LOU REED, POETA MALEDETTO O ALCHIMISTA INTERIORE
Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo. (fonte immagine)
Quando si parla di Lou Reed, non solo uno dei cantautori più importanti ma una delle figure artistiche americane più influenti sulla cultura popolare del Novecento, il primo esercizio obbligatorio per dire qualcosa di sensato è quello di sgombrare il campo da luoghi comuni, formule critiche stantìe, etichette comode quanto fuorvianti. Come per molte divinità del pantheon rock, il fascino superficiale del suo mito ha spesso posto in secondo piano la complessità, non di rado spiazzante, della sua opera.
Basterebbe sottolineare come il cantore del “wild side”, vate dei transessuali e degli eroinomani, l’icona della trasgressione venerata dai punk come un padre spirituale, il divo androgino celebrato da David Bowie nell’inno queer Queen Bitch, la rockstar nota per la dose sparatasi in vena sul palco e per aver scritto gli inni più estremi all’autodistruzione, ebbene, proprio lui sognava di essere ricordato come “il Kurt Weill del Rock”. Come Dylan prima, ma senza la leggerezza della sua mercurialità gemellina, come Bowie dopo, ma senza il controllo programmatico delle sue dramatis personae, Lou Reed passerà buona parte della sua carriera a decostruire e parodiare, al fine di liberarsene, il suo stesso ingombrante mito. E, proprio come i succitati geni (l’uno maestro, l’altro allievo), attraverso quest’opera di demolizione non farà altro che fortificarlo.
Alla menzione del cantautore newyorchese, immediatamente sovvengono le tappe memorabili della sua carriera, ritmata da frequenti e talvolta drammatiche svolte: il miracoloso esordio con i Velvet Undeground & Nico, alla corte di Andy Warhol; la prima rinascita, dovuta alla grata devozione e al fiuto commerciale di Bowie, nell’iconico Transformers; Metal Machine Music, uno degli atti artistici più dirompenti della storia della musica popolare, concettualmente molto più vicino alla portata rivoluzionaria dell’orinatoio di Duchamp che a una mera provocazione…
Ma questo, appunto, è il Lou Reed che, bene o male, conoscono tutti: il rocker maledetto, brutalmente scontroso con i giornalisti (memorabile la sua intervista a colpi di insulti reciproci con l’amico Lester Bangs), freddo con i fan (anche se poi, in privato, si commuoveva del loro affetto) e polemico con i colleghi (di cui poi onorava la memoria, come con Frank Zappa, rivale odiato dai tempi dei Velvet ma che introdusse post-mortem, con grande rispetto, nella Rock ‘n’ Roll Hall of Fame).Oltre al velo del mito maudit, va scoperto un aspetto poco noto della sua personalità, eppure profondamente rivelatore, dove le sue irriducibili contraddizioni si conciliavano in una visione superiore: la sua incessante ricerca spirituale.
Avendo come parametro di coerenza nient’altro che il suo spirito di contraddizione, il grande cantore del vizio, noto per gli eccessi leggendari delle sue perversioni, dedicherà gli ultimi anni dell’esistenza, accanto alla compagna d’arte Laurie Anderson, al perseguire l’equilibrio interiore tramite la meditazione orientale e la pratica quotidiana del Tai Chi.
Arriverà a pubblicare nel 2007 un disco di musica meditativa, Hudson River Wind Meditation.
Tre anni prima si era esibito al Dave Letterman Showin una versione particolarmente dolce e rasserenante di Sunday Morning, accanto al suo maestro, e quasi omonimo, Ren Reed che danzava nelle forme armoniose dell’arte marziale taoista.
Vogliamo ridurre il tutto alla solita parabola del “si nasce incendiari, si muore pompieri”?
Macché, si tratta di un percorso perfettamente consapevole.
Un percorso artistico tormentato e inafferrabile, costantemente sulle montagne russe di un’ispirazione in bilico tra incubi e illuminazioni, capolavori e fallimenti, ricadute nell’eroina e resurrezioni interiori.
Esattamente, quello indicato dal sommo sapiente William Blake in uno dei suoi più celebri (e fraintesi) Proverbi Infernali: “La via dell’eccesso conduce al Palazzo della Saggezza”.
E Blake non è l’unico precedente letterario, e spirituale, della ricerca di Reed.
Come gli amati poeti maledetti francesi a cui lo aveva iniziato il geniale professore Delmore Schwartz (colui che sancì una delle più grandi verità connesse al concetto di vocazione, ovvero “nei sogni iniziano le responsabilità”), Lou Reed ha vissuto l’arte come una suprema alchimia interiore.
Se Charles Baudelaire ha dichiarato fieramente, nell’epilogo de I Fiori del Male, “Parigi, tu mi hai dato il tuo fango e io ne ho fatto oro”, Lou Reed si sarebbe potuto tranquillamente rivolgere allo stesso modo a New York. Se ne accorse Bono Vox che, con la sua usale furbizia retorica, presentò nel 2007 la cerimonia in cui Reed veniva onorato nella metropoli come eccellenza letteraria dalla Syracuse University, con le parole: “Stasera fra di noi c’è un alchimista… Lou ha trasformato l’immondizia cosmica di questa città in oro”. E come l’altro grande poeta maledetto, Arthur Rimbaud, Reed è stato un “alchimista del verbo”, giunto alle proprie “illuminazioni” dopo una lunghissima “stagione all’inferno”.
Da grande amante di Edgar Allan Poe (a cui dedicò l’ambizioso omaggio The Raven), Reed sapeva che, come la lettera rubata nel celebre racconto, il modo migliore per nascondere qualcosa è metterlo sotto gli occhi di tutti. Si tratta, non a caso, proprio di un principio esoterico: Verità segrete, esposte in evidenza recita il titolo del libro di uno studioso “conoscitore di segreti” quale Elémire Zolla. Sulla copertina del disco Magic and Loss, del 1990, infatti, compaiono espliciti simboli alchemici.
Ma, attenzione, non si tratta di un’infatuazione superficiale per l’occulto, come di moda negli ambienti dell’intellighenzia newyorchese: Reed era un intellettuale consapevole e intendeva il riferimento all’alchimia propriamente nell’accezione junghiana, come simbolo di trasformazione interiore. Il disco, infatti, è dolorosamente dedicato alla scomparsa di due amici, la drag queen Rotten Rita, protagonista della Factory, e Doc Pomus, cantautore a cui Reed si è molto ispirato.
Proprio pensando alla forza stoica con cui l’amico ha affrontato le conseguenze letali di un cancro, nella canzone Power and the Glory (densa di echi religiosi fin dal titolo), Reed scopre le carte: “Sono stato rapito da un istante più vasto/ afferrato dal caldo respiro divino (…) Ho visto un grande uomo trasformarsi in bimbo/ ridotto in polvere da un cancro/ la sua voce flebile in lotta per la vita/ con un coraggio che ben pochi hanno/ (…) e mi ha fatto pensare a “Leda e il Cigno”/ e al piombo che si trasforma in oro”. Pur consapevole che Doc Pomus non sopportava la “mystic shit”, Reed trova nel suo esemplare coraggio di fronte a una malattia devastante un profondo insegnamento spirituale.
Probabilmente non è casuale la scelta di David Lynch (altro autore esperto di meditazione e visioni mistiche, nonché esploratore del “lato oscuro” della spiritualità) di utilizzare alcuni anni dopoil classico di Doc Pomus This Magic Moment, proprio nella interpretazione di Reed, come colonna sonora della scena forse più toccante di Strade perdute.
Un film che esplora, con la potenza pittorica di una quadro di Francis Bacon, il tema del disfacimento della propria identità, in un inquietante incrocio di piani narrativi paralleli.
La canzone accompagna quasi nella sua interezza il “momento magico” in cui il protagonista del film, nella sua “seconda vita” alternativa, riconosce la donna che è sua moglie nell’altra dimensione, stavolta in una nuova, infelice incarnazione come donna oggetto di uno spietato boss mafioso. La canzone, che in un film “normale” avrebbe svolto impeccabilmente la funzione di commento romantico a un classico colpo di fulmine, nella potente immaginazione lynchiana assume un significato complesso e straziante, l’agnizione di un’epifania tra anime condannate alla sofferenza ontologica nel perpetuo ciclo di nascita e morte.
Esattamente quella da cui Doc Pomus con il suo esempio ha mostrato, a un Reed già nutrito di filosofia orientale, come emanciparsi.
Magic and Loss è incastonato, non certo fortuitamente, in una fase di morte e resurrezione nella carriera del cantautore: il progetto precedente era Songs for Drella, omaggio all’appena scomparso Warhol, composto a quattro mani con l’altra grande mente musicale dei Velvet Underground, John Cale; quello successivo sarà la reunion, emozionante quanto problematica, del gruppo. In mezzo, Reed medita sulla possibilità di una trasformazione in vita, attraverso la sublimazione del dolore, trovando una risposta da saggio orientale al male di vivere: “c’è un po’ di magia in ogni cosa/ e un po’ di perdita, per pareggiare i conti”.
Una saggezza spirituale che lo accompagnerà fino alla fine.
Non possiamo non pensare alla commovente testimonianza di Laurie Anderson all’indomani della sua scomparsa il 27 ottobre 2013: “Non ho mai visto un’espressione così piena di stupore come quella di Lou quando è morto. Con le mani stava facendo la ventunesima forma di Tai Chi, che rappresenta lo scorrere dell’acqua. Aveva gli occhi spalancati. Stavo tenendo tra le mie braccia la persona che amavo di più al mondo, e gli parlavo mentre stava morendo. Il suo cuore si è fermato. Non aveva paura. Ero riuscita ad accompagnarlo fino alla fine del mondo. La vita – così splendida, dolorosa e abbagliante – non può andare meglio di così. E la morte? Io credo che lo scopo della morte sia la liberazione dell’amore”. Ma Lou Reed in Set the Twilight Reeling,brano che celebrava il loro amore, aveva già spiegato il segreto di quel momento fatidico: “un nuovo io è nato e l’altro è morto / io accetto l’uomo nuovo/ e faccio vorticare il tramonto”.
Nessun commento:
Posta un commento