27 marzo 2021

VITA E TEATRO

 


Con la speranza che il teatro torni a vivere presto, ripropongo il bel pezzo pubblicato oggi da   

CELEBRANDO LA GIORNATA MONDIALE DEL TEATRO. ALCUNE CONSIDERAZIONI TRA KLEIST E CECHOV

Photo by Liam McGarry on Unsplash

di Rossella Farnese

Istituita a Vienna nel 1961 durante il IX Congresso Mondiale dall’International Theatre Institute (I.T.I.) su proposta di Arvi Kivimaa a nome del Centro Finlandese, la Giornata Mondiale del Teatro venne celebrata per la prima volta il 27 marzo 1962 in occasione della cerimonia di inaugurazione del Teatro delle Nazioni che si svolgeva a Parigi. Il primo Messaggio fu scritto da Jean Cocteau che affermava: «il teatro richiede al pubblico una credulità quasi infantile: il pubblico migliore è ancora quello che guarda uno spettacolo di marionette».

Pietra miliare per le riflessioni dedicate alle bambole articolate è il saggio di Kleist Über das Marionetten theater (1810) che pone il motivo della colpa adamitica – l’infrazione del divieto divino da parte di Adamo ed Eva, la “caduta”, seguita al “taglio” della corda e quindi alla perdita di comunicazione tra Cielo e Terra – in relazione alla marionetta, che l’attore dovrebbe prendere a modello per la Grazia che le deriva dal fatto di mantenere senza posa un centro di gravità, nel quale per Kleist si dovrebbe identificare la vis motrix dell’attore “ideale”. La marionetta ha tre vantaggi: non spostando mai l’equilibrio dalla sua anima, la Grazia del movimento della marionetta non è artificiosa, posticcia o affettata; la marionetta è inoltre antigrave, indipendente cioè dalla forza di gravità, la marionetta può avvicinarsi al suolo sfiorandolo senza mai interrompere il flusso della sua danza elevandosi verso l’oltre, partecipando di una dimensione divina; infine la marionetta non ha coscienza, la sua Grazia resta quindi incorrotta, perché la marionetta non si guarda allo specchio non è inibita pertanto – al contrario dell’uomo cui la porta del Paradiso è stata sprangata per aver mangiato dall’albero della conoscenza – dalla ragione. Se le considerazioni di Cocteau vengono fatte dalla e per la prospettiva del pubblico, quelle di Kleist si collocano invece sulla parte opposta, quella del palcoscenico, di quel tipo di palcoscenico che Rainer Maria Rilke – attento lettore di Maeterlinck, che rifiutando la concezione naturalistica di attore proponeva di sostituirlo con ombre dal valore metaforico e non letterale, cambiando così lo statuto dei personaggi che agirebbero guidati da un destino superiore – nelle sue considerazioni sul teatro definirà il “palcoscenico del cuore”.

Facendo un passo indietro, il termine “marionetta” è molto versatile, l’etimologia consente di individuare essenzialmente due tipologie di declinazione: la prima appartiene a una sfera bassa e volgare, si sovrappone al termine “burattino”, la seconda al contrario si realizza in una sfera sublime. Il “Burattin” era il secondo Zanni della Commedia dell’Arte così chiamato peri suoi atti scomposti come un piccolo “buratto” (setaccio per la farina): un’origine legata alla terra. “Marionetta” potrebbe derivare a sua volta dalle “marionette”, figurine vendute a Venezia dagli ambulanti in occasione della Festa delle Marie oppure dall’antico francese “maryonette” diminutivo di Marion, diminutivo della Vergine Maria: un’origine legata all’ambito religioso. La marionetta è quindi sia portatrice di valori terrestri, subumani, inferi, emblema della meccanizzazione, della mancanza di autonomia dell’uomo sia assume la funzione di simbolo, nel senso più proprio del termine (dal greco sùn + bàllo = collegare), mediante il filo che le consente di abbandonare la materialità, oscillando tra la pattumiera e l’eternità.

Il saggio di Kleist, ripreso ad esempio nel 1814 da Hoffman in Le curiose pene di un capocomico, ponendo una netta frattura rispetto ai primattori ottocenteschi e alla drammaturgia fin de siècle, prefigura anche due linee: da un lato la marionetta diventa una metafora che rinvia a una riflessione extra-teatrale, dall’altro il teatro simbolista indaga la marionettizzazione dell’attore in due direzioni, escludendolo dalla scena in quanto il teatro, specchio non della realtà ma dell’anima, deve creare sinestesie e l’attore di carne è un ostacola all’evocazione di un’idea, oppure reinventarlo in termini astratti, liberato dalla gravità, smaterializzato.

Un teatro astratto, costituito dal puro movimento delle forme, del colore e della luce, dove l’inorganico viene animato dallo Spirituale che sta in fondo alle arti: è questa  la concezione estetica di teatro elaborata da Kandisky. La materialità della scena e i fondamenti logocentrici del teatro dove predominano parola e psicologia sono rifiutate anche da Antonin Artaud che, in Le théâtre et son double (1938), scopre nello spettacolo orientale, ad esempio nel teatro balinese, una possibilità opposta a quella diffusa sulle scene europee in quanto incentrato su un’idea fisica e non verbale di teatro, compreso quindi nei limiti di tutto ciò che può avvenire sul palcoscenico, indipendentemente dal testo scritto.

E così pure Pirandello, di cui uno dei caposaldi di poetica è la dicotomia tra il flusso della vita e la fissità delle forme, sia nel metateatrale Sei personaggi in cerca d’autore (1921) sia nei Giganti della montagna (1936), auspica un teatro mentale, senza compromessi con la fisicità, senza scarto tra statuto ideale del personaggio e sua incarnazione sul palcoscenico, dove i doppi degli attori incarnano i fantasmi usciti direttamente dalla sfera dell’arte, unendo la dimensione immateriale alla loro essenza di presenze sceniche.

Tali considerazioni pongono le basi per riflettere su quel «dirottamento etimologico» del termine “teatro” nella cultura occidentale, di cui già nel 1976 parlava Umberto Artioli.

L’imperialismo della parola è un a priori tutto occidentale, il visivo – cui è al contrario collegato etimologicamente il termine “teatro” (dal greco theàomai = guardare) – è considerato effimero. Ma il teatro vive di effimero e anzi è esso stesso effimero nel divario tra testo scritto, stabile e permanente, e rappresentazione scenica, mutabile e irripetibile. «Fra duecentomila anni non vi sarà nulla», dice lo zio Sorin nel celeberrimo dramma in quattro atti di Anton Cechov Il gabbiano e Konstantin replica «Ci rappresentino appunto questo nulla». Scritto nel 1895 e rappresentato per la prima volta a Pietroburgo l’anno successivo con un insuccesso così clamoroso al punto che l’attrice che  impersonava Nina perse la voce e Cechov durante gli ultimi due atti abbandonò la platea e rimase dietro le quinte, Il gabbiano iniziò a incontrare il favore di pubblico e critica a partire dal 1898: la messa in scena di Stanislavsky al Teatro d’Arte di Mosca, da lui fondato l’anno prima, fu infatti un vero successo. Il gabbiano è un’opera metateatrale che, intrisa di quell’autunnale realismo intimistico, cifra inconfondibile di Cechov, riflette sul bisogno di un profondo rinnovamento della scrittura drammatica e della concezione scenica: «Eccoti il teatro. Poi la prima quinta, poi la seconda e più in là un vuoto spazio. Niente scenografia. La veduta si apre direttamente sul lago e sull’orizzonte. […] Del teatro non si può fare a meno. Sono necessarie nuove forme», dicono nel primo atto Konstantin e lo zio Sorin. Figlio di Irina, una grande attrice incapace di fare la madre e che vuole solo se stessa, Konstantin combatte contro le convenzioni teatrali ottocentesche, rappresentate dalla madre, che riproducono sulla scena la banale routine borghese dando una morale utile agli usi domestici. Interrotta bruscamente la messa in scena a causa dei ripetuti interventi sprezzanti di Irina, il medico Dorn nota invece che il ragazzo ha talento e lo esorta a continuare dichiarandosi turbato per quella rappresentazione, quasi surrealistica potremmo dire: con Il gabbiano Cechov scrive tra le righe un testo di teoria del teatro calato in un testo drammatico, l’arte non deve suscitare il riso ma il turbamento, deve esprimere un’astrazione, una rappresentazione silenziosa di moti interiori.

«Bisogna rappresentare la vita non com’è e non come deve essere, ma come ci appare nei sogni»: replica Konstantin all’amata Nina, aspirante attrice che aveva rimarcato che nella sua commedia non c’erano «figure vive». E non ci sono figure vive perché il teatro va oltre la quotidianità, porta in scena gli stati d’animo, l’azione teatrale, diventa, come dirà Maeterlink “azione di secondo grado”, il vero evento è cioè lo spazio dell’anima e non a caso, alzato il sipario non c’è nulla, solo il lago. Il lago e «tonnellate d’amore», come scriveva lo stesso Cechov in una lettera del 21 ottobre 1895 all’amico Suvorin, un amore impossibile, illusorio, lontano, chimerico, fugace, ossessivo – Semen ama Maša, che ama Konstantin, che ama Nina, che ama Trigorin, amato da Irina, amata da Dorn , amato da Polina – un amore che è nostalgia romantica e malinconico Streben, riflesso in un set bohèmien di un autunno russo fin de siècle: «Amare senza speranza, interi anni aspettare sempre qualcosa…», dice così Masa all’inizio del terzo atto. Teatro nel teatro, amore e arte, dunque questa la triade tematica del dramma di Cechov. Prima della messa in scena, Konstantin e la madre Irina citano alcuni versi dell’Amleto di Shakespeare che ricorre anch’egli proprio in quel dramma all’artificio del teatro nel teatro, inoltre Konstantin cerca di salvare la madre Irina da Trigorin così come Amleto cerca di salvare la madre Gertrude dallo zio Claudio.

L’amore è il motore del dramma come capiamo sin dal caustico scambio di battute d’apertura tra Semen e Masa: «Perché va sempre vestita di nero? È il lutto per la mia vita. Sono infelice». E poi le riflessioni sull’arte e sulla vita da artista – drammaturgo, attore, scrittore – così suggerisce il medico Dorn a Trigorin: «rappresenti soltanto ciò che è importante ed eterno […] ma se mi fosse stato concesso di provare l’impulso dello spirito che hanno di solito gli artisti durante la creazione credo che avrei disprezzato il mio involucro materiale e tutto ciò che è proprio di questo involucro per innalzarmi lontano dalla terra». E poi il titolo Il gabbiano, figura allegorica della libertà dell’artista, che ha innumerevoli punti di contatto con il celebre albatros baudelairiano e che continua a esercitare il suo fascino su scrittori e regista, quali Patrick Modiano e Marco Bellocchio ad esempio.

Il Premio Nobel per la Letteratura 2014 ha pubblicato infatti nel 2017 un testo teatrale Il nostro debutto nella vita (edito in Italia da Einaudi), i cui protagonisti sono due ventenni Jean e Dominique. L’azione si svolge quasi interamente nel camerino di un teatro, con un altoparlante che restituisce le voci fuori scena degli attori che provano. Lui vuole diventare uno scrittore e gira con il proprio manoscritto in una valigetta, lei è un’attrice che sta facendo le prove proprio de Il gabbiano di Cechov: ancora una pièce metateatrale quindi e ancora una riflessione sulla vita dell’artista e sul rapporto tra realtà e sogno, tematica ricorrente negli scritti di Modiano.

Quarant’anni prima invece, nel 1977, il regista de I pugni in tasca girava una fedele ma poco acclamata rappresentazione dell’opera di Cechov. «Bellocchio non è certo uno sconosciuto ma sul suo Gabbiano chissà perché l’attenzione della gente non si è destata», scriveva così Natalia Ginzburg su «La Stampa» il 29 novembre 1977. Come Bellocchio stesso dichiara ciò che lo ha attirato nel dramma cechoviano è stata la rabbia di Konstantin al punto che aveva pensato di interpretarlo lui stesso: «Konstantin è un parente stretto del protagonista de I pugni in tasca e appartiene ormai al mio passato. Nel Gabbiano c’è un po’ condensata la mia storia […] Sono stato Konstantin (quanto lo sono ancora?), il giovane scrittore senza fama e senza soldi che rifiuta i compromessi, e temporaneamente sono stato Trigorin (rischio sempre di diventarlo), lo scrittore di successo che non vuol saperne di rimettersi in discussione…». Un film raffinato, una rappresentazione disincantata e fredda, un ritratto psicologico di una famiglia, così come ne I pugni in tasca: se nella sua prima pellicola, controversa e intensa,  un figlio, magistralmente interpretato da Lou Castel, è ostacolato nel suo bisogno di indipendenza dalla madre cieca, ora Bellocchio rappresenta in un set bellissimo che cattura sin dalle prime inquadrature lo spettatore – un lago in campagna al crepuscolo, le luci tremule delle fiaccole, il palco improvvisato – un figlio, altrettanto magistralmente interpretato da un giovane Remo Girone, che si sente frustrato dal narcisismo della madre, un giovane artista i cui sforzi sfociano nell’umiliazione di una madre egocentrica e del suo amante.

Concludo con le parole della Ginzburg tornando alle riflessioni iniziali sul bisogno di un teatro smaterializzato ed etimologicamente visivo: «Le parole scorrono tra le persone liquide, rotte, stracciate e mai abbiamo l’impressione di assistere a una commedia. Pure di tutta al grandezza e bellezza delle parole di Cechov non una sillaba va dispersa. Ma esse non hanno qui alcuna sonorità teatrale. Solo così si poteva portare il teatro di Cechov sullo schermo, liberando le parole di ogni solennità e sonorità e stracciandole in mezzo alle immagini».

 pubblicato sabato, 27 Marzo 2021 · 

 


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