LA SEDUTA SPIRITICA
Riprendiamo da https://www.minimaetmoralia.it/ , un estratto dal libro di Antonio Iovane La seduta spiritica, uscito per minimum fax.
di Antonio Iovane
Le cose sono quasi sempre semplici, pensa Leonardo Sciascia, mentre quel 10 giugno 1981 un futuro presidente del Consiglio e della Commissione europea sta raccontando, a lui e ad altri onorevoli deputati, di una seduta spiritica alla quale ha partecipato insieme a un gruppo di amici democristiani a pochi giorni dal rapimento Moro.
«Vi erano delle lettere su un foglio», sta spiegando Romano Prodi, «e il piattino, muovendosi, formava le parole e indicava sì o no». Gli amici democristiani che si riuniscono per comunicare con l’aldilà. La morte di un notabile. Sciascia aveva già raccontato tutto in un suo romanzo: Todo modo.
Lo scrittore fa parte della Commissione Moro che ha il compito di ricostruire la storia del rapimento e della morte del leader democristiano. Curiosa la vita, era stato proprio Aldo Moro a determinare le scelte di Sciascia degli ultimi anni: l’addio al Pci, la candidatura alla Camera, la Commissione, il pamphlet dal titolo L’affaire Moro:
Posso dire che il caso Moro ha segnato la mia vita. Mi ha portato in parlamento, e cioè a un’attività che è una continua violenza su me stesso e che mi distoglie dal modo di vita che mi ero costruito e in cui pensavo di poter compiere, negli anni che mi restano, quelle due o tre cose (libri, si capisce) da sempre vagheggiate.
Gli viene da sorridere, nella sua testa corregge il titolo del suo romanzo: da Todo modo a Todo Moro. Così è la sua vita, da un po’. E adesso che era nel Palazzo non poteva fare altro che ascoltare questo professore bolognese, quarantun anni, gli occhi rinserrati dietro occhiali dalla montatura marrone e stabili sulle gote pasciute, i capelli corti e neri con il vezzo di un ciuffo, mentre racconta di spiriti che suggeriscono risposte dall’aldilà.
Sciascia scuote la testa. Stiamo davvero parlando di questo? Di fantasmi? Non può crederlo. «Le domande», sta rispondendo Prodi, «erano: dov’è? Perché? Moro è vivo o morto? Del resto altre persone che hanno fatto altre volte il “piattino” sanno di che cosa si tratta e possono darle spiegazioni più esaurienti». Sciascia si liscia i capelli sulla testa, avrebbe desiderio di una sigaretta, ma non può. Che garbuglio, pensa. Ma come ci è arrivato, lì, nel Palazzo? Quando è iniziato tutto questo? Forse quando Eugenio Montale aveva risposto di no.
Nel ’77, durante il processo di Torino alle Brigate Rosse, sedici persone chiamate come giudici popolari avevano prodotto certificati medici rinunciando all’incarico. Per paura. Perché le BR uccidevano i «collaborazionisti del regime», giudici o avvocati che fossero. In quell’occasione Giulio Nascimbeni del Corriere della Sera intervista Eugenio Montale.
«E lei farebbe il giudice popolare?» «Credo di no. Sono un uomo come gli altri», risponde il Premio Nobel, «e avrei paura come gli altri. Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe».
Quella risposta, allo scrittore Italo Calvino, non va giù. Così interviene anche lui sul Corriere della Sera parlando di «morale di don Abbondio».
La paura non è più un dispositivo naturale per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, ma una causa di pericoli maggiori per sé e per gli altri. La sola paura salutare è la paura di aver paura che riesce a ridare coraggio anche a chi l’ha perduto. Lo Stato oggi consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono. Lo Stato siamo noi.
E a questo punto si fa vivo lo scrittore Leonardo Sciascia. Anche lui prende carta e penna e sullo stesso quotidiano si schiera con Montale:
Come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano, ancor meno capisco che io, proprio io, fossi chiamato a fare da cariatide a questo crollo o disfacimento, di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile.
Insomma, nessun supporto al Potere. E in fondo, anche nel suo Contesto, aveva scritto che «occorre liberare questo Stato da coloro che lo detengono». Niente di nuovo. Il titolista, però, semplifica. Il pezzo esce col titolo: «Né con lo Stato, né con le Brigate Rosse». È un’Apocalisse di critiche e polemiche. Sciascia subisce attacchi da tutti e anche dal Pci, con in testa Giorgio Amendola; il poeta Edoardo Sanguineti gli dedica dei versi facendo riferimento alla sua infatuazione per i nouveaux philosophes francesi:
sei un vecchio filosofo nuovo, tu con i tuoi anni,
con la tua esperienza, con la tua tanta coscienza:
e allora, caro Sciascia, passo
e chiudo
Quando Sciascia termina un libro, la prima lettrice è sua moglie. Poi viene Italo Calvino. E ora anche Calvino, che fino a poco tempo prima gli diceva che nessuno, prima di lui, era stato in grado di scrivere cos’era l’Italia democristiana, proprio Calvino lo critica pubblicamente:
Sbaglia di grosso Leonardo Sciascia a credere al crollo o disfacimento o suicidio di un sistema di potere lasciato a se stesso. Se ciò avvenisse vorrebbe dire soltanto la creazione automatica di una versione peggiorata dello stesso potere, con le stesse storture, se queste storture non è la società stessa a eliminarle, una a una.
Ma Sciascia non è uno che se ne sta zitto: s’accapiglia, rilancia, non si tira mai indietro, e su quel titolo precisa:
Io non ho mai formulato questo slogan. Pago le tasse allo Stato italiano, non le pago, né voglio pagarle, alle BR.
Tenta di spiegare che non ce l’ha con lo Stato, ma con questo Stato. Sottigliezze che non fanno lo stesso rumore di quel titolo provocatorio. Sì, Sciascia è l’uomo delle invettive, della parola chirurgica e sincera. Quando però Moro finisce nella «prigione vera», lo scrittore tace.
Per tre giorni tace.
Lui che è sempre in prima fila, quando si tratta di partecipare, polemizzare, intervenire, tace.
Da Paese Sera gli chiedono, con una punta di ironia: «Vale la pena difenderlo, questo nostro Stato?» C’è bisogno di dare un messaggio di unità, di conciliazione, non è il tempo delle divisioni, e vorrebbero che anche Sciascia cedesse, nel momento di emergenza più grave della storia dell’Italia repubblicana. Ma lo scrittore è rimasto allergico alla parola compromesso, e non è il rapimento Moro a fargli cambiare idea. Lo spiega per l’ennesima volta:
in quanto a riconoscermi nello Stato com’è (e sarebbe più esatto dire com’era fino al rapimento dell’onorevole Moro) continuo a dire di no.
Non abdica alla sua idea, lo scrittore Sciascia. Anche se sa bene che, come accade a uno dei suoi personaggi, Candido Munafò, la ricerca della verità porta solo guai.
Passano cinquantacinque giorni dal rapimento Moro, passano i comunicati, le lettere dello statista alla famiglia, al suo partito, lettere che, dicono in molti, sono scritte sotto dettatura delle BR. Il traghetto sta conducendo Sciascia a Villa San Giovanni.
Da lì raggiungerà Milano, quindi l’amata Parigi, la città dove «si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare». È in coperta, l’odore del gasolio arriva debole. Seduto su una poltrona ha iniziato a leggere La passeggiata di Robert Walser.
Ma una voce lo distrae.
«Ecco, ora ci sarà lo sciopero, chissà dove ci lasciano».
Sciascia si volta: su un divano, vicino a lui, un uomo. Lo scrittore si alza, si avvicina:
«Scusi, perché ci sarebbe lo sciopero?»
«Hanno ammazzato Moro».
Sciascia trasale. Chiede com’è successo. L’uomo gli descrive il ritrovamento del corpo nella Renault 4, quello che il poeta Mario Luzi definirà «abbiosciato sacco di già oscura carne […] acciambellato in quella sconcia stiva».
«Dove?», chiede Sciascia.
«In via Caetani, a Roma».
L’uomo gli descrive, gesticolando, il centro di Roma: piazza Venezia, via delle Botteghe oscure, piazza del Gesù. Da una parte c’è la sede del Pci, dall’altra quella della Democrazia Cristiana.
«La polizia non ha fatto nulla per ritrovarlo. È scandaloso», dice ancora l’uomo. Sciascia ringrazia, torna al suo posto, è debole. Riprende a leggere La passeggiata senza capire una parola, la sua testa lavora in un’altra direzione. Sa che dovrebbe scrivere quel libro in cui difendere l’odiato Moro scaricato dal suo partito, lasciato solo e a morire. Anche se molti non capirebbero.
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