CONTRO GLI ANARCHICI. UNA STORIA ITALIANA LUNGA E ATTUALE.
di Paolo Morando
La polizia l’aveva chiamata “Operazione Renata” e in rete se trovano ampie tracce, soprattutto consultando siti di ambiente anarchico. Nel febbraio 2019 furono sette a finire in carcere, appunto sette anarchici, cinque uomini e due donne tra i 28 e i 45 anni. L’accusa mossa loro dalla Procura di Trento era pesantissima: associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, con la contestazione di una mezza dozzina di episodi, tra i quali il danneggiamento del laboratorio di matematica industriale e crittografia dell’Università di Trento, l’attentato fallito a nove veicoli della polizia locale (attraverso molotov che però non esplosero) e la collocazione di due ordigni (anche qui uno fece cilecca) nei pressi della sede della Lega ad Ala, sempre in Trentino. Alla fine di quel 2019, a dicembre, la sentenza di primo grado sconfessò l’impostazione della Procura che, se accolta, avrebbe comportato pene fino a una dozzina di anni di carcere a testa. Ci fu anche un’assoluzione, mentre le sei condanne arrivarono per aver prodotto documenti falsi (2 anni ad altrettanti imputati, una pena di poco inferiore a un terzo) e, soprattutto, per due soli degli episodi contestati: 2 anni e 6 mesi per danneggiamento e violazione della legge sulle armi a un imputato, 1 anno e 10 mesi agli ultimi due, per un unico episodio (quello alla sede della Lega). La Procura ricorse però in appello, dove il procuratore generale tornò a sostenere l’aggravante della finalità eversiva con conseguente ricalcolo delle pene e condanne complessive per circa 25 anni di carcere. La sentenza, emessa tre settimane fa, ha nuovamente sconfessato l’accusa, limitandosi a confermare il verdetto di primo grado, con solo lievi rialzi di pochi mesi di pena nei confronti di due imputati.
Senza rifare qui la storia del procedimento giudiziario, o delle numerose manifestazioni anarchiche che in Trentino per mesi l’hanno punteggiato (e con ampia copertura militante nel web), è una vicenda che dice molto dell’incrollabile vocazione italiana a dargli addosso agli anarchici: una vocazione che precede addirittura la vicenda di Piazza Fontana, di Valpreda, di Pinelli, che proprio nei giorni della prima sentenza trentina viveva il proprio cinquantesimo anniversario. La precede perché risalgono all’aprile e maggio del 1969 gli arresti di cinque anarchici, tre dei quali giovanissimi (Paolo Braschi, Angelo Della Savia, Paolo Faccioli), per le bombe milanesi del 25 aprile appunto del ’69 alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale, la prima delle quali provocò una ventina di feriti, fortunatamente lievi: la strage, dunque, sarebbe potuta avvenire diversi mesi prima del 12 dicembre. Altri tre arresti seguirono fra agosto e novembre (Tito Pulsinelli, Giuseppe Norscia, Clara Mazzanti), così come due scarcerazioni: riguardarono i primi due anarchici arrestati, Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni, una coppia di intellettuali milanesi ritenuti i vertici della cellula eversiva, che vennero poi addirittura prosciolti in istruttoria. Con la surreale conseguenza di un processo ai sei giovani rimasti in carcere, nel frattempo divenuti imputati, accusati di aver messo in piedi un’associazione sovversiva i cui presunti capi erano però già usciti dal processo. Non solo: di quei 18 episodi terroristici, avvenuti soprattutto a Milano tra il 1968 e il ’69 (ma anche a Roma, Torino, Genova, Padova, Livorno e alla base Usa di Camp Darby), ben 12 erano rubricati come stragi, benché non avessero provocato alcun ferito: il codice penale, infatti, se viene provata la volontà di uccidere prevede comunque tale reato. E con esso la pena dell’ergastolo. Curiosamente, tra quei 12, non figurava quello alla Fiera di Milano: l’unico che aveva fatto scorrere sangue. Una bomba che era stata collocata nello stand della Fiat personalmente da Franco Freda: la prima della lunga catena di terrore neofascista che avrebbe portato a Piazza Fontana.
Perché rievocare oggi questa lontana vicenda? Intanto, perché tra pochi giorni scoccherà un altro cinquantesimo anniversario: quello dell’apertura, davanti alla Corte d’assise di Milano, del processo che vide alla sbarra i sei giovani anarchici. Iniziò il 22 marzo 1971, un lunedì, e tra gli accusati (ma a piede libero, oltre che in contumacia) figuravano anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli e la moglie Sibilla Melega, per il reato di falsa testimonianza in favore di Della Savia e Faccioli (che erano con loro la sera del 25 aprile), dopo però che l’Ufficio politico della Questura di Milano le aveva provate tutte per indicarli come i “burattinai” dei giovani anarchici. Cioè i mandanti e i finanziatori degli attentati. Il vero motivo è però più immediatamente percepibile: cioè l’assoluta similitudine dei due procedimenti giudiziari, con accuse pesantissime regolarmente crollate a dibattimento. La sentenza milanese arrivò il 28 maggio, dopo oltre due mesi di udienze una più clamorosa dell’altra. Tra i testimoni sfilarono infatti un po’ tutti i protagonisti della vicenda di Piazza Fontana (oltre che della morte di Pinelli): il commissario Calabresi, il suo capo Allegra, il suo sottoposto Panessa, la vedova Pinelli, naturalmente Valpreda, addirittura Sottosanti, cioè quel “Nino il fascista” a lungo indicato come il presunto sosia di Valpreda che salì sul taxi di Rolandi per essere portato davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura quel maledetto venerdì pomeriggio. E poi la leggendaria Rosemma Zublena, la “supertestimone” che, si scoprì in aula, aveva un passato di calunniatrice seriale.
Alla fine il pubblico ministero Scopelliti, che molti anni dopo verrà ucciso dalla mafia, chiese alla Corte una raffica di assoluzioni. E le ottenne. Assolti Pulsinelli, Norscia, Mazzanti, Feltrinelli, Melega, assolti pure Della Savia e Faccioli per le bombe del 25 aprile, da cui tutto era partito, e per un’altra decina (e con loro anche Braschi). Chiese anche delle condanne, Scopelliti, e ottenne pure quelle: pene minori per Braschi, Della Savia e Faccioli, ritenuti colpevoli di due attentati il primo e quattro il secondo, il terzo invece solo di porto di esplosivo (ma nel suo caso i giudici propenderanno invece per il concorso in uno degli attentati romani). Tutte pene più che dimezzate in Appello e poi confermate in Cassazione. Al netto dell’ultimo grado di giudizio, che ancora manca, il processo trentino sembra una fotocopia di quello milanese di mezzo secolo fa. Con tutto ciò che ne ha costituito l’abbrivio, a partire dalla spettacolarizzazione degli arresti e dalla grancassa mediatica. Certo, gli anarco-insurrezionalisti dei giorni nostri ci avranno messo un po’ del loro, come peraltro i loro compagni oggi ultrasettantenni, ma il riflesso condizionato c’è tutto, temprato evidentemente da una pratica di lunga data: incriminazioni su larga scala non in grado di reggere a dibattimento. Se per insufficienze investigative o per forzature ideologiche, ecco, quello valutatelo voi.
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