiorire le rose, e l’uomo forse nella bellezza eterna, incausata e imperitura della natura, vedrà manifestati i suoi desideri, le sue conoscenze e non solo le sue paure. Per farlo però avrà bisogno di dare un nome a se stesso prima che alle cose e definire finalmente l’essenza candida e profumata di una rosa che nel tempo fu fresca e aulentissima ed è arrivata a noi, senza più un nome. “Rosa stat pristina nomine”.
Articolo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/giorgio-caproni-e-la-speranza-di-un-fiore/
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